||There is a caos inside us||

By helldreamer

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Sequel di "There is a caos inside me" Amore. Il sentimento bramato da tutti, quello che è considerato la solu... More

Chapter 1: Mom's okay.
Chapter 2: My Queen
Chapter 3: The meeting
Chapter 4: Cowardice
Chapter 5: To Punish Himself
Chapter 7: Body, Mind and Soul
Chapter 8: Pain
Chapter 9: Selfish Choices
Chapter 10: One Last Night
Chpater 11: I'll Make You Scream It
Chapter 12: I Am Power
Chapter 13: Our Mother Is A Warrior
Chapter 14: Paradise And Hell
Chapter 15: Crying
Chapter 16: Fight And Blood
Chapter 17: Fuck, I Hate Her
Chapter 18: I'll tell him
Chapter 19: She Did Even Worse
Chapter 20: All As Planned

Chapter 6: You can't

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By helldreamer

«Ciao, amore» mi risponde Micheal, dall'altro capo del telefono, a migliaia di kilometri di distanza da me e dai suoi figli, con la sua voce allegra, dopo pochi squilli del telefono.

Sono nella camera che mi è stata affidata dall'hotel, ed è da circa mezz'ora che mi sto impegnando a mettere tutto ciò che ho portato con me nelle valige, sia mie che dei miei figli, ordinatamente nei vari armadi.
È una stanza d'hotel particolarmente lussuosa: ha due camere da letto, una mia è una per i miei piccoletti e due grandissimi bagni.

Guardo svogliata tutti i vestiti che mi sono portata, sparsi sopra il mio letto king-size di vimini con un materasso semplicemente morbidissimo, e decido che forse è meglio che risponda al mio interlocutore.

«Hey, amore. Tutto bene?» gli chiedo distrattamente, mentre tento il telefono sulla spalla lasciata scoperta dal vestito nero con lo scollo a barca, senza spalline, aderente e corto fino a metà coscia, mentre tento di suddividere i vari abiti in pile ordinate.

«Oh si, va benissimo, amore. Oggi ho fatto un grande affare!» esclama, con una voce più felice del solito, che ho sentito molte poche volte quando ero a casa.
«Wow, tesoro, sono così felice per te. Te lo meriti» gli dico, ma solo dopo mi accorgo di quanto queste frasi possano essere di circostanza.

Perché Michael non mi fa vibrare il corpo con la sua voce?

Scuoto la testa, confusa da quella vocina nella mia testa, e continuo a sentire la voce di lui al mio orecchio che comincia a parlare e parlare di questo suo grande cliente.
Riesco a cogliere solo l'ultima frase.
«... quindi ancora per un po' non posso raggiungerti là, amore, devo prima finire l'affare, capisci?»

Improvvisamente mi fermo, da tutto quello che stavo facendo, e comincio a respirare profondamente, in silenzio, per calmare i nervi.
Da una parte per sono felice: almeno lui non vedrà Dylan ancora per un po'.
Dall'altra penso ai miei figli. Gli manca la persona che loro chiamano padre, che pensano che sia loro padre, e ne hanno bisogno.

Io ho bisogno di aggrapparmi alla presenza di Michael. Non perché ne sia innamorata, quello credo che non succederà mai. Ma perché è l'unico appiglio reale all'illusione che mi sono creata della mia nuova me, è l'unico appiglio a cui io possa rivolgermi per non cadere nella realtà che è la mia vera vita.

Quella che appartiene a lui. Quella che è fatta di sangue e tradimenti, ma anche quella che è riuscita a farmi smettere di sopravvivere e cominciare a vivere sul serio, nella realtà. Quella senza vita, famiglia e marito perfetto, senza buone maniere, senza cene di lavoro e sorrisi falsi.

Quella in cui annego nell'oceano di lacrime che ho versato, ma dove mi salvavo sempre negli scogli fatti di sorriso dedicati solo a lui e alla mia vera famiglia.

«Mh, okay, si ti capisco perfettamente» sorrido tristemente, provando un grande senso di angoscia.
Alla fine, dovrò supportarmi e affrontare questa nuova sfida da sola, come ho sempre fatto.
«Amore, sei arr..» comincia a dire ma io lo interrompo subito, stanca e soprattutto non volendo più parlare con lui di niente.
«No, tranquillo, non sono arrabbiata. È giusto che tu pensi al tuo lavoro. Ci sentiamo domani» non gli do nemmeno il tempo di rispondere che gli attacco in faccia.

