Fatum

By azurahelianthus

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#1 VOLUME DELLA SERIE CROSSED PATHS «𝑇𝑒 𝑠𝑒𝑖 π‘™π‘Ž π‘šπ‘–π‘Ž π‘›π‘œπ‘‘π‘‘π‘’ π‘ π‘’π‘›π‘§π‘Ž 𝑠𝑑𝑒𝑙𝑙𝑒». Gli umani s... More

Esergo
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DeirΓ­n dΓ©
Tecum [Sequel]

28.

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By azurahelianthus

«Vado io!». Urlai ironicamente, visto che nessuno si era preso la premura di uscire dalle loro stanze per andare ad aprire la porta, dopo che qualcuno aveva iniziato a bussare insistentemente.

Aprii la porta di scatto, con immenso fastidio. «Non c'è bisogno di bussare ins-».

Qualcuno mi lanciò qualcosa di liquido sul viso, costringendomi a piegarmi in due dal dolore, con le mani sugli occhi. «Cucù».

Non badai alla voce cantilenante, troppo occupata a pensare alla mia pelle, ustionata e così dolorante da farmi urlare di dolore.

«Arya!». Tuonò Dantalian, ma non riuscivo a vederlo perché il dolore era tutto ciò che sentivo, troppo carole, troppo dolore, troppo tutto.

Finii sul pavimento freddo, rannicchiata su me stessa e cercando di non urlare per far dimenticare della mia presenza a chiunque fosse appena entrato dalla porta.

Sentivo il rumore dei grugniti di Dantalian, delle lame che sbattevano tra di loro e il frastuono di oggetti rotti a causa della lotta.

Qualcuno scese le scale con così tanta rabbia da creare un rumore tra la pianta del piede e il legno, fino a piegarsi su di me. «Ma che cazzo!». Erazm.

«Erazm, brucia! Brucia troppo!». Urlai sull'orlo del pianto, se solo avessi potuto.

Tentò di spostarmi le mani dal viso usando la forza, per poi sibilare alla vista del mio volto deturpato, e lo sentii imprecare sommessamente in latino.

«Non so cosa fare, non conosco il tipo di liquido che ti hanno buttato addosso!». Imprecò nuovamente, accarezzandomi la schiena e riportandomi le mani sul viso per difendermi.

Sentii urlare Rut, che si scontrò contro qualcosa, e il rumore di pelle che veniva lacerata, imprecazioni di vario tipo, Med che diceva a Erazm di lasciarmi a Dantalian per aiutarlo a bruciare qualcosa. E così fece, anche se ero sicura non ne fosse entusiasta, lasciandomi fra le braccia del mio nemico.

Si alzò in piedi, dopo avermi preso come se fossi una sposa, e con la mano mi tenne premuto un fazzoletto con dell'acqua ghiacciata nei punti in cui mi sentivo bruciare. Mi tenne stretta a sé fino al bagno, che aprì e richiuse con un calcio, per poi sedersi sul wc e tenermi sul suo grembo.

Con me ancora seduta lì, non si fece problemi a piegarsi per rovistare nei mobiletti alla ricerca di qualcosa, continuando a imprecare in latino e in lingua demoniaca. Io ero ferma, immobile dal bruciante dolore, a stringere i denti per non farmi vedere debole da lui, anche se sentiva il mio stesso identico dolore.

Lo sentì esultare e tornare a respirare, forse perché aveva trovato ciò che cercava, e tornò composto in pochi secondi. «Ecco».

Sentii aprire il tappo di qualcosa e mi irrigidii.

«No».

Si immobilizzò. «Cosa no, Arya?».

«Non vedo cosa sia, non mi metto qualcosa sul viso che non vedo». Storsi il naso per il bruciore che si era attenuato lievemente.

Emise un verso sorpreso. «Pensi davvero che ti farei del male? Ti ho appena salvato, Arya!».

«Mi hai salvato?». Mi si fermò il respiro.

Non potevo vedere la sua faccia, ma immaginavo fosse corrucciata. «Quando hai aperto la porta e quel bastardo ti ha lanciato un liquido fatto con la panace di Mantegazza, lo ha fatto per renderti indifesa, e infatti non era solo. Erano in cinque, volevano portarti via e quando sono sceso di corsa quando il tuo urlo mi ha allarmato, loro si stavano avvicinando a te con un taser in mano. Li ho uccisi uno ad uno, pugnalata dopo pugnalata, una carne strappata a morsi dopo l'altra e Rut poi li ha finiti».

