Fatum

By azurahelianthus

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#1 VOLUME DELLA SERIE CROSSED PATHS «𝑇𝑒 𝑠𝑒𝑖 π‘™π‘Ž π‘šπ‘–π‘Ž π‘›π‘œπ‘‘π‘‘π‘’ π‘ π‘’π‘›π‘§π‘Ž 𝑠𝑑𝑒𝑙𝑙𝑒». Gli umani s... More

Esergo
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Tecum [Sequel]

31.

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By azurahelianthus

«Dove stai andando?». Posai il mio sguardo su Erazm, che era appena uscito dalle porte dell'ascensore e mi fissava confuso, con un cipiglio sul volto.

Alzai le spalle, fasciate da una maglietta a collo alto nera, semplice e molto aderente. «Vado a fare una passeggiata per calmare i nervi».

Toccai un punto debole per convincerlo che andava tutto bene, che non c'era nulla di cui preoccuparsi. «Sai che ogni tanto ho bisogno di stare da sola».

Annuì comprensivo. «Quando torni non perdere nemmeno un secondo e vieni a cercarmi. Avrò tutti i pensieri rivolti a te finché non torni qui da me». Girò a sinistra, probabilmente diretto al salotto, dove si trovavano gli altri.

Camminai a passo deciso con i miei stivali di pelle nera, uscendo fuori dall'hotel e chiamando un taxi per poter arrivare alla mia destinazione. In realtà non dovevo fare nessuna passeggiata per calmarmi i nervi del corpo, non dovevo affatto bisogno di stare da sola, ma tutt'altro, avrei voluto rifugiarmi nel posto più affollato solo per ricordarmi di essere viva.

Quando una macchina bianca si fermò davanti a me, entrai per sedermi sui sedili di pelle nera e sospirai.

«Mi porti al Megiddo National Park per favore».
Dissi in ebraico, malgrado ormai la maggior parte degli Israeliani capissero anche l'inglese.

Il signore di mezza età annuì, partendo poco dopo verso il luogo che avevo menzionato. Il centro città lasciò il posto a una strada simile ad una campagna, piena di enormi campi verdi, alberi e strade poco asfaltate.

Quando arrivammo ad un punto poco distante dall'entrata del parco, mi sporsi in avanti.

«Può fermarsi qui». Scesi dall'auto, facendone il giro completo per andare verso il finestrino dal lato del guidatore. Presi i soldi che avevo messo in tasca in fretta e furia qualche ora prima di lasciare la camera, fregandomene se fossero troppi rispetto a ciò che avrebbe richiesto.

«Può tenere il resto».

Mi osservò sorpreso, con quei suoi occhi grigi gentili, e poi sorrise. «Shalom aleichem».

La pace sia con voi.

Ricambiai il sorriso e mi allontanai per permettergli di andare via. «Aleichem Shalom».

Su di voi sia la pace.

Mi incamminai verso il bosco, con il terreno secco e polveroso, incontrando alcuni sassi solitari e poca natura. Gli alberi erano l'unico tocco di verde in quella piccola foresta poco distante dal luogo in cui si sarebbe svolta la battaglia, quella che ci aveva distrutto mentalmente uno ad uno, giorno dopo giorno, allenamento dopo allenamento.

Quella mattina mi ero svegliata presto, uscendo dalla camera il più in fretta possibile, già vestita in modo adeguato per ciò che avremmo dovuto affrontare, comprese le armi che mi premevano la pancia, legate ad una fascia nera dentro la maglia. Una volta arrivata al Megiddo, le avrei legate sopra la maglia, in bella vista come un avvertimento. Ero stata occupata a sorvegliare il mio demoniaccio fino a quando non si era finalmente deciso ad uscire dall'hotel per andare a fare ciò che sapevo sarebbe andato a fare, ciò che sapevo da giorni e giorni, ciò di cui ero stata avvisata.

Così lo avevo lasciato andare, sapendo che poi mi sarei presentata in quell'esatto punto, in silenzio e piena di rabbia repressa.

Quando riconobbi la sua schiena rigida, le spalle massicce fasciate da una maglia nera come la mia, le armi legate alla vita che poi le avrei legate io e i suoi soliti stivali di pelle nera, mi ritrovai a sorridere.

