E il tempo scivola via

By Maschera_di_fumo

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Premessa
Playlist
Dedica
Prologo
[...]
Capitolo 1
Capitolo 2
Capitolo 3
Capitolo 4
Capitolo 5
Capitolo 6
Capitolo 7
Capitolo 8
Capitolo 9
Capitolo 11
Capitolo 12
Capitolo 13
Capitolo 14
Capitolo 15
Capitolo 16
Capitolo 17
Capitolo 18
Capitolo 19
Capitolo 20
Capitolo 21
Capitolo 22
Capitolo 23
Capitolo 24
Capitolo 25
Capitolo 26
Capitolo 27
Capitolo 28
Capitolo 29
Capitolo 30
Capitolo 31
Capitolo 32 (Prima parte)
Capitolo 32 (Seconda parte)
Capitolo 33 (Prima parte)
Capitolo 33 (Seconda parte)
Capitolo 34 (Prima parte)
Capitolo 34 (Seconda parte)
Capitolo 35
Capitolo 36 (Prima parte)
Capitolo 36 (Seconda parte)
[...]
Capitolo 37
Capitolo 38
Capitolo 39
Capitolo 40
[...]
Epilogo

Capitolo 10

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By Maschera_di_fumo

Si chiuse la porta alle spalle, sospirando rumorosamente. Non poteva resistere un minuto di più, doveva prendersi una pausa da quei due. Passò una mano tra i suoi ricci castani scendendo le scale e dirigendosi in cucina. Si verso dell'acqua.

«Non starai rubando i miei biscotti nascosti nella mensola in alto a destra, vero?» lo destò, facendolo sussultare, quella voce femminile e squillante, energica.

Joshua si voltò verso la ragazza, aveva una maglia a maniche corte che le arrivava alle coscie come una gonna, dei leggins neri e delle ciabatte con gli unicorni, di gusto discutibile. I capelli biondo scuro, raccolti in una coda alta disordinata e, quei pozzi verdi, lo scrutavano in un modo che Josh non riuscì a cogliere. «Ellen, che ci fai qui?», chiese ignorando il sarcasmo che, a quanto pare, caratterizzava la famiglia White.

«Potrei farti la stessa domanda», ribattè prontamente mentre si avvicinava ad una mensola.

«Touchè», sospirò pesantemente, «Non riuscivo più a sostenere la conversazione con quei due», ammise. «Stanno discutendo dell'appuntamento tra Dean e Wendy».

«Wendy non è la ragazza che ti piace?» si fermò con la mano, che si accingeva a prendere una busta di biscotti, a mezz’aria.

«Si, ma Wendy è interessata a Dean e viceversa. Il mio è sempre stato un amore non corrisposto», si sforzò di sorriderle. «Tranquilla, io e Dean abbiamo chiarito. Solo che mi ci vuole del tempo affinché non mi dia più fastidio», aggiunse notando il dispiacere in quegli occhi verde prato.

«Ti capisco, anche io ho un amore non corrisposto», ammise abbassando il capo, sembrava che il pianale della cucina in quel momento fosse molto più interessante. Se le sentiva puntate addosso, quelle iridi color cioccolato fondente.

«Mi dispiace» asserì comprensivo, «Spero che tu abbia più fortuna di me».

«Non sa neanche che esisto», confessò alzando finalmente lo sguardo.

«Dev'essere una vera talpa per non accorgersi di una bella ragazza come te», le sorrise sincero poggiando il bicchiere nel lavandino. «Torno da quegli idioti» finì, salutandola ed incamminadosi verso la stanza, lasciando una ragazza con un timido sorriso sulle labbra.

Il suo turno, dietro al bancone, era ormai iniziato da un’ora e di Bob Harden non vi era traccia. Doveva comunicarglielo al più presto in modo che avesse avuto tempo per sostituirlo e non recargli danno. Sospirò pesantemente mentre asciugava, con un panno, quel bicchierino da liquore. Anche se vi erano pochi clienti, era stata comunque una giornata pesante per il suo corpo ancora debilitato.

«Un bicchierino di Whisky», gli ordinò un uomo davanti a lui.

«Si, arriva su-», all’alzare il capo, prima concentrato sul bicchiere, lo sguardo si posò su quelle iridi azzurre, simili alle sue. Cosa ci faceva lì quell’uomo? Le palpebre si spalancarono, stupite, basite di ritrovarselo dinanzi.

