||There is a caos inside us||

Od helldreamer

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Sequel di "There is a caos inside me" Amore. Il sentimento bramato da tutti, quello che è considerato la solu... Více

Chapter 1: Mom's okay.
Chapter 2: My Queen
Chapter 3: The meeting
Chapter 4: Cowardice
Chapter 5: To Punish Himself
Chapter 6: You can't
Chapter 7: Body, Mind and Soul
Chapter 9: Selfish Choices
Chapter 10: One Last Night
Chpater 11: I'll Make You Scream It
Chapter 12: I Am Power
Chapter 13: Our Mother Is A Warrior
Chapter 14: Paradise And Hell
Chapter 15: Crying
Chapter 16: Fight And Blood
Chapter 17: Fuck, I Hate Her
Chapter 18: I'll tell him
Chapter 19: She Did Even Worse
Chapter 20: All As Planned

Chapter 8: Pain

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Od helldreamer

«Io ti ho detto che ti amavo, ma tu ti sei addormentata prima di sentirlo»

Tutto, nella mia testa, nello spazio attorno a me, persino i rumori delle candide onde che si infrangono sul bagnasciuga umido della spiaggia, si è fatto semplicemente silenzioso.

La mia testa, i miei pensieri, i miei demoni, si sono acquietati dentro di me.

Ma la mia anima, no, quella no. L'unico rumore che sono riuscita a captare proviene da quel posto insidioso e marcio dove essa si è sempre crogiolata nei miei peccati: mi è sembrato di sentirlo sulla mia pelle, sulle pareti ingrigite e già tanto ammaccate del mio stupido cuore malato quel crack.

Il suono che ha fatto la mia invisibile, ma fin troppo presente, anima, quando si è definitivamente spezzata. Come un fragile ramo che è stato colpito da un fulmine violento, sul colpo. Si è strappata, auto consumata, ridotta in insensati, svolazzanti, brandelli, non visibili agli occhi umani, indegni di particolari attenzioni.

Li sento volteggiare, dentro di me, e poi poggiarsi nel fondo del pozzo oscuro, la cui acqua nera e impura è la vera me, per rimanere, indifferentemente, immobili.

E tutto, per una semplice, stupidissima frase, lanciata su di me, impregnata di sincerità, che però non so essere autentica o no.

Il vuoto in cui ormai sono piantati i miei occhi da non so più quanto tempo, sembra subentrare nel mio corpo attraverso la pelle scoperta, l'aria che sto respirando a malapena, o semplicemente si sta unendo a quello che c'era già.

Una lacrima silenziosa, distruttiva, scende lungo la mia guancia, ed è come se risucchiasse la luce abbagliante del sole che la illumina, tant'è carica di quei sentimenti che sono stati trattenuti da fin troppo tempo e che si sono manifestati solo in quella piccola quantità di acqua salata che mi sta rigando la pelle del volto.

Sono stanca di lottare.

Me lo ripeto in testa, come una mantra, ma so benissimo che non risolverà un bel niente facendolo, perché nonostante io sia sfinita, ammaccata, rotta, prosciugata, ho ancora qualcosa per cui lottare.

Sono arrivata fin qui, non mollerò mai. Per i miei figli.

«Ti prego, bimba, dì qualcosa» a causa delle parole di Dylan mi risveglio dallo stato di trance in cui ero caduta, mi ricordo della sua presenza a pochi centimetri da me.

Un venticello accarezza la mia pelle e solo in questo momento mi accorgo che siamo sul tetto dell'hotel.

Tsk, incredibile come solo la sua presenza mi faccia dimenticare o, in questo caso, mi impedisca persino di osservare il posto in cui mi trovo.

«Questo..» Deglutisco, prendendomi un pausa da quello che sto per dire, perché se non a lui, farà del male a me, come se anche il mio corpo si rifiutasse di mentirgli in questo modo, ma prendo coraggio. «Questo non cambia niente» la mia voce tradisce la mia faccia che, almeno credo, è imperscrutabile, ma mi impongo di reggere, con tutte le mie forze, il suo sguardo, macchiato di sofferenza e delusione.

«Io non posso perdonarti, Dyl» dico, sul punto di mettermi a piangere come un innocente bambina.

«Iris, per..» Comincia a dire, ma le mie mani, persino prima che me ne accorga io stessa, lo spingono e lo fanno retrocedere di quel che basta per aprire velocemente la porta cosicché le mie gambe, in un modo ancora più rapido, possano prendere a muoversi e a correre giù per le infinite scale che, gradino per gradino, mi portano sempre più lontana da lui.

Mentre corro via da lui però, non mi sento né salva né sollevata.

Mi sento soffocata, come in una trappola mortale.

Oppure, semplicemente incompleta.

Mi sembra che scalino dopo scalino i pezzi del mio essere escano da ogni centimetro dei miei piedi che appoggio per terra, che mi abbandonino, dissipandosi poi nell'aria come nebbia al sole.

Non sapevo però che quello sarebbe stato solo l'inizio della fine.

Dylan

Io non posso perdonarti, Dyl.