Eravamo uguali in quel momento, nel modo più subdolo e crudele.

Sapevo che la mia presenza non gli avrebbe fatto altro che far venire un formicolio alla nuca, oltre che una vampata di calore improvvisa in tutto il corpo, e lasciai che fosse quello ad annunciare la mia presenza.

Si voltò di scatto. «Arya».

Inclinai la testa. «Dantalian».

«Che ci fai qui?». Mi osservò confuso.

Alzai le spalle, avvicinandomi lentamente a lui per farlo sentire una preda, ciò che ero stata io per mesi senza saperlo. «Potrei chiederti la stessa cosa».

Alzò il mento, non facendosi scoraggiare. «Giusto».

Un sorriso glaciale, ma nervoso, gli curvò quelle labbra che avevo baciato una sola volta e desiderato mille. «Stavo parlando con uno dei nostri alleati, credono tutti di sapere il piano senza sapere che un piano non c'è».

«Non sapevo che tuo padre fosse un nostro alleato».

Alzai lo sguardo su di lui, gelido e distante come il suo mi aveva insegnato ad essere. «Forse dovrei chiamare le cose come stanno: Baal, quello che in teoria sarebbe mio suocero, colui che ha dato l'ordine di catturare Ximena e ha venduto i miei poteri a te per avere una spia nel nostro gruppo. Forse così suona troppo crudele, vero?». Resi il mio tono il più aspro possibile.

Ebbi l'effetto desiderato perché il suo viso era distorto in una smorfia, come quando mangi un limone e le labbra ti si increspano involontariamente. «Ma che stai dicendo?».

«Io so, Dantalian». Visto che non dovevo più trattenermi, la mia voce ormai era così distante e fredda da non sembrare neanche la mia.

Dantalian mi guardò sorpreso, irrigidendo la sua schiena come un tronco. Non era in posizione di difesa, era stato solo preso in contro piede. «Tu-».

«Io?». Sorrisi amaramente. «Sì, io so».

Dalla posizione rigida in cui si trovava la sua schiena, passò ad incurvarsi come un ramoscello, osservandomi con qualcosa di mai visto prima nel suo sguardo. Non era dolore, non era amarezza, pentimento e niente del genere. Era paura.

Indietreggiai sorpresa. «Arya, io non-». Le sue mani grandi passarono a strofinarsi sul suo viso.

«Dannazione, volevo eccome. Ma ora è diverso, te lo giuro!».

«Ora è diverso?». Risi, più disperata che divertita.

«Sì, hai ragione, è diverso. Io sono diversa da quando l'ho scoperto e tu sei diverso da come ti dipingevo».

«Io ti capisco, Arya, credimi. Capisco cosa devi aver provato scoprendolo, ma noi-».

«Non c'è più un noi, cazzo!». Gli mollai un calcio in pieno petto e volò a terra a pochi metri distanza, sorpreso dal mio gesto.

Ma io ero ancora più sorpresa di lui, da ciò che aveva fatto, da ciò che mi aveva fatto, quindi non mi fermai. «Non c'è mai stato. C'è sempre stato solo Dantalian, non è vero? Dantalian e la sua forza, Dantalian e la sua maledizione, Dantalian e i miei poteri».

«Aspetta, fammi spiegare!». Alzò il palmo delle mani verso di me.

Sorrisi acidamente. «Già, spiegami, Dantalian, perché c'è molto che tu debba spiegarmi».

Lo osservai con una rabbia gelida, quella che avevo imparato da lui, l'unica cosa buona che mi aveva dato. «Quante volte hai cercato di uccidermi in questi mesi insieme?».

Ci mise un po' a rispondere, chiudendo gli occhi e respirando a fatica. «La prima volta è stata quando siamo andati da Astaroth, all'inferno. Quando si sono spente le luci ho capito che fosse il momento perfetto e stavo per farlo, ma poi lui è arrivato e ti ha salvato. Aveva visto cosa stavo per fare nelle sue visioni e ti ha salvato».

