dove sei e dove ti ho lasciato?

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L'ultima volta che ci siamo visti ti ho detto che sarei tornato presto. Mi hai hai augurato buona fortuna, in fondo lo sapevi che stavo mentendo. Una volta partito sarò partito per sempre. Te lo avevo sussurrato la sera prima aspettandomi una tua sceneggiata: un abbraccio, un bacio, una lacrima, anche la violenza andava bene. Volevo che ti disperassi almeno la metà di quanto stavo facendo io e invece, ancora una volta, mi sono scontrato con il muro della tua impassibilità e mi hai lasciato lividi e delusioni da snocciolare durante il viaggio.

Perché non mi cerchi più, Iwa-chan?
Io ora ho ventidue anni ma sono ancora quel bambino emotivo e volubile col cuore rotto bisognoso di attenzioni. Le giornate mi sembrano sempre più brevi: si restringono, appassiscono, ricominciano da capo. L'ultimo messaggio me l'hai scritto sei mesi fa, dice: «Ora devo andare». Non sei più tornato. Percepivo noia nelle tue parole, per questo non ho più provato a cercarti: ho paura di non riuscire a ritrovarti se lo facessi. Una volta mi hai detto che non sarei mai stato felice, e avevi ragione, ma anche tu hai l'aria di essere infelice. Non ti amo più come una volta. Ci separano troppi chilometri e troppi silenzi di parole non dette. Mi sfugge completamente il senso di amare se non posso toccarti e viverti con le mie mani. Però mi attacco al tuo ricordo come ci si attacca a una vecchia abitudine di sempre e forse sbaglio a crogiolarmi nella tua assenza ma non conosco altri modi per stare al mondo. Perché tu eri il mio mondo, lo sai. Non so quando ci siamo trovati, né come ci siamo scelti, nei miei ricordi tu sei sempre stato lì, al mio fianco, senza che io ti abbia mai cercato. Non mi accorgo del tempo che passa. Nella mia testa abbiamo sempre diciassette anni e viviamo cristallizzati nell'apice di un amore trascendente.

Ti immagino spesso in questa città. Ti immagino fare lunghe passeggiate con il sole negli occhi e l'umidità sulla schiena. Ti piacerebbero queste strade in pendenza, i vicoli che non portano da nessuna parte, il baccano delle sere d'estate che riempie le stanze e la gente che grida, ride, sbatte porte, rompe piatti, qualcuno è già ubriaco alle tre del pomeriggio e chiama un nome, un nome di donna impastato di birra. Ti immagino in spiaggia con la pelle abbronzata, i capelli pieni di salsedine e gli occhiali da sole sporchi di sabbia che riflettono il mio viso. Nelle tue lenti ci sono io che parlo ma non mi esce la voce. Immagino di camminare con te tenendoti per mano, attraversare mezza città fra persone tutte identiche tra loro, far scorrere il pollice sulle tue nocche, trovare sincronia nei nostri passi per poi perderla poco dopo perché non hai più la resistenza di un tempo e quindi rallenti. La città non la conosci ma aderisce alle tue abitudini come se avessi vissuto qui da sempre. Immagino di entrare in questa stanza con te, farti vedere la dimora delle mie ansie notturne, sdraiarmi con te su questo letto con lo stereo acceso e il mondo che prova a entrare dalla finestra ma trova la serranda abbassata. Mi tocchi piano e lasci cadere i vestiti sul pavimento, chiudi gli occhi. Dammi tutto l'amore che hai, te ne prego, irrorami d'affetto, aggiungi sale alle mie ferite e poi lecca via il dolore come facevi quando eravamo bambini. Non lasciarmi più solo. Tutte le strade portano a te, ma è buio qui e tu non ci sei.

Le mie visioni finiscono sempre per appassire. Mi ricordano che non è possibile vivere di elusioni. La mancanza resta, è nera e densa come un malessere che non si può percepire eppure c'è sempre. La verità è che non ti amo più come una volta. Ti voglio ancora bene, non lo nego, e mi manchi tanto da uccidermi, ma non è più l'amore dei nostri diciassett'anni. A quell'età, amando te, amavo la pallavolo. Amavo gli allenamenti che spaccavano le ossa, amavo le speranze, le delusioni, la frustazione di non essere abbastanza e il conforto di avere seconde occasioni. Tutto l'entusiasmo che avevo, però, l'ho perduto. E perdendolo, senza accorgermene, ho finito per gettarti via come si fa con un giocattolo vecchio. Puoi perdonarmi? Ti prego perdonami. Ho riposto troppa fiducia nel tempo; pensavo di avere la vita davanti ma era solo una sagoma di cartongesso.

Non riesco a pensare a te senza sentirmi strappare il cuore, tuttavia non faccio altro che pensarti. Le tue risate mi affogano mentre mi faccio la doccia, la tua voce viene fuori dal televisore e il tuo sguardo severo mi incide graffi sulle braccia quando mi lascio soppraffare dalle mie tendenze autodistruttive. Non riesco a non pensare al tuo amore remissivo, al modo in cui ricalcavi il mio egocentrismo senza mai farmi del male. Ma come ci riesci? Anche solo il tuo pensiero mi impedisce di crollare. Basta il tuo nome pronunciato con la lingua a bocca chiusa per tenere in piedi il castello traballante delle mie insicurezze. Mi aggrappo al tuo pensiero per non cadere all'indietro e scivolare giù lungo la strada scorticandomi la pelle sull'asfalto ruvido e caldo. E mentre tu mi sostieni ti lasci distrarre da una vita artificiale che non mi appartiene, dalle stagioni che cambiano sempre più velocemente, da occhi sconosciuti che ti guardano, immensi come pianeti, e dipingono di te un'immagine distorta che non sarà mai come la mia. Io provo a raggiungerti, a toccare con le dita le tue braccia di marmo, ma mi sono spinto troppo lontano, mi sono arrampicato sulla vetta più alta del mondo, con la vista su un paese straniero che non mi riconosce e non ricorda mai il mio nome. Questa città mi scuote piano, mi dice di dimenticarti, di lasciarti andare come tu hai già fatto con me. I suoni sfrigolano e le voci diventano fluide nelle mie orecchie, le luci dei lampioni mi piovono addosso, non sento nulla se non il mio cuore che batte impazzito perché per l'ennesima volta mi sono perso nel labirinto delle mie paure e tu non ci sei più a prendermi per mano e riportarmi a casa. Te l'ho sempre detto che ho paura di chi ottiene il massimo al minimo sforzo, qui sono tutti dei giganti e io mi sento così piccolo e sopraffatto. Questa città ha denti affilati e alle tre di notte mormora che vuole mangiarmi. Mentre io grido e chiamo il tuo nome lei mi crolla addosso e divora tutto lasciando solo spazi vuoti e lacerati.

Resta solo la speranza che gli anni appianeranno i sentimenti che ora fanno vacillare le gambe e lo stomaco. La speranza che potrò rassegnarmi a questo tempo assassino che scorre sempre in avanti lasciandoti indietro. Imparerò a rassegnarmi all'assenza, a sopportare la solitudine senza morirne, a dire il tuo nome e non ricordare più la tua voce. Un giorno affronterò la verità e mi spaccherà gli occhi. Ma non ancora, non adesso. Il tuo ricordo scende giù dal soffitto ed è tanto dolce il modo in cui si scioglie come burro sulle mie guance.

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