Mi tremò la voce quando parlai. «Se non ci fossi stato tu, mi avrebbero preso».

«Sì, Arya». Mi accarezzò la parte di pelle che non mi doleva. «Io non ti farei mai del male».

Non ancora, pensai.

Ma come sempre stetti in silenzio, accettando le sue mani caldi sulle mie ferite e il liquido freddo che bruciava un po', ma che dopo qualche minuto fece diminuire il dolore. «Che cosa è?».

Con il fazzoletto bagnato di prima, che adesso era pieno di quel liquido miracoloso, mi tamponò tutte quante le ferite. «È olio di iperico ed è dotato di una potente azione cicatrizzante, il nostro DNA poco umano poi fa il resto». Mi accarezzò lentamente, ormai il dolore era quasi sparito, e si avvicinò al mio orecchio per sussussarmi qualcosa.

«Apri questi bellissimi occhi, Arya».

Li aprii lentamente, quasi spaventandomi di non vedere il buio sparire e invece la luce mi accecò, così come il suo sguardo color ghiaccio che di esso non aveva niente. Era puro calore liquido, rinchiuso nel cristallo di quei occhi che sentivo di conoscere e non conoscere allo stesso tempo.

Sbattei più volte le palpebre per abituarmi. «È un po' fastidiosa-». Socchiusi gli occhi. «La luce».

Sorrise dolcemente. «Se mi guardi così mi illudi di poter essere io la luce di cui parli».

«Illudere?». Sussurrai.

Annuì. «Non sono mai stato luce, lo sai. Solo tenebre, oscurità, luna».

Abbassai lo sguardo, notando come la sua mano destra mi stringeva il fianco. «Chi erano?».

«Moloch». Scosse la testa con rabbia. Forse non si aspettava che ci andassero giù pesante o forse non voleva che qualcun altro oltre lui potesse farmi del male, perché desiderava essere l'unico. Davvero da psicopatico.

Sospirai, scendendo dal suo grembo. «Voglio andare in camera a dormire».

Lui mi lasciò subito andare, porgendomi il braccio per aiutarmi, ma che non accettai.

Potevo farcela da sola, senza il suo aiuto, e sarebbe stato così per sempre. Ci misi il doppio del tempo ad arrivare nella mia stanza, a causa del mio corpo debole e sfinito, ma quando toccai il letto e mi ci fiondai sopra con la schiena, un senso di pace mi avvolse.

Quasi come una sottile certezza che niente avrebbe più potuto toccarmi lì. Quando sentii il rumore di armi cadere a terra, voltai la testa verso il dannato demoniaccio che ora era occupato a spogliarsi delle cose più ingombranti.

«Che diavolo fai?».

Alzò gli occhi al cielo. «Preferisci avere delle lame vere premute sulla schiena? La mia persona è più morbida almeno».

Ignorai la battuta e lo fulminai. «Nessuno ti ha invitato a dormire con me».

«Non serve». Alzò le spalle incurante. «Perché io so che tu hai bisogno di me».

Scoppiai a ridere. «Davvero?».

«Sì, Arya. Hai dormito come una bambina giorni in fa, in tenda, e io so che tu non dormi mai più delle tue solite cinque ore». Mi sorrise. «Si vede che, in qualche modo, anche se sono l'oscurità ti senti più protetta con me che da sola».

Scossi la testa freneticamente. «Ero solo stanca».

«Certo, credi pure alla favoletta del lupo mangia nonne». Ammiccò, togliendosi anche la maglietta.

Assottigliai lo sguardo. «Quella non c'era motivo di togliersela».

«Vero, ma mi andava».

Qualcuno bussò alla porta e poco dopo entrò Erazm, rigido come una corda tirata, passando lo sguardo più volte da me a Dantalian. Poi guardò solo con me, con una domanda celata nello sguardo, a cui fui costretta dire di no.

Non poteva proteggermi, doveva fare finta di nulla.

«Ti ho portato il tuo budino preferito». Me lo porse insieme ad un cucchiaino. «Ti serve altro?».

Bastava accennare un lieve "sì" con la testa per farlo trasformare nella sua vera forma e staccare quella testa vuota che si ritrovava il demoniaccio, ma non potevo.

Forse neanche volevo. «No, grazie Erazm, adesso lo mangio e poi mi faccio una dormita».