Aprì gli occhi, lucidi di calde lacrime che non accennavano a lasciare il dorato dei suoi occhi. «Poi ci ho riprovato quando siamo arrivati alla villa in Sicilia. Ho provato ad affogarti con Vepo, ma non avevo fatto i conti con la tua forza e la tua furbizia. Mi sono dimenticato di Zeus. Ero arrabbiato perché potevo lasciarti morire ucciso dalla Lamia che ci aveva tenuto un agguato fuori dal palazzo dell'inferno, ma non l'ho fatto, e ti ho salvato. Sarebbe stata una scusa perfetta, avrei potuto dire di aver sentito il tuo dolore e che non ero stato in grado di difenderti».

Deglutii. «Allora perché mi hai salvato tutte quelle volte? Perché sei sceso all'inferno e hai chiamato mio padre per farmi guarire da uno stregone, se sapevi che sarei morta comunque alla fine?».

«Perché sono un bastardo». Sorrise debolmente. «Un bastardo che si è messo in testa l'idea che il mio desiderio era salvarti per poi ucciderti con le mie stesse mani, per non ammettere a me stesso che ti salvavo ogni volta perché ti amavo sempre di più».

La furia in me scattò come una molla, un fiume in piena che straripava dalle dighe e mi inondava., mentre il cielo si riempiva di nuvole. «Non mentirmi!».

Tuonai e il mio piede si scagliò nuovamente contro il suo petto, con una forza inumana. Si alzò velocemente, indietreggiando lievemente.

«Fammi spiegare-».

«I Moloch erano venuti per me, non è vero? Perché tuo padre era stufo di vederti prendere tempo e ha deciso di fare da solo». Sputai acida.

Lui annuì, deglutendo rumorosamente. «È diventato furioso quando ha scoperto che avevo ucciso tre demoni del suo esercito di Moloch, ma non potevo lasciarti a loro. L'idea di vederti soffrire era anche peggio di sapere che un giorno mi avresti odiato»

Scossi la testa schifata da lui e da tutta quella situazione. «Il Ravener era venuto per te, non è vero? Il mostro non mi avrebbe mai toccata, perché era stato mandato per te, per ucciderti. Da tuo padre, quello che ti ha dato la vita. Non ti sei reso conto lì di quanto fosse sbagliato stare dalla sua parte?».

«L'ho capito troppo tardi». Fissò un punto con sguardo vuoto. «Quando ho scoperto che mi avevi dato il tuo sangue, che mi avevi salvato come io avevo salvato te molteplici volte, ho capito di aver fatto lo sbaglio più grande della mia vita nel momento in cui ho accettato l'incarico di mio padre, mesi e mesi prima di incontrarti a quel tavolo, bellissima com'eri, mentre mangiavi la tua insalata con gusto».

Ingoiai un boccone amaro. «Eppure eri qui, ancora una volta a parlare con lui».

«Non è come credi, Arya». Alzò le mani. «Non gli ho detto niente adesso per sorprenderlo dopo, così non avrà modo di organizzarsi diversa-».

«Io non ti credo!». Tuonai, spingendolo di qualche centimetro. «Non ti credo più!».

Mi guardò triste. «Arya-».

«Non riesci a provare proprio nulla, non è vero? Non provavi nulla mentre mi baciavi a sorpresa le prime volte? Non provavi nulla mentre mi portavi via dalla morte, vedendo la mia gratitudine nello sguardo, e sapendo che mi stavi salvando solo per potermi uccidere tu? Non provavi nulla nei momenti in cui stavamo seduti, con il sonno dietro le palpebre, a resistere uno grazie all'altro per sorvegliare Ximena?».

Una rabbia esplose in me, potente come una granata.

«E non provi nulla adesso, che sono davanti a te, a dirti che so quello che hai fatto, che sono settimane che mi siedo a fianco a te sapendo che per te non sono altro che un involucro che mantiene vivi i poteri che brami? Non provi nulla a sapere che dovrò combattere al tuo fianco, accanto allo stesso uomo che mi ha rubato il cuore solo per spezzarlo in due?». Urlai con tutta la forza che la mia voce mi permetteva di fare.

«Non provi nulla, Dantalian? Non provi nulla?».

Scossi la testa. «No! Non provi niente!». Tuonai e lo spinsi, attingendo alla forza di Fermentor per farlo finire lontano. «Niente!».

Si rialzò con un salto a qualche metro di distanza. «Arya, per favore. Tu non sei così».