L'avevo già capito da un po' ormai.
La passione c'è stata, all'inizio, ma io ero sola, in preda agli ormoni dopo aver partorito, e non mi sarei mai concessa a lui se non in quelle circostanze. Poi, dopo averlo fatto, avevo intenzione di scappare nuovamente, ma lui mi ha proposto una casa, una situazione economica stabile e, soprattutto, una figura paterna per i miei figli. Come potevo non accettare?

Tutto ciò che ho fatto, è stato per i miei figli.
Solo ed unicamente per i miei figli: per assicurare loro una bella infanzia, una famiglia, una bella casa, tutti i vizi che volevano, un futuro.

Non potevo assolutamente crescerli in un posto a me totalmente sconosciuto, senza soldi né lavoro, da sola, e soprattutto senza un padre, come è successo a me.

Non potevo tornare indietro, mi ero categoricamente proibita anche di pensare a quell'opzione.
Ma adesso, la mia vita fintamente perfetta e le mie scelte mi si sono rivolte contro.

Dylan è qui. Dio santo, Dylan è qui. In questo mio stesso hotel, magari nella camera accanto o in quella dal lato opposto, ma è fottutamente nel mio stesso identico posto e io non so se riuscirò a superare anche questa prova a cui il destino mi vuole sottoporre.

Prendo un grosso sospiro, sconsolata e già stanca di essere qui.

Perché deve essere sempre tutto così difficile per me?
È tanto chiedere un minimo di pace, di felicità?
Mi butto nel letto, incurante dei vestiti, e mi paso una mano sulla fronte sudata.

Ci sarà mai un'attimo di tranquillità per me in questa vita? A questo punto penso che non troverò mai il posto adatto a me in questo mondo.
Ma non mollo, non sono abituata a farlo. Non posso.
Devo pensare ai miei figli, alla loro felicità. E mi sacrificherei anima e corpo per loro.

È finito il tempo a disposizione per pensare a me, ai miei desideri più profondi. Se sono felici loro, allora lo sarò anche io.

Sapendo benissimo che loro, i miei angioletti, dormiranno fino a tardi nella loro stanza lussureggiante, decido che mi merito un'attimo di pausa da questo posto, e che una bella nuotata farebbe al caso mio.
Quindi mi tolgo il vestito, l'intimo, e indosso uno dei miei costumi. Ne scelgo uno a due pezzi, nero: la parte superiore è a fascia, e al centro del petto c'è un'anello di metallo oro che lascia intravedere una parte di seno e la stessa fantasia viene proposta nella parte inferiore, però ai due fianchi.

Prendo una vestaglia aperta di lino nero, semitrasparente, giusto per non andare totalmente in déshabillé in giro per l'hotel. Indosso le mie zeppe di vimini nero, e poi parto alla riscossa, chiudendo la porta a chiave.

Controllo il telefono, in cerca di qualche messaggio di Michael, ma non mi sorprendo quando vedo il blocco schermo totalmente vuoto.
Sbuffo e mi dirigo all'ascensore, aggiustandomi il cappello bianco e ampio di alta qualità sulla mia testa, e successivamente i miei soliti occhiali da sole Ray-Ban.

Voglio solo rilassarmi adesso.
Mi tocco entrambe le orecchie, giusto per sentire di avere ancora addosso le cuffie e poi faccio partire la musica in riproduzione casuale, e quando si aprono le porte dell'ascensore nella stanza enorme che è la hall dell'hotel, cammino velocemente, ma sempre con il mio passo sicuro e audace, verso l'esterno, quindi la piscina.

Noto diversi occhi posarsi su di me, ma come al solito, facendo finta di non farci caso, mi dirigo verso il piccolo bar a forma di capanna di paglia, e ordino Long Island.
Magari un po' di alcool mi farà calmare i nervi per adesso.

Sento solo la musica che rimbomba nelle mie orecchie, ma quando vedo una mano sventolare davanti alla mia faccia, mi costringo a toglierle.

«Si?» sposto distrattamente lo sguardo verso la persona in questione è mi accorgo che è il cameriere di quel grazioso bar.
«Dolcezza, volevo solo dirle che il vostro drink pronto» appoggia il bicchiere rimpinzato di alcool e ghiaccio e poi mi fa l'occhiolino, sorridendo.

Lo guardo, impossibile, squadrandolo dalla testa alla vita, ovvero tutto quello che posso osservare da questa angolazione: avrà una trentina d'anni ed è alto, i capelli biondi cenere scompigliati, ed ha gli occhi scuri come la notte. Il petto muscoloso lasciato scoperto dalla camicia tradizionale hawaiana sbottonata.