Annuì comprensivo e si allontanò verso la porta. «Tenete gli occhi aperti, ormai non siamo al sicuro in nessun luogo o con nessuna persona». Se la chiuse alle spalle con lieve tonfo.

Tirai via la linguetta del budino al cioccolato e la poggiai sul comodino, iniziando a mangiare la panna per prima. «È così buono»

Sentivo il suo sguardo bruciarmi la pelle.

«Immagino». La sua voce rauca mi mandò in fibrillazione.

Mi voltai verso di lui e i suoi occhi caddero sulle mie labbra. «Che c'è?».

«Sei sporca». Inspirò bruscamente.

Mi leccai l'angolo delle labbra. «Qui?».

Scosse la testa e provai con l'altro angolo. «Qui?».

Negò ancora e poi, stufo, avvicinò il suo pollice al punto incriminato, tirando via la panna che gli si attaccò al dito.

Se lo portò alle labbra e lo leccò senza alcuna vergogna. «Ecco fatto». La voce era così carica di desiderio da farmi aggrovigliare le budella. «Arya».

«Sì?». Risposi in trance.

Si avvicinò e io non mi scostai, perché sapevo che per forza di cose non poteva baciarmi, posando la fronte sulla mia e chiudendo gli occhi. «Non sporcarti più». Il tono deciso, la voce profonda, ma le sue labbra tremavano di qualcosa di più forte, come un magnete attirato dalle mie.

Annuii e, quando si staccò, tornai a mangiare il mio budino in silenzio. Mi tolse di mano tutto, mi pulì con un fazzoletto umido e poi sorrise, soddisfatto del suo lavoro. «Dormiamo?».

«Sì». Sbadigliai, sentendo di colpo tutto il peso mentale e non di quella giornata, del periodo e tutto ciò che mi faceva desiderare di non uscire mai più da quelle morbide coperte.

Il problema più grande era che, forse, non era il letto a farmelo desiderare, ma la persona con cui lo condividevo.

Si distese insieme a me, premendo il petto duro sulla mia schiena e infilando una gamba muscolosa tra le mie, facendomi sentire tutto il calore del suo corpo anche tramite la tuta che indossavamo. Premette il viso nei miei capelli, come faceva spesso, e poi iniziò a giocarci.

«Smettila». Bofonchiai assonnata.

Ridacchiò. «Dormi, Arya».

«Non riesco se non stai fermo».

Sospirò, cambiando modo di accarezzarmi e iniziò a muovere la mano all'interno dei miei capelli, più sulla nuca che sulle ciocche, e quello mi fece inarcare la schiena di un sottile piacere.

Qualche minuto dopo ero così stanca da non sentire quello che stava sussurrando a bassa voce, sembrava essere una canzone, e dopo poco mi addormentai totalmente, con il buio che mi avvolgeva nel modo più dolce e allegro possibile.

Per qualche ora, i miei pensieri si disconnetterò totalmente dalla realtà.

Eppure, neanche le sue braccia e il suo calore furono abbastanza da scacciare via gli incubi, e questo mi fece sedere di scatto sul letto nel cuore della notte. Ero sudata, come ogni volta, e fu difficile non svegliarlo mentre me lo toglievo di dosso con tutta la forza che riuscivo a racimolare.

Nike dormiva esattamente come Dantalian, quindi non la svegliai e mi recai da sola nel mio posto preferito, tirando il libro giusto e permettendo alla casa di lasciarmi andare sul tetto.

Una volta lì, portai le ginocchia fino al mento e me le abbracciai, cercando di tenere i miei pezzi tutti a posto, per non vederli cadere e scivolare via.

Non potevo permetterlo, dovevo essere forte, anche se questo significava stare ancora al fianco di mio marito, l'uomo che mi aveva tradito nel modo peggiore, l'uomo che mi aveva venduto in nome del potere.

Dopo quello avevo scoperto che la cosa più difficile non era esistere. Non era vivere. Non era gioire del dolore. Non era sopravvivere. Non era cadere. Non era rialzarsi. Non era amare. La cosa più difficile era scoprire di amare o desiderare una persona che ti voleva solo buttare a terra come niente di più di un mozzicone di sigaretta.

Non era bello accorgersi di aver amato solo l'idea romanticizzata che ci si era fatto di qualcuno. Scoprire di aver amato la persona che ha interpretato, come quei film così pieni di amore da farti chiedere "come può essere finzione". Ecco, amavo e bramavo una parte di lui che non era lui. Puoi davvero desiderare ciò che non esiste?