«Io non sono così? Ti svelo una cosa, caro Dantalian». Sfruttai la velocità da demone per spostarmi di fronte a lui, a così pochi millimetri dalle sue labbra che riuscivo a sentire il suo respiro scaldare le mie.

Strabuzzò gli occhi, impaurito da quel gesto impulsivo. Per ironia della sorte, per ucciderlo mi bastava unire le sue labbra alle mie.

Per ucciderlo potevo solo baciarlo, rendendo il nostro secondo bacio anche l'ultimo che avrebbe mai ricevuto.

Un sorriso maligno prese posto sul mio viso. «Se è vero che io non ti ho mai conosciuto, tu non hai mai conosciuto il male che c'è in me».

Fermentor, dissi in mente, alzando il palmo rivolto verso il suo corpo verso il cielo.

I suoi piedi smisero di toccare terra, cominciando ad essere sospesi nel vuoto dell'aria, con il corpo comandato dalla mia mente. Dai miei poteri, quei stessi poteri che lui bramava. Per la milionesima volta sentii un bruciore attanagliarmi la gola, qualcosa che mi impediva di parlare normalmente, come mi succedeva spesso in quell'ultimo periodo.

«Mi hai mentito in faccia, mi hai mentito mentre piangevo credendo di essere innamorata di te, mi hai mentito guardandomi negli occhi, tenendoci per mano, mi hai mentito promettendomi cose che non ci sarebbero mai state perché tu stesso avresti posto fine alla mia vita e io ti ho creduto. L'unica persona che ho permesso a me stessa di amare mi ha mentito, mi ha tradito nel modo peggiore, me lo sono permessa pur sapendo che l'amore causa dolore, che l'amore mi rende attaccabile perché diventa il punto debole di una persona. Diffido, non perché lo voglio, ma perché ho sempre avuto paura di dare tutto e avere pugni e schiaffi in cambio. Ho sempre saputo che i demoni hanno nella subdola indole di mentire in modo così semplice, che il loro cuore esiste solo per anatomia e che non importa nient'altro se non il potere, ma credevo che tu fossi abbastanza da non cedere alla tua natura. Mi hai dimostrato di essere diverso e lo eri, ma in un modo che non sono riuscita a comprendere prima. Adesso so che aveva ragione mia madre: Tutti verranno feriti e non saranno mai più gli stessi».

Abbassai la mano di scatto e il suo corpo si schiantò sul terreno, pieno di ramoscelli ed erba. Mi girai per andarmene, ma in men che non si dica non si lasciò vincere dal dolore e me lo ritrovai di nuovo davanti.

«Aspetta, Arya». Mi prese per il polso. «Ho sbagliato, ma dannazione errare è-».

Un tornado si creò poco distante a da noi, alto quanto un albero, occupato a creare un vortice sempre più grande con fare inquietante, nato dai pochi secondi di mancanza del mio autocontrollo.

«Non ti azzardare a dirlo, cazzo!». Lo spinsi indietro, mentre venom si attorcigliava e stringeva al mio braccio con più forza, come se volesse dirmi "sono qui, pronto per te, usami". «Errare è umano, ma tu non sei umano!».

Strinse la mascella in preda alla rabbia. «Quindi non è mi concesso errare?». Sibilò. «Non mi è concesso perché sono un demone e verrò condannato per questo?».

Ringhiai come un cane. «Non ti è concesso perché non sei un novellino. Sei al mondo da così tanti anni che ormai sai bene le conseguenze di ogni scelta e no, Dantalian. Sbagliare non ti è concesso, non lo è mai stato neanche con quella strega. Uno sbaglio non si fa mai due volte, quella si chiama scelta».

«Per favore, Arya, non è la stessa cosa!». Si tirò i capelli. «Quella ragazza non l'ho amata! Non è una cosa giusta ciò che ho fatto, ma con lei non ho provato nulla ed è per questo che sono andato fino in fondo! Con te no, non potrei mai, perché mi sono innamor-».

Mi voltai di scatto. «Non dirlo!». Tuonai.

Il respiro corto gli fece alzare e abbassare il petto velocemente. «È la verità».