«Grazie, e non chiamarmi dolcezza» lo fulmino con lo sguardo da sotto gli occhiali, e poi comincio a bere dalla cannuccia il mio drink, cominciando a vagare tra i social.
Però devo ammettere che il dolce sapore del cocktail è davvero buono.

Sento lo sgabello accanto a me stridere bruscamente sul pavimento, ma non mi disturbo a guardare chi si è appena seduto. Continuo a sorseggiare distratta e a pregare di, dopo aver finito di bere, riuscire a rilassarmi.

«Un whisky doppio» quella voce fa immediatamente allertare ogni singola cellula del mio corpo, e mi fa irrigidire sul posto.
Mi azzardo, lentamente, a spostare gli occhi verso il basso, e noto perfettamente la pizza d'acqua formatasi ai piedi di Dylan, adesso accanto a me, e non riesco a non osservare le sue gambe lunghe e possenti, oppure i suoi muscoli strepitosi che si flettono e rilassano, a pochi centimetri dalle mie.

Tutti questo è un fottuto incubo.

Spero solo che non mi abbia vista, quindi fingo indifferenza e comincio a buttare giù a sorsate più grandi il mio drink, in modo da finirlo il più in fretta possibile e di sgattaiolare via, senza farmi vedere. Quando lo finisco faccio per aprire il borsello che avevo appoggiato sul bancone, ma una mano, a pochi millimetri dal mio gomito appoggiato sul legno del bancone, si posa su di esso, con sotto una banconota.

«Pago io per tutti e due, il resto tienitelo. Magari la prossima volta eviti nomignoli del cazzo» sbotta verso il cameriere, e io rimango immobile, pietrificata dalla sua voce rude e oltremodo scontrosa.
Ma quando capisco il resto della frase non riesco a zittirmi.

«Come, scusa? Forse non ho capito bene» mi giro di scatto verso di lui, ormai in piedi, ma non mi aspettavo ciò che mi si palesa davanti agli occhi.

Un fottutissimo dio greco, ecco cosa mi si palesa, cazzo.
Dylan, in tutta la sua magnificenza, ormai in piedi a poco più di un metro da me, si presenta bagnato dalla testa ai piedi, in un costume nero totalmente appiccicato alla pelle che non lascia niente all'immaginazione, con le sue spalle larghe, il suo petto, le sue braccia, i suoi marmorei addominali del cazzo molto più pronunciati e allenati dell'ultima volta che l'ho visto.

Dio, è.. imponente. Enorme.
Rimango senza fiato a quella visione e mi chiedo come possa essere un umano così spregevole essere una fottuta opera d'arte.
Una vocina, all'interno della testa, nascosta dalla nebbia provocata dall'uomo davanti a me che ormai ha offuscato tutte le mie funzioni cerebrali, mi suggerisce che magari è il momento di smettere di fissarlo come una quattordicenne in preda agli ormoni, e fortunatamente le do ascolto.

Almeno c'erano l'ombra del mio capello e i miei occhiali a coprire la mia faccia da adolescente innamorata.
Improvvisamente, mi ricordo di essere incazzata a morte con l'individuo, dal maledetto aspetto divino, difronte a me.

Lui mi sorride, soddisfatto, e solo dopo capisco il perché.
Ha capito che io stavo cercando di ignorarlo, e quindi sapeva esattamente che quella frase, rivolta al cameriere, mi avrebbe spinta a parlare con lui.
«Sei ancora così prevedibile, bimba» si avvicina di un passo, con la sua andatura da predatore che per un'attimo mia ha fatto girare la testa, ma subito mi riprendo e mi alzo in piedi al suono di quel soprannomi uscire da quelle labbra sataniche.

Mi alzo, e ormai siamo a pochi centimetri di distanza.
«Hai perso molto tempo fa il diritto di chiamarmi in quel modo, stronzo. Non ti riazzardare mai più» lo attacco, ormai furente, e la mia rabbia sale ancora di più quando vedo il suo sorriso crescere ancora di più.

Le mie gambe cominciano a tremare sotto il mio peso, ma anche per il suo sguardo intenso che grava nel mio, ma mi rifiuto di abbassare lo sguardo.
Stiamo a guardarci, a fissarci negli occhi per quella che sembra un eternità, ma nessuno dei due vacilla.

Ma lui, dopo non so quanto tempo, si allontana di un passo, mi squadra da capo a piedi, e poi aumenta se possibile ancora di più l'ampiezza del suo ghigno, che un tempo ho amato.

E ami ancora, cretina.
«Sei sempre stata bellissima, ma, cristo, non potresti essere più meravigliosa, bimba» il suo ghigno si trasforma in un sorriso sconsolato, e il suo sguardo si colma di una dolcezza che avevo visto poche volte galleggiare in quegli occhi nocciola. Il mio fiato si arresta, e le mie gambe stanno veramente tentando di cedere sotto i suoi occhi.