«Ciao Victor», lo salutò l'uomo dai capelli biondi come l’oro. «Non ci si vede da un po'», provò ad ironizzare ma, dall’espressione stizzita del giovane, non era riuscito nell’intento.

«Vuoi del Whisky per poterti dare fuoco? Se vuoi ti aiuto», lo schernì, acido.

«Non scherzare», lo ammonì repentinamente.

«Chi ti ha detto che lavoro qui?» chiese mentre versava la bevanda nel bicchiere e la posava sul bancone dinanzi al “cliente”. In quel momento, avrebbe tanto preferito uno di quei ricconi altezzosi che servire quello stercorario di uomo.

«Un uccellino, e mi ha riferito anche che hai il cancro come tua madre», ammise iniziando a sorseggiare il liquore. Non doveva essere abituato a quella gradazione perché, a quel piccolo sorso, arricciò il naso e le labbra si incurvarono in una piccola smorfia. Forse aveva bisogno di alcol per sostenere quella conversazione con l’azzurrino.

«Di all’uccellino di farsi i cazzi suoi.»

«Modera i termini.» lo richiamò, «Mark è un brav’uomo».

«Al contrario di te, Thomas», constatò sempre più acido. Se avesse potuto gli avrebbe davvero dato fuoco e ci si sarebbe perfino scaldato le mani.

«Sono tuo padre», ribadì corrugando la fronte.

«Avrei da ridire su questo», avrebbe tanto voluto cacciarlo dal locale, ma sarebbe stato licenziato prima del previsto. «Dov'eri quando la mamma stava male? Dov'eri quando avevamo bisogno di te? Dov'eri quando io avevo bisogno di te? Non ti sei neanche presentato al funerale quando la mamma è morta.» ormai non si sarebbe fermato, le parole uscivano dalla bocca come un fiume in piena. «Io non ho un padre, non l'ho mai avuto», poi sbuffò un sorriso nel vedere il volto sbigottito dell’uomo. «Pensavi che tenessi per me ciò che penso su di te come gli alt-», il pugno dato con violenza sul bancone lo interruppe. Thomas lo guardava in cagnesco mentre stringeva sempre più forte quella mano, chiusa, sulla superficie.

«Basta così. Sono venuto a farti una proposta, non a lirigare», asserì lapidario. La mandibola si muoveva rigida e la vena sul collo sembrava scoppiare.

«Non voglio nulla da te, non voglio neanche ascoltarti», fece per allontanarsi da lui, ma lo fermò prendendolo per il braccio destro. «Che fai?! Lasciami!» cercò di scrollarsi dalla presa, invano, le energie erano andate a farsi benedire un bel po' di tempo fa.

«Fammi finire!» gli ordinò stizzito, «Appena ho saputo la situazione in cui ti trovi ho parlato con mia moglie ed abbiamo deciso che ci farebbe piacere tu venissi a vivere da noi. A me farebbe piacere venissi a vivere da noi.» sottolineò, «Non avresti più problemi economici e potremmo prenderci cura di te durante la terapia». Una risata priva di divertimento squarciò la sala. Sembrava graffiare prepotentemente le mura del locale e rovinare l'elegante carta da parati.

«Sei una testa d’uccello», finalmente riuscì a farsi lasciare, «Preferisco stare sotto un ponte, febbricitante con il respiro che inizia a mancarmi piuttosto che venire da te». Era furibondo, si poteva notare dal respiro accelerato ed i pugni stretti lungo i fianchi.

«Ragazzo», li interruppe Harden, «Garrow mi ha riferito che dovevi parlarmi».

«Si, signore», annuì.

«Bene, ti faccio sostituire da mio figlio, vieni nel mio ufficio», fece un cenno con il capo per indicargli di seguirlo, poi lo precedette.

«Dimmi che ci penserai», Thomas cercò conferma che non arrivò. Ricevette solo un’espressione di disgusto prima che il ragazzo seguisse il proprietario del locale. Un sospiro concluse quella discussione piena di risentimento.