Risi, una risata così finta da farmi accapponare la pelle. «Come se uno come te possa anche solo capire cosa significhi amare-». Lo guardai schifato. «Come se uno come te potesse amare».

«Okay, sì, è vero. Non sono mai stato in grado di amare e forse non lo sono ancora ora, ma dimmi-».

Mi prese il viso fra le mani calde e incatenò il mio sguardo al suo, acqua contro fuoco, luce contro oscurità, giorno contro notte. «Può non essere amore il desiderio di avere la tua risata come colonna sonora della mia felicità?».

Scossa da quelle parole, indietreggiai velocemente, sfuggendo alla sua presa, mentre lui mi guardava implorante. Deglutii. «Una volta hai detto ad Erazm che avresti ammazzato chiunque mi avrebbe fatto del male».

Mi avvicinai a passo lento, con una rabbia feroce dentro, ma celata con la solita calma che utilizzava lui. La calma prima di una tempesta.

Presi un pugnale da sotto la maglia e lo afferrai dalla parte del manico, passandoglielo e costringendolo a prenderlo dalla parte della lama. «Allora fallo».

Non staccò il suo sguardo dispiaciuto, lucido dal senso di colpa, dal mio, quando posò la mano sulla lama affilata e strinse la presa, con il sangue che gli colava giù dalla mano. «Ti prometto che quando la battaglia finirà e tu sarai in salvo, io mi ucciderò. Farò qualunque cosa pur di renderti felice, anche se sarà chiudere gli occhi per sempre con la consapevolezza che mi odi».

Scossi la testa, sempre più disgustata dalle sue parole. «Mi fai schifo».

Lasciai che la mia voce non si trattenesse dal tremare come una foglia, perché volevo che lui capisse. Perché faceva parte del piano.

Si avvicinò per accarezzarmi la guancia, ma quando mi scostai di scatto per sfuggirne, mi dedicò uno sguardo così triste da farmi pensare di avergli spezzato il cuore. Se solo ne avesse uno.

«Quando sono stato male e quella strega mi ha aiutato, io ti ho sentito». Mormorò, abbassando lo sguardo.

Mi irrigidii. «Cosa?».

«Ho sentito cosa mi sussurravi per rimanere sveglio e mi ricordo ogni singola parola. In quel momento ho capito che per quante rose stessero uscendo dalle tue labbra, le uniche parole dolci che mi hai mai detto-».

Inspirò, con un cipiglio sul volto e gli occhi lucidi. «Il doppio sarebbero state le spine che mi avresti sputato contro quando avresti scoperto tutto».

Mi voltai, delusa dal sapere che malgrado ciò che gli avevo confidato quel giorno, era rimasto il solito traditore che mi avrebbe venduta e uccisa in cambio del potere. Ogni passo mi tagliava il cuore con un vetro appuntito, sempre più in profondità.

Ignorando le sue suppliche, continuai per la mia strada. «Tu devi finirla!». Tuonai, quando arrivai nel punto giusto.

«Noi siamo fatum, Arya. E lo sai, cazzo! Come lo senti tu, dentro di te, lo sento allo stesso modo io».
Mi girai di scatto, con un vento incontrollabile che scuoteva l'aria, così forte da far piegare gli alberi.

Non era mia intenzione attingere a così tanto potere, ma la rabbia era come un fiammifero su cumuli di legno: se uno prendeva fuoco, si tirava anche tutti gli altri.

«Fatum?». Sibilai. «Ma quale fatum? Questo tra di noi, qualunque cosa sia, è solo destino!».

Mi lanciò uno sguardo di fuoco in senso letterale, visto che la pupilla si stava allargando in verticale e l'iride stava prendendo il colore dell'arancio fuoco verso l'esterno.

Si avvicinò minacciosamente a me, con un sorriso crudele sul volto. «E quale sarebbe la differenza, mia cara?».

Strinsi i pugni per un paio di secondi e quando li rilasciai nuovamente ne fuoriuscivano dei sbuffi di fuoco, come ogni santa volta in cui ero arrabbiata.

«Il fato è una storia già scritta a cui è inutile tentare di sottrarsi. Il destino, invece, è nelle mani dell'uomo».