A quanto pare sì.

Il rumore arrugginito della finestra mi fece capire che la mia solitudine era finita, come dal momento in cui lo avevo incontrato. «Che guardi, flechazo?».

Dantalian si sedette al mio fianco, osservandomi con sguardo dubbioso.

Alzai le spalle. «Lo sai che mi piace stare con il naso all'insù, a guardare il cielo notturno».

Inclinò la testa, come faceva sempre quando secondo lui c'era altro da scoprire in una situazione. «Per un motivo preciso?». Annuii. «Parlamene, non l'ho mai capito».

Sorrisi debolmente. «Esiste una leggenda, nei popoli orientali, che narra di una tessitrice di origini nobili che si innamorò di un mandriano. Il padre della ragazza non approvò le loro nozze e si oppose al loro amore tanto da allontanarli per sempre. Perciò pose un fiume nel cielo, la Via Lattea, che separa le due stelle, Vega e Altair. Ai due innamorati fu concesso di incontrarsi una sola volta l'anno, il settimo giorno del settimo mese, il 7 luglio».

«Che brutta cosa. Credo che al posto loro impazzirei». Storse il naso, cercando con gli occhi qualcosa tra le stelle.

Sorrisi ancora una volta, perché lui non poteva capire la preziosità di ciò che gli avevo confessato. Ma, un giorno, avrebbe capito.

Eccome se avrebbe capito.

«Vero. Però, se non puoi combatterlo il destino, non ti resta altro che accettarlo e trarne il meglio».

«È per questo che stai combattendo comunque? Per questo non sei scappata?».

Annuii. «Scappare non fa per me».

Restammo in silenzio, finché non ebbi il bisogno improvviso di una risposta a una domanda che mi ossessionava. «Perché mi hai salvato?».

Voltò la testa verso di me. «Perché me lo chiedi sempre?».

«Perché non comprendo». Posai la testa sulle ginocchia come poco prima.

Scosse la testa. «Te l'ho già detto una volta».

Sospirò, tornando a guardare le poche stelle che oggi erano presenti all'interno di quel quadro pieno di nero, oscurità e sicurezza. «Non lascio che qualcosa di mio smetta di esserlo».

Non risposi perché non avevo molto da dire.

Semplicemente mi abbassai con la schiena fino a toccare il tetto e a distendermi come se sotto di me ci fossero cuscini e coperte. Mentre lui faceva lo stesso al mio fianco, sdraiandosi come me, pensai a quello che ci aspettava tra troppi pochi giorni.

A quanto la casa che mi ero rifiutata di chiamare casa, adesso era davvero la cosa più vicina ad essa che avessi mai avuto. A quanto mi sarebbe mancato svegliarmi insieme a loro, mangiare, ridere, litigare, combattere, cantare, giocare, viaggiare e altre mille cose diverse che, come diceva Med, con una famiglia era più che normale fare. E poi pensai a Dantalian.

A quanto mi sarebbe mancato il demoniaccio, quello che mi aveva preparato la colazione per mesi, quello che mi era andato a prendere borsa e scarpe in spiaggia malgrado fosse infuriato, quello che era entrato nella mia mente e ne aveva spazzato via il dolore, lasciandoci solo un ricordo amorevole, quello che mi aveva salvato da molteplici mostri, quello che mi aveva detto quanto gli piacessi tramite la tastiera di una biblioteca vecchia di una città sconosciuta o quello con cui avevo osservato la notte sul tetto di quella che era diventata la nostra casa in tutto e per tutto.

Mi sarebbe mancato come ti manca qualcosa che non hai mai davvero avuto e sei costretto a lasciare. Mi sarebbe mancato in eterno, come una cicatrice che dopo anni riguardi e sorridi al ricordo di come te la sei fatta, anche se in quel momento ha fatto molto male.

E quando la sua assenza poi si sarebbe fatta troppo rumorosa, troppo grande, troppo asfissiante, io mi sarei seduta in qualsiasi punto dell'universo e avrei puntato lo sguardo sulla luna. L'avrei guardata sapendo, nel mio cuor spezzato, che lui era occupato a fare la stessa identica cosa.

Avrei saputo che, seppur dall'altro capo del mondo, non saremmo mai stati troppo distanti se ci fossimo trovati sotto lo stesso cielo buio, sotto la stessa notte: una notte senza stelle.

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