Ha detto proprio così, e poi se n'è andata, lasciandomi solo il ricordo ormai lontano del suo profumo, che ho sempre amato, e la sensazione della sua pelle candida e immacolata sotto i polpastrelli sensibili delle mie dita.

E io l'ho lasciata andare via, perché se l'avessi fermata non sarebbe stata una sua scelta. Non potevo costringerla per la seconda volta a stare con me anche solo per altri pochi, effimeri, minuti tra le mie braccia. Eppure lei si è lasciata toccare, da me.

Si è lasciata sfiorare in un modo profano, che le dovrebbe solo provocare ribrezzo se fatto dalle mie mani, da me, ma lei è rimasta. Anzi, lo voleva.

Sentirla di nuovo fremere, tremare, unicamente per il contatto diretto con la mia pelle e con il mio corpo è stato come trovare la strada giusta in un viaggio senza meta. Non sapevo dove stavo andando, eppure sapevo perfettamente che, accanto a lei, ero, dopo tanto tempo, di nuovo nel mio posto giusto. Il posto in cui riesco finalmente a non sentirmi fuori posto, inadeguato, indesiderabile, distrutto.

L'ho lasciata scappare, per la seconda volta, le ho lasciato osservare la parte più fragile e zoppicante di me, e lei se l'è portata dietro di sé, anche se non lo sa molto probabilmente.

Guardo il pavimento di pietrisco, fisso sulla sagoma di quella straziante lacrima, fin troppo eloquente per i miei gusti, che si sta consumando lentamente, come il mio pietoso e consunto cuore, che fino circa dieci lontani anni fa pensavo essere di infrangibile ossidiana.

Mi sbagliavo, cristo quanto mi sbagliavo.

E non mi riconosco più, quando mi guardo allo specchio. Ci vedo solo un giovane uomo, tatuato, che è stato disintegrato dall'interno, dagli occhi vuoti e spenti dai sentimenti, che all'esterno sembra il più bastardo figlio di puttana che si possa incontrare nella vita, ma che dentro nasconde un totale e completo disastro.

Ma lei, la mia lei, per quei pochi ma bellissimi momenti, di armoniosa e pura gioia che è stata capace di farmi vivere, mi ha fatto sentire in pace, come non mi è mai stato permesso di sentirmi durante tutta la mia schifosa, penosa, e insulsa esistenza.

Ma come diavolo ho solo potuto pensare di aver potuto spendere una vita normale insieme a lei?

La parte peggiore, però, è che ci ho davvero creduto, o meglio, sperato. Come non ho mai osato fare. E nonostante questo, l'ho davvero fatto.

Io ci ho sperato, fino alla fine, tuttavia non è bastato. Da quel giorno in quella beata vasca ad idromassaggio, quando ho capito di essere ufficialmente fottuto per il resto dei giorni in scadenza che mi rimanevano, ho creduto all'impossibile, ovvero che lei fosse un segno del destino, un bellissimo e idilliaco lasciapassare per la vita che nel profondo ho sempre desiderato, ma che non ho mai potuto avere.

Per colpa di lui.

Lui che mi ha fatto diventare così, che mi ha costretto a farlo perché voleva un soldato senza nemmeno l'ombra di un qualche sentimento deleterio che mi avrebbe fatto sbandare dalla via che mi aveva imposto lui, che non osasse neanche replicare alla sua parola, la quale era legge quando veniva pronunciata, che non si facesse domande, oppure che non opponesse la benché minima resistenza contro di lui.

Un soldato del caos.

Solo a pensare questo epiteto mi viene da vomitare.

È l'uomo che mi ha generato, anche se per me lui non si avvicina nemmeno all'idea di padre, infettando e lacerando poi, lentamente, l'unico spiraglio di fievole luce che riusciva a raggiungermi nel mezzo dell'oscurità che risiedeva dentro di me, che mi inglobava: mia madre.

Accorgendomi di essere finito a pensare ad una cosa che odio con tutto il mio me stesso interiore, scuoto la testa deluso e amareggiato, e poi mi incammino verso le scale, quasi tentato di lasciarmici cadere per rotolarle tutte e arrivare alla fine di esse come un sanguinolento, ma non più sofferente, ammasso di carne putrida, ma mi costringo a scenderle a passi pesanti e strascicati dall'amarezza.

Riuscirò mai ad essere, anche per una sola volta, felice?

✨✨✨

Iris

Piango.

Piango disperata, come non facevo da fin troppo tempo, rannicchiata su me stessa ai piedi dalla porta del bagno della mia camera d'albergo.

E me lo sono concessa, perché avevo bisogno di esternare e sfogare rabbia, delusione, angoscia, tristezza, represse, che ormai avevano dimorato dentro di me per così tanto tempo da aver piantato le loro velenose radici, le quali non avevano fatto altro che penetrare nel mio essere più profondo e astratto, fino a prendere il sopravvento.

E io mi permetto di piangere, perché so che sono da sola, sia fisicamente che astralmente, perché mi sono assicurata che i miei figli siano al sicuro tra le cure dei miei fratelli, fuori da questa camera, che è diventata la mia personale stanza del terrore, ma anche perché non mi sono mai sentita così completamente e immensamente sola al mondo.