L'azzurrino era seduto su una delle due sedie in pelle, davanti alla scrivania in mogano, nell’ufficio del signor Harden. Le pareti riprendevano il motivo della carta da parati del locale, color panna, con il battiscopa in legno nero. Su di esse vi erano appese varie fotografie di cui, in una, vi era raffigurato il proprietario il primo giorno d'apertura del bar. Era molto più giovane, i capelli ora brizzolati, erano neri come la pece, tirati indietro con del gel. In tutti quegli anni non aveva mai pensato di cambiare acconciatura. La corporatura alta ed impostata avvolta sempre da indumenti eleganti. Si poteva dire che il locale lo rispecchiasse appieno. Sulla scrivania, oltre al computer fisso, vi erano fogli e documenti impilati accuratamente. Sembrava non facesse molto uso del mobile portadocumenti in acciaio, composto da tre enormi cassetti, posta di fianco alla scrivania. La finestra, oscurata dalla tenda grigio pallido, si ergeva dietro il proprietario intento ad armeggiare sull’automa.

«Allora», iniziò lasciando il computer ed indirizzando la sua attenzione verso il giovane. «Cos’è successo, ragazzo?»

«Signor Harden, andrò dritto al punto», strinse i pantaloni corvini, «Io ho il cancro come mia madre». Bob sgranò gli occhi, pieni di stupore. Boccheggiò un paio di volte ma, Victor non lo fece parlare. «Ieri ho preso la giornata di ferie per la chemioterapia.» ammise, «Volevo chiederle un favore».

«Dimmi pure», rispose apprensivo.

«So che dovrò licenziarmi perché la chemio non mi permetterà più di lavorare, volevo chiederle se poteva aumentarmi i turni così da poter mettere qualcosa da parte», strinse maggiormente il tessuto. «Glielo sto comunicando in anticipo in modo che possa sostituirmi con facilità», aggiunse.

«Ragazzo, mi dispiace molto per la tua situazione. So quanto hai sofferto per tua madre, so quanto hai faticato lavorando qui dall'età di quindici anni. Per me va bene aumentarti il numero di turni ma, come farai con la scuola? Sei sicuro di poter fare questo sforzo?»

«Signore, se non guadagnerò qualche extra non potrò né pagare l'affitto, né fare la spesa. Se salto un paio di lezioni scolastiche andrà bene, deve andare bene.»

L'uomo sbuffò, quel ragazzo era testardo peggio di un caprone, non lo avrebbe mai ascoltato. Si ritrovò ad annuire, «Dopo che ti sarai licenziato, se un giorno ti sentissi di lavorare, puoi tornare senza problemi per una o due giornate».

«La ringrazio! La ringrazio davvero!» era commosso dalla bontà di quell'uomo. Aveva fatto tanto per lui e, adesso, gli aveva concesso quell’ennesimo favore.

«Non ringraziarmi, ragazzo. Sei un gran lavoratore e sei sempre stato impeccabile con i clienti. Per qualsiasi cosa, non esitare a chiedere».

Price annuì vigorosamente, alzandosi dall’elegante sedia. «La ringrazio, adesso torno a lavoro», annunciò per poi uscire dall’ufficio.

