dove sei e dove ti ho lasciato?

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Il tuo ricordo mi cade addosso come pioggia. Scende giù dal soffitto senza far rumore, calmo, denso, quasi non lo sento. Mi tiene compagnia quando la paura di fallire mi mangia lo stomaco, mi accarezza quando non ne posso più, quando non riesco più a farcela. Mi manchi, Iwa-chan. Mi manchi così tanto che la solitudine mi uccide. Il vuoto che hai lasciato è così immenso dentro di me, intorno a me, che ho bisogno di mordermi le dita per assicurarmi che sono ancora vivo.

Dentro questa stanza il silenzio mi soffoca, accendo la tv ma mi sembra di vivere in un pianeta lontano, con un suo tempo, una sua lingua, i suoi divertimenti, le sue regole, la sua storia, tutte cose che non mi appartengono. Sono tre anni che vivo qui e ci sono ancora parole che sembrano non dire niente. La stanza ha l'odore della mia solitudine, si avverte la tua assenza nelle cose calde, nelle foto appese alle pareti, nei pasti insipidi consumati in fretta che mi fanno venire il vomito perché non sei tu a prepararli. C'è polvere dappertutto. E io mi sento grigio: le lenzuola sono grigie, le giornate sono grigie e dietro queste mura grigie anche il cielo è grigio. La tristezza è come un involucro che mi protegge, e dentro ci sei tu, anche se tu ora esisti solo come ricordo. Sarebbe facile scivolare un po' più in basso, nella memoria, fino al punto di sparire anch'io sottoforma di ricordo, ma non posso. Non riesco a vivere senza di te, ma non voglio neanche morire. Lo capisci questo?

L'amore non lo sento, no. Non lo sento più tremare. C'è solo questo strano bisogno di inseguirsi, di perdersi in vuote ricerche di senso. Ho la testa pesante, mi sento stanco da morire ma non riesco a dormire se penso che tu, da qualche parte, stai vivendo una vita a cui io non aderisco, se penso che stai amando, che stai soffrendo il caldo nel traffico di Tōkyō, che guardi film di fantascienza il venerdì sera, che non rispondi alle chiamate perché sei sempre impegnato a studiare, anche se non è il tuo forte, anche se a volte la pallavolo ti manca ma ti senti troppo vecchio per riprendere a giocare. Forse anch'io ti manco, ma tu, con il tuo stupido orgoglio, sei sempre stato bravo a mascherare ciò che senti. Io sono sempre stato un bambino viziato ed egoista, piangevo per le piccole cose prive di senso, come la pioggia sui vestiti asciutti o il mio nome urlato troppo forte, ma eri tu quello più problematico, per questo non ti voleva mai nessuno. Eri sgarbato, rude, ti piaceva minacciarmi ma ripugnavi la violenza, così lasciavi tutto alle parole. Sei mai stato onesto con te stesso? Ti lamentavi spesso perché non riuscivi a capirmi, e forse è vero che la mia testa è un labirinto di insicurezze, che mi nascondo dietro una gentilezza scomoda e fasulla per mascherare il mio odio e il mio senso di inferiorità, però ti ho amato. Ho rovesciato le mie paure sul pavimento della mia stanza e tu le hai collezionate nelle tasche della giacca come fossero biglie, ma in cambio ho ricevuto solo silenzio. Il tuo amore l'ho sempre dovuto racimolare dai tuoi sguardi. Cos'è, avevi paura? Hai paura anche adesso? Temevi l'amore o solo i miei baci?
Forse mi hai anche odiato, ma io volevo solo che tu avessi bisogno di me.

Ti ho ricostruito tante volte nella mia mente che ora non so più chi sei. Nei miei ricordi tu sei come una mamma gentile. Ascoltavi i miei deliri anche tutta la notte, sapevi quello che pensavo e nonostante ciò non mi hai mai gettato via. Mi conoscevi così bene che a volte non c'era neanche bisogno che parlassi, bastavano gli sguardi, gli accenni, i piccoli gesti. Mi hai sempre perdonato tutto, anche quando non chiedevo scusa, e nella mia testa io non ti meritavo, non meritavo la tua amicizia né tantomento la tua fiducia. Mi nutrivo delle attenzioni e delle lodi degli altri, lo faccio ancora adesso, non ho mai smesso di farlo. Parlavo di me, parlavo sempre di me, e ti costringevo a rincorrere i miei sbagli, a leccarmi le ferite, a tenermi in piedi quando il desiderio di autodistruggermi mi spezzava le gambe. Sei sempre rimasto al mio fianco, con quel tuo stoicismo di marmo, attento, presente, esitante. Non c'era nulla di te che fosse sbagliato. Sembravi, a prima vista, perfetto in ogni senso. Era impossibile perdersi nella rigidità e nelle superfici senza mistero del tuo cuore, eri come fatto di granito. E mi piaceva tanto la sicurezza che mi davi. Significava che ovunque andassi saresti sempre venuto a cercarmi e questo faceva sorridere il mio cuore vagabondo. Quando mi tenevo stretto a te ti lasciavo scivolare dentro, tra venule e capillari, giù, nel liquido sinoviale delle mie articolazioni. Mi tenevo stretto a te con le mani che sembravano burro e la bocca che respirava ossigeno e lasciava uscire calore. Ero sempre io a dover fare il primo passo ma finché potevo sentire le tue mani sui fianchi, in una presa salda e incerta al tempo stesso, andava benissimo. Il tuo respiro, me lo sentivo nel torace che entrava nell'atrio e nel ventricolo destro e fluiva nei polmoni. Le tue mani erano timide ma calde e dolci come miele. Solo in quei momenti di intimità ti concedevi il lusso di lasciarti capovolgere.

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