La voce del buio

By Elanymind

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IN REVISIONE - SECONDA STESURA I capitoli disponibili sono da considerarsi delle bozze. More

La voce del buio
Playlist
Prologo
Sono pazza
Non sono pazza
Aithérios
Samanta è banale
La voce del buio
Un segreto inconfessabile
Karma
Distanze e sincronie
A volte succede
Ho'oponopono
Incolore
Estranei
L'amore non importa
Tutti uguali
Apatia senza cuore

E poi, un giorno...

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By Elanymind


Andare all'università tutti i giorni, prendere l'abitudine di fermarsi in biblioteca, riallacciare i rapporti con le persone... tutte cose che regalano allo scorrere del tempo un andamento pacifico e sopportabile. L'importante è avere un programma, un qualcosa a cui dedicarsi. Non trovare il tempo di guardarsi allo specchio o di soffermarsi a farsi delle domande.

Domenica mattina. Spalanco gli scuri e con due bracciate enormi raccolgo una quantità vergognosa di indumenti e calzini sporchi sparsi per la camera. Cambio le lenzuola segnate dal mascara, passo la scopa di lana sul parquet, chiedendomi come faccio ad avere ancora capelli in testa se un gomitolo è proprio lì, per terra. Raccolgo le immondizie, butto via fazzoletti e cartacce, pulisco i vetri della finestra e sento i muscoli delle mie braccia vivi dopo tanto tempo. Mentre con un pennellino spolvero la tastiera del computer, penso alla mia raccolta di pensieri e al fatto che ancora non gli ho dato un nome. Non ho la pazienza di aspettare l'ispirazione; nell'attesa a "Senza nome" io mi ci affeziono e inizio a crederci. Mi interessa di più trovare un filo logico che possa rilegare insieme tutte le parole: passare da mente a corpo.

Nora fa parte del mio nuovo programma. Da circa due settimane ci vediamo quasi tutti i pomeriggi. Prendiamo del caffè da asporto e mi porta a vedere i posti più belli di Venezia, specialmente le piazze vecchie verso l'ora del tramonto sulle quali circolano misteri e fantasmi. L'ultima storia mi dà ancora gli incubi; un tizio veneziano che faceva il brodo con la carne di bambino. Gli hanno tagliato i piedi e le mani e l'hanno fatto strisciare fino a piazza San Marco per l'ultimo atto.

Il posto più bello in cui mi ha portata è stata una libreria piccolina, in cui ogni spazio è riempito da libri. Libreria Acqua Alta, si chiama. Gli scalini sono fatti di libri consunti con un pezzo di moquette rossa sopra; una gondola sul pavimento è riempita da volumi vecchi, gli scaffali sono delle vere e proprie muraglie libresche, un sincretismo di epoche e tradizioni. Ci sono pezzi più unici che rari, intere collezioni e titoli sconosciuti con, di tanto in tanto, un gatto grassoccio e ruvido seduto sopra.

Nora ha detto che vuole farmi conoscere il suo ragazzo; a breve ci sarà una festa, dopo gli esami, perché finalmente è riuscito a organizzarsi con un paio di ragazzi conosciuti da poco e proveranno a fondare una band. Eravamo sedute sotto i portici di piazza San Marco, a guardare la fiumana di gente e i piccioni. Di più non potevamo fare. «Sicura che qui non ci facciano pagare anche l'aria?» le ho chiesto. Quei sette euro di un caffè da bere al banco mi erano rimasti impressi, e stavo riuscendo a dimenticarli solamente ammirando la potenza, la bellezza architettonica e monumentale della Basilica e di Palazzo Ducale. Si era messa a ridere e aveva tirato fuori dal suo zaino alla Mary Poppins un pacchetto di patatine e due lattine di tè verde comprate in un ristorante cinese. Non mi ha chiesto se sapessi leggere che diavolo ci stesse scritto sopra.

Dopo un cin cin fatto con una patatina a testa, ha cominciato a parlarmi del suo ragazzo e della nuova band. Si sono conosciuti a lavoro e inizialmente si odiavano. Insomma, Giorgio, il ragazzo di Nora, era responsabile di reparto ed era trattato con un occhio di favore dal titolare. A Giorgio in realtà non importava nulla e lasciava semplicemente le cose scorrere attorno alla sua bolla scoppiettante di segrete ambizioni. Poi un giorno quei due, chiamiamoli X e Y perché non ricordo i loro nomi, l'avevano sentito canticchiare, chiuso nella sala delle macchinette del caffè, pensava che non ci fosse nessuno. Così si erano conosciuti davvero.

Alla festa annunceranno il nome che hanno scelto e presenteranno un paio di canzoni.

Il nasino di Nora si era fatto rosso come una pesca matura. La grossa sciarpa di lana raccoglieva le briciole delle patatine.

«Pensa che fortuna. Conoscersi così.» Ho commentato.

Lei ha fatto una smorfia. «Smettila, non è fortuna. Non esiste il caso, Sam. Mai. Ce le attiriamo le cose.»