Io lo guardo sorpresa, con il respiro sospeso all'interno dei miei polmoni.
Ma subito, mi riprendo, guardandolo con rabbia.
«Tu non puoi farlo, Dylan. Non puoi» metto avanti in piedi, puntandolo nel pavimento, in una posizione difensiva.

«Fare cosa?» lui si avvicina, e sono sicura che la abbia fatto proprio perché mi sono messa in quella posizione.
«Non puoi piombare qui dopo sette anni, e sperare che tutto questo fottuto casino si rimetta apposto con un drink offerto, tra l'altro facendo una pietosa sceneggiata di gelosia, e dei cazzo di complimenti a caso. Non puoi» gli punto il dito contro, ma lui non vacilla, non fa trasparire nessuna emozione dal viso ormai dipinto solo da quel ghigno. Ma improvvisamente si fa serio, dopo avermi squadrato nuovamente

«Uno, non sono io quello che è piombato qui dopo sette fottuti anni con due figli usciti dal nulla, dopo essere sparita chissà dove, e due, non puoi proibirmi di adularti» incrocia le braccia al petto, allargando anche un po' leggermente le gambe, e io mi trattengo con tutta me stessa a non riposare gli occhi su quei muscoli che sembrano essere stati scolpiti da uno scultore professionista.

Imito la sua posizione, solo con le gambe più strette e mi levo gli occhiali, per osservarlo meglio, oppure per fargli vedere propriamente tutta la rabbia che celavo dietro ad essi verso di lui.
«E non sono io, quello che mi ha usata per strapparmi informazioni e ha finto di essere innamorato di me per quasi quattro anni di storia incasinata, Dylan» finalmente, il suo sguardo imperscrutabile vacilla, e dopo essermi presa questa soddisfazione, gli do le spalle, prendo gli effetti personali che avevo lasciato sul bancone del bar e mi dirigo, ammetto un po' sculettando apposta, verso il mare, riabbassandomi gli occhiali.

La mia soddisfazione regna nel mio corpo per poco tempo, perché subito dopo che un qualcuno si è piazzato di fronte a me e poi piegato in un movimento fulmineo mi ritrovo a culo per aria, urlando frasi di aiuto senza senso.

«Aiuto! Aiuto! Mi vuole molestare! Aiuto!» continuo a gridare ma la sua voce profonda sembra passare sopra le mie richieste assolutamente necessarie e veritiere.

«Scusate tutti, ma è uscita da poco dal manicomio e ancora a qualche problema a rapportarsi agli altri» lo sento dire da sopra di me, e per vendicarmi, dato che i pugni alla schiena non funzionano, gli mordo l'unica cosa che è nel mio campo visivo: la sua chiappa.

«Brutta strega malefica» impreca, ma non mi lascia andare e continua a camminare, anzi sta quasi correndo e continua ad accelerare il suo passo.
Io rido per le sue imprecazioni, ma smetto subito quando mi sento arrivare una ponderosa pacca sul sedere.

«Dylan! Ma come ti permetti?» ricomincio con i pugni alla schiena, e la sua risata mi riempie le orecchie.

Cristo, quanto mi era mancata la sua risata.

No, no, no e no.
Non mi era mancata per niente. Niente di lui mi è mancato. Ne la sua risata, ne i suoi fottuti è bellissimo occhi, o le sue labbra tentatrici, o i suoi capelli morbidi e setosi, oppure..
Diamine, sono spacciata. Più ci penso, più in realtà capisco quanto soffocante è stata la sua assenza in questi anni.

Ma mi rifiuto di cedere. Mi rifiuto, non dopo quello che ha fatto.
«Dylan, mettimi giù, adesso!» urlo, continuando a menarlo, ma i miei pugni sembrano come carezze sulla sua pelle dura e muscolosa.
Magari sarebbe più facile superare questa situazione se non fosse l'uomo più bello mai esistito ai miei occhi.

Sbuffo, sconsolata. Tanto so che non mi lascerà mai andare fino a quando non saremo arrivati alla sua destinazione. Quindi mi fermo, e aspetto che lui si fermi.
Poco dopo, le mie speranze si avverano, ma non proprio nel modo in cui volevo io.

Il mio corpo sbatte contro quella che penso sia una porta, e mi ritrovo il suo viso magnifico, contratto in un espressione furiosa, a troppi pochi centimetri dal mio.

«Ora, io e te parleremo e non ce ne andremo da qui finché non avremo chiarito»

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