Piango perché sono stanca di soffrire, di lottare, di combattere il mio destino, quello di un esistenza di solo sofferenza e strazio, tortura silenziosa e paura, dolore invisibile, sotto la pelle, e infinita rabbia logorante. Di pezzi rotti, ovunque, del mio cuore di vetro, che piano piano, disgregandosi, stanno tornando ad essere arida e secca sabbia.

Vorrei solo avere delle ali: per volare lontano da qui, da questo rivoltante mondo, verso la libertà a cui ho sempre dedicato le mie speranze più nascoste.

Piango per quelle ali, che fino dalla mia più acerba adolescenza mi sono state tarpate e strappate via con brusca violenza, prima che spiccassi il mio primo volo.

Piango per i miei figli, ignari del totale caos camminante che chiamano madre, e per il quale io annienterei me stessa, la mia mente, la mia anima, e il mio corpo, pur di vederli sorridere e conquistare quell'idromele divino della felicità che io non sono mai riuscita ad assaggiare, sorseggiare delicatamente.

Piango perché mi sembra di non esistere più, di star guardando il mio corpo svolgere una vita che odia profondamente, ma che è costretto a fare, da un punto di vista esterno da esso.

Piango per i miei fratelli, per i miei cari, per la prima vera famiglia che per un tempo troppo non duraturo mi ha fatto sentire davvero a casa, per i loro sforzi nel rendermi felice e spensierata, per ogni sorriso che mi hanno regalato, per il loro supporto. E mi vergogno, perché infondo, tutti quei loro sforzi, alla fine, credo siano stati vani.

Mi sono serviti, certo, ma ora sembrano essersi semplicemente dissipati nel vuoto che mi sta mangiando dall'interno.

Piango, piango e piango ancora una volta, urlando in silenzio, strappandomi quasi i capelli, graffiandomi la pelle.. per lui.

Perché sono consapevole del fatto che potrei scappare da tutto questo con lui, tramite un suo sguardo, uno sfiorarsi delle nostre pelli, una frase pronunciata dalla sua bocca, una sua carezza, una sua risata, un suo abbraccio, un suo sorriso, un percorre con un mio dito le linee leggere e precise dei suoi tatuaggi, che so ancora ora a memoria, un suo bacio, un suo "ti amo"...

Ma fin dall'inizio di questa storia di merda, sono sempre stata una fottuta masochista. E io non posso permettermi di perdonarlo, perché questa.. questa è la mia punizione personale per essere la persona orribile che sono.

So che potrei averlo, anche ora, anche subito, ma me lo impedisco, perché ormai so come va quando mi concedo di provare un po di felicità e senso di pace interiore: tutto, dopo poco, va direttamente a puttane. Se mi concedessi di ritornare con lui anche solo una notte, un'ultima notte, sono assolutamente certa che sarebbe solo l'inizio dell'ennesima raffica e catena di sofferenze laceranti.

È un ciclo, infinito: ogni volta che provo ad essere felice, il mondo si rivolta contro di me. Sembra quasi una punizione divina, e che chiunque o qualunque cosa ci sia lassù ce l'abbia così tanto con me ad avermi condannato ad un cammino di continue ed estenuanti insidie e ostacoli così alti da essere insuperabili.

Piango perché non posso essere codarda: sarebbe fin troppo facile legarsi un cappio al collo e mettere, una volta per tutte, fine a questo eterno supplizio che incombe su di me da quando ne ho memoria. I miei figli, la mia vera famiglia, non riuscirei mai a deluderli ed ad abbandonarli in quel modo codardo.

Non mi sento morire, non voglio morire, solo ed unicamente perché l'ho già fatto.

E quindi non mi rimane altro che un'opzione: rialzarmi, affrontare fino alla fine a testa alta questa vita di merda che sono stata costretta a vivere, migliorata lievemente, ma fortunatamente, dalla loro presenza, e decidermi una volta per tutte di mettere fine a quella che ne è la causa.

L'opzione riguarda ciò che avrei dovuto fare fin dall'inizio, oppure quando ne avevo avuto l'occasione, ovvero l'estirpare ed annientare, con più violenza e dolore perpetuo che io possa esercitare, il cuore ancora purtroppo palpitante e attivo della causa del mio eterno inferno terreno.

Quindi mi alzo, tirando in su con il naso, e poi mi guardo allo specchio, soddisfatta della faccia dipinta e deformata dalla rabbia allo stato puro che mi sta invadendo completamente, dall'adrenalina che mi sta facendo bruciare tutte le vene nel corpo, e comincio a pensare, e pensare.

La vendetta è sempre stata una fissa di cui ero totalmente dipendente, non ne potevo fare a meno. E quindi ora decido che, pur di ottenerla nel modo più aspro è sadico possibile, ritornerò ad essere chi sono sempre stata. Ho rimandato questo momento fin troppe volte.

Infondo, alla mia lunghissima lista di omicidi si dovrebbe aggiungere altro nome da molto tempo.

Patrick O'Brien, preparati, la Leonessa è pronta a darti la caccia.

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