«Quindi io attiro la sfiga» mi sono lamentata, più concentrata sulle patatine che su di lei; me ne ha schiaffata via una – attirando un pericoloso numero di pennuti. «Pensaci un attimo. Sette miliardi di persone e lui ha incontrato quelle giuste nel posto giusto.»

«Non sa ancora se sono quelle giuste. Si sono appena conosciuti.»

«Quante probabilità c'erano che incontrasse sul posto di lavoro un bassista e un chitarrista della sua età, entrambi amanti dello stesso genere musicale e disposti a fondare un gruppo? Ammettilo, perché ti fa così paura? Non capisco perché per tutti sia così impensabile che la mente umana sia in grado di fare questo. È scienza, è fisica quantistica! Allora dovrebbe essere ridicolo anche un ammasso di ferraglia che sorvola il cielo con delle persone a bordo, la fotosintesi clorofilliana, il sistema immunitario...»

«Li ha incontrati sul posto di lavoro perché è lì che va tutti i giorni! Le probabilità erano piuttosto alte.»

«Ma quelle persone potevano, che ne so... amare la pesca, la palestra o i videogiochi! E invece no. La musica. Quella musica. Perché non il metal o il rap?»

«Cosa mi fa paura?» Stavo ancora pensando a quello che aveva detto prima. Quando qualcuno mi accusa di aver paura mi sento punta nel vivo, e non posso far a meno di sentirmi infastidita. Voglio dire, sono cose tra me e me stessa, gli altri non dovrebbero ficcarci il naso.

«Ammettere che siamo noi ad attirarci le situazioni. Che le cose possano dipendere da noi. Il pensiero è la nostra arma più potente, è il vero motore di ogni cosa.»

Non me l'ero sentita di continuare la conversazione, e lei ha lasciato perdere. Per un momento avevo percepito qualcosa di terribile, la stessa sensazione che si proverebbe, credo, camminando rasenti la parete di una montagna rocciosa che sta per crollarti addosso, di cui senti già gli scricchiolii. Avevo capito in fretta che Nora sapeva essere irritante e speciale allo stesso tempo, con tutto quel suo fatalismo. Per lei nemmeno il pennuto che defeca sulla tua spalla il giorno della tua laurea è un caso. Dopo mezz'ora – ed è questo il bello tra noi – tutto era tornato come prima e si è messa a descrivermi per filo e per segno come raggiungere la festa, che si terrà a Venezia. L'idea mi piace e mi spaventa allo stesso tempo. In questa settimana mi sono calata in una bolla di tranquillità contenente me, l'università, casa mia e Nora.

Ogni tanto fisso Nora di nascosto. Mi sforzo di ricordare un momento in cui l'ho vista parlare con qualcuno. Non riesco a ricordarlo. Mi faccio venire in mente qualche ricordo, mi immagino persino una scena in cui lei paga il conto o si scontra con qualcuno e chiede scusa, ma alla fine mi sembra tutta immaginazione, una patetica illusione autosuggestionata.

Un vago batticuore mi fa tornare al presente. Il mio sguardo si è soffermato sul vetro della finestra di camera mia e cerca di mettere a fuoco qualcosa. È il riflesso di un viso. È Jonah, nel parcheggio. Sembra molto arrabbiato. Sta litigando al cellulare, camminando avanti e indietro. Il bagagliaio della Punto verde bottiglia è spalancato e dentro c'è un grande zaino da campeggio. C'è anche una borsa frigo.

Jonah ficca il telefono in tasca, si accede una sigaretta e si siede sconsolato su una panchina.

Continuo le mie pulizie, negando a me stessa l'evidenza; lo tengo d'occhio, lo scruto. Se ne sta lì a guardare il cielo con la terza sigaretta tra le labbra. Provo un irresistibile, spaventoso impulso.

Decido di andare a fare una passeggiata. Magari prendo le altre scarpe ed esco dal garage, pazienza se si affaccia sul prato.

Passo davanti a Jonah, a qualche metro di distanza. Sento che mi fissa, ma non dice nulla.

«Ciao.» Dico, distratta.

«E io che pensavo mi stessi ignorando.»

Mi fermo, mi affiora un mezzo sorriso sulle labbra. «Mi stavi spiando come al tuo solito?»

«No. Ma se fossi malizioso giurerei di aver avuto l'impressione che fossi tu, a spirami dalla finestra. Per fortuna che non lo sono.»

«Ok, questa conversazione può finire qui. Buona giornata.» Tutto sommato divertita, e un pizzico delusa dalla mia vigliaccheria, gli do le spalle.

«Mi prendi in giro?»

«Prego?»

«Davvero, quando dici prego sembri scema. Comunque è ovvio che la mia giornata è una merda, immagino che la cosa ti rallegri.»

Mi risulta incredibilmente semplice rispondere, anche se il cuore mi batte forte. «Lo vedo che hai avuto una brutta mattinata. Ti hanno dato pacco?»

«Un bel pacco grosso, con dentro il pranzo e ore di impegno per creare la playlist perfetta per una giornata al lago.»

«Ahi...»

«Sì, fa male. Così, all'improvviso, tutti si sono ricordati di avere un impegno.»

«Probabilmente sono tutti troppo fatti.»