Mi avvicinai a lui così tanto da sentire il calore del suo corpo attraverso i vestiti e riuscivo a sentire il suo respiro affannato, di certo per la rabbia e non per la stanchezza. Era impossibile stancarci, se non mentalmente.

«E le uniche mani in cui il nostro destino si è trovato sono state le tue».

Chiamai Anemoi, una forza oscura e potente distesa comoda dentro di me, un potere a cui non attingevo mai, ma che era sempre all'attenti in attesa di un mio possibile richiamo, ora più che mai avendo avvertito le mie emozioni.

Anemoi aveva preso il nome dalla mitologia greca, dove venivano chiamati così le personificazioni dei venti.

Anemoi, ostende te.

Una luce improvvisa mi annebbiò la vista, sentendo una parte di me venire fuori, e si abbatté contro il mio avversario, spazzandolo via come se fosse niente più di un pezzo di carta, malgrado il suo metro e novanta di altezza, da un qualcosa di molto simile ad un uragano.

Era fatto di vento afoso mischiato a sabbia, dando vita ad un vortice di forza paranormale che trascinava con sé qualsiasi cosa incontrasse per la sua strada, tranne la persona da cui era stata richiamata.

Con "qualsiasi cosa" intendevo davvero qualsiasi, creature, umani, animali, vegetazione, case e oggetti.

Mi osservai intorno, vedendo niente di più di un pezzo di foresta all'estremità del dirupo distrutto, con soltanto il resto delle radici di alcuni alberi ancora attaccati alla terra e della sabbia che aleggiava nell'aria come polvere.

Cercai dentro di me il filo viola che mi legava a quel demoniaccio, come ero solita chiamarlo, e un sorriso debole mi illuminò il viso. Il calore dei bei tempi era sempre un bel ricordo, ma appunto, non era nient'altro che un qualcosa che non esisteva più.

Quando lo trovai, presi la mia estremità e la seguii, sentendola allungarsi e ritrarsi, come se anche lei volesse portarmi da lui. Se solo avesse saputo le mie intenzioni, forse non mi avrebbe condotto lì, dove il suo corpo giaceva in trance.

Non era chiaramente morto, ci voleva molto di più, ma abbastanza per mandarlo fuori campo per il tempo che ci serviva per vincere.

Quanto bastava per farlo risvegliare nel momento in cui più della metà dell'esercito dei demoni di suo padre fosse stato spazzato via, così che lui possa credere di essere arrivato "in tempo" per aiutarci e si avvicini a me per adempiere al nostro compito, quello che ci aveva assegnato Azazel.

Poi, sarei stata io ad adempiere al mio, quello che inconsciamente avevo sempre avuto, ciò per cui Astaroth mi aveva avvisato e ciò di cui Adar mi aveva parlato.

Con il cuore appesantito sospirai, abbassandomi sulle ginocchia fino all'altezza del suo corpo proprio quando i suoi occhi si aprirono lentamente.

«Arya?». Gracchiò. «Arya, io-».

Gli posai l'indice sulle labbra. «Ssh».

Gli accarezzai i capelli un'ultima volta, gli sfiorai la lieve barba sulla mascella, gli occhi, le labbra. Tutto quello che avevo desiderato avere per me, solo mio, e che ora ero costretta a lasciare.

Veramente crudele il destino, quando faceva incontrare due persone, anche se poi sapeva di doverle allontanare un giorno.

Lo sentii deglutire a fatica. «Mi erano mancati i tuoi grattini». Sorrise con quanta forza riuscì.

Anemoi era davvero potente, ecco perché non lo usavo mai, e non lo biasimavo.

«Flechazo, in spagnolo, è quel tipo di amore che sboccia all'improvviso. Quel momento iniziale in cui vediamo una persona per la prima volta e capiamo che vorremmo averla al nostro fianco per tutta la vita-». Si fermò per tossire. «Tu sei il mio flechazo».

Inspirai di scatto, facendomi curvare le labbra da un sorriso nostalgico.

Forse, se tutto fosse andato diversamente, mio demoniaccio, pensai, saresti stato il mio vero Fatum.

Controllai di non aver abbassato neanche un minimo la mia barriera mentale prima di sussurrarmelo.