Era ormai tornato a casa, stanco. Vi aveva impiegato più tempo del solito per tornarvici, questo perché il suo corpo era stremato, letteralmente. Aveva dolori ovunque, perfino l'aria sembrava pesargli sulle spalle. Entrò nel suo appartamento vuoto chiudendosi la porta alle spalle. Poggiò la schiena su di essa e si lasciò scivolare fino a sedersi a terra. Mirava dinanzi a lui, nel buio, senza soffermarsi davvero su ciò che aveva davanti. La conversazione avuta con Thomas Price gli investì la mente procurandogli una leggera emicrania. Come aveva avuto il coraggio di proporgli di andare a vivere da lui? Non lo vedeva da anni ed aveva avuto la faccia tosta di fargli quell’assurda proposta. Portò le gambe al petto e le strinse maggiormente a sé con le braccia. Quello stesso uomo che lo aveva abbandonato lasciandogli responsabilità troppo grandi per la schiena di un ragazzino. Ricordava bene i suoi coetanei che si godevano appieno l’adolescenza mentre lui, doveva preoccuparsi del denaro per sopravvivere, le bollette, l'affitto, la malattia di sua madre… Poggiò la fronte sulle ginocchia e scoppiò in un pianto che avrebbe dovuto essere liberatorio, ma non lo fu. Alzò il capo stringendo, tra le mani, quei ciuffi azzurro elettrico. Il viso rosso e le lacrime che graffiavano le gote. Si mordeva con forza le labbra ormai rosse, umide. «Maledizione!» urlò pieno di rabbia, fino ad incediarsi la gola. Si alzò il più velocemente che poteva, con l’espressione dolorante in viso, ma non gli importava. La cosa che gli faceva più male era che, non poteva fidarsi di nessuno, nemmeno di Mark Barlow, il medico, nonché amico dei suoi genitori. Si sentiva maledettamente solo, abbandonato, tradito. Si tolse il giubbotto e tirò su con il naso. Piangere in quel modo non avrebbe risolto nulla, eppure, in quel momento non potè farne a meno. Si asciugò le lacrime passandovi le dita slanciate. Doveva farcela, lo aveva promesso a sua madre. Trascinò pesantemente i piedi fino alla propria camera, si buttò sul letto provando del sollievo per le sue povere e stanche membra. Ed adesso? Cos’avrebbe dovuto fare? I soldi extra sarebbero bastati? Non era umanamente possibile, doveva inventarsi qualcos'altro che gli permettesse di ottenere onestamente più denaro. Si tolse pigramente le scarpe per rannicchiarsi in posizione fetale. Osservò la stanza buia, illuminata solo dalla luce lunare che attraversava timidamente la vetrata della finestra. In quei momenti, avrebbe tanto voluto una carezza, un abbraccio, del calore umano che gli dicesse “non va tutto bene, ma non sei solo”. Inevitabilmente, si ritrovò a pensare a quel biondino insistente che gli aveva confessato che provava interesse verso di lui ma che, si vergognava allo stesso modo. In realtà, la seconda parte non l'aveva ammessa direttamente, ma glielo aveva fatto capire chiaramente. Quello stupido biondo, con quegli stupidi occhi color miele, con quelle stupide labbra che avevano sfiorato le proprie, delicatamente. Sfiorò con i polpastrelli quelle due strisce di carne, sottili, che contornavano la bocca. Chiuse le palpebre e, poté quasi giurare, di sentire ancora quel calore. Com'era possibile che gli mancasse già? Lo conosceva da poco, no? Danny doveva servirli da lezione, non spingersi tra le braccia di un ragazzo popolare e confuso. Sospirò nuovamente, togliendo la mano e coricandosi sulla schiena per guardare il bianco soffitto. Sarebbe stata una lunga notte.

Il biondo si ritrovava a mordersi nervosamente le labbra mentre fissava il cancello della scuola, in attesa di intravedere quella figura dai capelli azzurri.

«A momenti ti verrà un ictus», lo canzonò Mcdaniel.

«Se fissi il cancello non penso si materializzerà per magia», aggiunse invece Joshua.

Christopher sbuffò rilassando le spalle, anche se lo stavano prendendo per i fondelli, avevano ragione. Nulla sarebbe cambiato se avesse fissato il cancello della Boston High School come un toro teso ed imbufalito che punta il mantello rosso del toreador. Il fatto è che era nervoso, ansioso di rivedere Vick. Voleva chiarire la situazione al più presto per poter star accanto al ragazzo che gli piaceva. Si voltò verso i suoi amici, «State scherzando?! L'ansia mi sta divorando vivo e voi mi prendete in giro?» chiese incredulo. Era vero, l'ansia lo stava consumando come l'acido sull’ossido ferrico formatasi su una lastra metallica*.

«È troppo divertente», ridacchiò il moro, seguito dal riccioluto.

Chris si ritrovò a sospirare, «Grazie tante», asserì seccato con sarcasmo.

«Di nulla amico», ricevette una pacca sulla spalla da Dean.

«Quello non è Victor?», il biondo si voltò immediatamente. Se fosse stato un gufo si sarebbe fatto meno male al collo. Era lui. Allora perché, dopo averlo visto, dopo aver incrociato il suo sguardo, si stava dirigendo verso il gruppetto di bulli? Perché?

*Ossido ferrico: l’ossido ferrico, o meglio, l’ossido ferrico idrato è comunemente chiamata ruggine. Questo processo ossidativo avviene su una superficie di ferro esposta ad aria ed umidità.

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