Jonah si zittisce. La sua espressione sorpresa mi suggerisce che non aveva valutato questa ipotesi. Il suo umore cala a picco e un po' mi sento in colpa.

«E la tua ragazza?»

«È compresa nei "tutti".»

«Oh... mi dispiace.»

Jonah si alza. Ecco, la mia occasione che va in frantumi. La nuova me che si dissipa nel regno delle possibilità infrante. Arrossisco, schiudo le labbra, sto per fare una follia. Per la razionalità mi prende per i capelli e decido che è troppo, davvero troppo rischioso uscire dalla zona comfort, che detta così pare una stanza con le poltrone, le massaggiatrici, maxischermo e rifornimento perpetuo di patatine, e invece è un luogo insano di fragilità e illusioni facilmente manipolabili. Viaggio con la mente così lontano che per forza Jonah dev'essere salito in macchina e dev'essere fuggito. Invece mi rendo conto, con un vago senso di stordimento, che lui sta rovistando nello zaino. Tira fuori un tramezzino. «Vuoi?»

«Grazie. No, grazie.» Arrossisco di nuovo. L'ho ringraziato per il pensiero che ha avuto nei miei confronti e lui ora mi guarda come se fossi... qualcosa di strano, con la testa appena inclinata. «Io torno dentro.»

«Non stavi andando a fare una passeggiata?»

Ora mi bollono anche le orecchie. «No. Testavo la temperatura.»

«Sì... be', è la temperatura perfetta per una giornata a Barcis.»

«Buon per te, allora.»

Una vocina comincia a bisbigliare stramberie nel mio cervello, non è che... ti sta invitando? L'unica cosa che riesco a fare per non vanificare un ipotetico e utopico approccio da parte sua è non entrare ancora in casa. Temporeggio. Mi pare che in giardino ci siano un bel po' di foglie da raccogliere.

«Testi la temperatura perché devi uscire?»

«Io... no. Magari mi metto in giardino a leggere.»

«Senti hai capito benissimo che ti sto chiedendo di venire con me. Sì o no?»

Sono così colpita che mi manca il fiato. «Oh, beh... spudorato.»

«Non te lo chiedo un'altra volta. Però Teresa ha preparato un sacco di panini e nessuno li mangerà. Io allora salgo in macchina.»

«Aspetta, ho il pigiama sotto!»

Jonah mi squadra, non gli sembra un'informazione degna di nota. «Dai vestiti. Vestiti pesante.»

«Ma quanto dista da qui?»

«Non sei mai stata a Barcis?»

«No...»

«Mezzoretta. Pranziamo lì, facciamo una passeggiata e torniamo. Ti senti meglio ora?»

«È che sono confusa... da questo invito, ecco. Mi stai chiaramente dicendo "i miei amici non vengono e tu mi sembri un buon ripiego", che ci sta, per l'amor del cielo, non siamo mica amici, tu mi offri dei panini e io un po' di... compagnia...»

Jonah mi sta fissando con la bocca schiusa. Alza una mano per stopparmi. «È funzionale, no?»

«Parliamo di cose che non si dovrebbero dire, ma solo pensare, circa i rapporti umani.»

«Mi stai facendo cambiare idea.»

«Meglio se ci ripensi ora, piuttosto che a metà strada.» Sfreccio, con il paraocchi, verso l'uscita d'emergenza.

«Se non hai voglia basta dirlo.» Taglia corto lui, visibilmente scocciato.

«Ho voglia.»

Jonah molla la presa sulle chiavi, infilate nel motorino. «Allora vestiti. Ti aspetto. Non serve che porti niente. La borsa... chiaro. Il portafoglio, dei fazzoletti... non che tu debba pagare qualcosa. Cristo, mi fai diventare scemo.»

«Lo so. Vado.»

Dopo almeno quindici minuti, Chiara mi blocca all'ingresso spegnendo l'aspirapolvere. «Dove vai? Non devi studiare?»

«Wo, hai tagliato le tappe.»

I suoi occhi sono allarmati e disorientati e per nasconderlo mette su il viso autoritario che non risulta mai troppo convincente.

«Vado via, torno per cena. Sì, mi porto via i libri» tiro fuori dalla tasca un angolo della mia agendina.

«Dove vai?»

«Barcis.»

Rimane stranita. Non è che la mia vita sociale abbia mai avuto questi picchi. «Con Teresa? Devi prima pulire la tua camera, me lo avevi promesso» dice severa, perché questa è pur sempre casa sua.

«Già fatto» sorrido compiaciuta. Davvero, compiaciuta.

Chiara ricalcola la sua posizione e il viso le si addolcisce. Sospira. «Quand'è che sono diventata così vecchia? Torni per cena?»

«Certo.»

Strofina una mano sul grembiule, mascherando un gesto impacciato. «Bene, perché ho proprio voglia di ordinare una pizza maxi.»

Vorrei avere un occhiello nel petto per farle vedere quella complicità e quella serenità che mi è sbocciata dentro, senza il filtro delle parole. Le sorrido, perseguitata dall'idea che non sarà mai abbastanza e che devo imparare a parlare.

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