Portai una mano sulla sua gamba, attingendo a tutta la forza fisica che riuscivo a racimolare da tutti i meraki, e poi strinsi. Un rumore sinistro, di ossa che si spezzano, aleggiò nell'aria e un secondo dopo un urlo disumano fuoriuscì dal demone steso a terra. Si alzò di scatto con il busto, cercando di controbattere, di difendersi, ma non glielo lasciai fare.

Crudelmente barai e utilizzai fermentor per tenerlo schiacciato sul terreno, per non permettergli di sottrarsi al dolore. Era una bastardata, me ne rendevo conto.

«Arya!». Urlò. «Perché lo stai facendo!».

Gli spezzai l'altra gamba, sia la caviglia che il ginocchio, e il suo urlo raddoppiò di volume. Riservai lo stesso trattamento al braccio sinistro, ruotandolo totalmente e spezzandolo con un suono ancora più sinistro.

«Arya, ti prego!». Potevo essere crudele se volevo, glielo avevo detto. Glielo avevo sempre detto.

La sua voce incrinata non mi fermò. Anche il braccio destro non fu risparmiato e ormai il suo corpo era più mollo di un budino. Era inquietante e il cuore mi si strinse in una morsa di senso di colpa, ma era il mio compito. Tra un paio di ore avrebbe capito.

Si mise a piangere nel modo in cui ci era concesso: le labbra tremanti, il respiro corto, gli occhi lucidi.

Lui, Dantalian, il demone più spietato dell'inferno, maledetto a vita da un Anziana, quasi ucciso da suo padre, nominato principe guerriero, stava veramente piangendo.

Forse non era il dolore a farlo piangere, ma il senso di tradimento che provava. Non era il dolore, era che fossi io a infliggerglielo.

«Flechazo, per favore!». Tossì, come se gli venisse da vomitare dal dolore. «Ti prego, ti prego!».

Gli accarezzai il viso per l'ultima vera volta, perché non avrei più avuto la possibilità di incontrarlo, e sorrisi dolcemente.

Doveva essere un dolore insopportabile quello di sentire le ossa più importanti rotte allo stesso momento, ma in meno di due ore, grazie alla sua natura, tutto sarebbero tornato al suo posto e sarebbe stato come nuovo. Il mio cuore invece non sarebbe stato più lo stesso.

«So che vorresti dire che ti manca quello che avevamo, lo leggo nei tuoi occhi e lo sento, perché grazie al filo viola il mio cuore è collegato al tuo».

Aprí leggermente la bocca per parlare, ma era esausto dal dolore e mi venne da piangere.

Gli posai la mano sulle labbra, con il palmo rivolto verso le sue, e lasciai un dolce bacio sulla pelle delle mie mani. Era un bacio strano, diverso, ma il suo significato era enorme. Il suo sguardo si addolcì, malgrado gli avessi spezzato le ossa del corpo pochi secondi prima.

«Dantalian, mio marito, il mio demoniaccio-». Posai la fronte sulla sua. «Mi dispiace, davvero tanto, ma non mi interessa quanto possa farti male».

Mi piegai sulle ginocchia e gli sussurrai all'orecchio.

«Ricordati che mi hai spezzato tu per prima. È la legge del contrappasso». Gli accarezzai le spalle, con le mani che salivano sempre più su. Quando gli spezzai il collo fu un secondo e niente più, perché non ne capì nulla e cadde definitivamente in un sonno molto profondo.

Mi rialzai, pulendomi i pantaloni dalla sabbia del terreno, e mi allontanai a passo lento, sfinita da tutto quel dolore che avevo provato insieme a lui, ma non solo.

Ero sfinita dal dolore che sentivo nel cuore, dal prezzo che avevo dovuto pagare per mantenere la compostezza mentre spezzavo tutte le ossa della persona che avrei sempre voluto guarire e mai ferire.

Mi allontanai con un solo pensiero in mente, con quella voce maligna che mi sussurrava nell'orecchio.

Spero che tutte le lei che incontrerai dopo di me non siano altro che una mera copia che non ti darà mai ciò che ti ho dato io. Spero che non riuscirai a prendere sonno senza vedere il mio viso, a mangiare senza sentire la mia voce, a vivere senza ricordare i momenti in cui hai vissuto con me. Ti distruggerò come tu hai distrutto me.

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