1- Notte senza ricordi

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"La vita è come andare in bicicletta:

se vuoi stare in equilibrio devi muoverti."

A. Einstein

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ABIGAIL

La testa mi faceva male. Sembrava che una macchina mi avesse investita e come se non bastasse avesse fatto pure retromarcia. Pochi secondi prima ero con il mio ragazzo. Mi ricordavo solo che quel giorno stavamo festeggiando i nostri sei mesi di fidanzamento. Mi aveva portata al mio luna Park preferito, perché io amavo andare lì; in quel posto tutto era più bello, i colori più accesi e le persone più felici. Verso mezzanotte ci eravamo appena salutati e mi ero iniziata ad incamminare verso casa e a metà strada incontrai una mia amica che mi incitò con lei a prendere una birra, da lì i miei ricordi iniziavano a essere sbiaditi. Mi venne in mente un flashback, talmente veloce che avevo il dubbio che fosse realmente accaduto. Sui miei fianchi vi erano delle mani, di certo però non erano né del mio ragazzo né della mia amica...non che potessi ricordarmi poi più di tanto con quel terribile mal di testa, infatti dopo questi ricordi c'era soltanto il vuoto.
Il pavimento sotto di me era freddo come il ghiaccio, provai ad alzarmi ma la testa mi faceva ancora un male terribile. Forse era meglio rimanere seduta, a terra, a fissare il pavimento cercando di abituarmi a quel buio che mi circondava. Non avevo idea di dove mi trovassi ma sapevo solo una cosa...quella non era casa mia. Paura, ansia e la nostalgia di casa si fecero sentire. Non volevo immaginare cosa avrei provato dopo aver saputo realmente dove mi trovassi. Forse manco lo volevo sapere. Forse era meglio rimanere col dubbio.

* * * * * *

Passò un mese e intorno a me c'era ancora solo e soltanto il buio. In realtà c'era un piccolo spiraglio di luce, era piccolissimo però, grande massimo quanto un libro In questi giorni erano passati dei ragazzi a portarmi del cibo e dell'acqua, lo stretto necessario per restare in vita alla fine. Mi ricordavo solo che già dai primi giorni mi misero delle manette con le catene attaccate al muro, per non scappare e queste mi lasciarono un segno indelebile sui polsi per quanto stretti. Con un sasso trovato a terra iniziai a segnare i giorni sopra al muro fino ad arrivare alla data attuale; 30 giorni, mi sentivo come se fossi una prigioniera. Oramai il buio e il silenzio erano miei amici. Quasi tutti i giorni sentivo delle voci fuori a quella porta d'acciaio; delle volte urlavano, delle volte si sentivano delle risate ed altre volte degli spari ma le volte in cui c'era silenzio ero terrorizzata, quando la calma regnava la paura prendeva il sopravvento su di me, avevo paura che mi lasciassero a morire là, da sola, in quella stanza inquietante.

Quel giorno, il trentesimo giorno, però, era diverso dagli altri. Alle mie spalle sentii il cigolio della porta, quella grande porta d'acciaio che separava me dalla mia libertà, spezzò il silenzio assordante dei pensieri inquietanti che mi circondavano. Era la seconda volta in quella giornata che si apriva. Non volevo voltarmi. Sapevo che non era il cibo quindi avevo paura che girandomi mi sarei ritrovata davanti al mio peggior incubo; la morte. Avevo paura di non rivedere più mio padre, di non poter mai più baciare il mio ragazzo e che quell'ultima risata da sbronza che mi ero fatta con la mia amica fosse veramente l'ultima della mia vita; no, non ero pronta. Continuai a fissare il freddo pavimento sotto ai miei piedi dando le spalle a quell'unica via d'uscita da quell'incubo. Speravo che fossero entrati solo per errore, che avessero sbagliato stanza o che erano lì per prendere qualcosa anche se la stanza era vuota ma la speranza era l'unica cosa che mi rimaneva e l'ultima a morire; ma non fu nessuna delle precedenti opzioni. Sulla mia schiena si poggiò una mano gelida che mi fece venire un brivido che mi attraversò tutta la colonna vertebrale, la stessa sensazione di quando qualcuno graffia la lavagna con le unghia. L'altra sua mano mi afferrò il polso senza che me ne accorgessi e in meno di tre secondi mi ritrovai in piedi con la schiena schiacciata contro il muro, lo stesso che prima mi era davanti agli occhi e mi faceva pensare talmente tanto da potermi portare lontano da quel posto buio dimenticato da Dio. Sapevo che davanti a me c'era qualcuno ma i miei occhi si rifiutavano di guardare, rimasero chiusi per la paura. La figura davanti a me, però, mi costrinse ad aprirli prendendomi dal mento con una mano e girando mio il volto verso di lui, con la stessa mano che prima mi era dietro la schiena. I suoi occhi erano neri come la pece, mi ricordavano la morte. Non lo avevo mai visto prima, o almeno non era uno di coloro che mi aveva portato da mangiare, me ne sarei ricordata, quell'uomo mi incuteva timore, una sensazione difficile da dimenticare specialmente se attribuita a una persona. Mi stava analizzando, da capo a piedi, proprio come si analizza un affare prima di concluderlo. Sentii di nuovo il cigolo della porta ma questa volta, da quel poco che riuscivo a intravedere in mezzo a quell'oscurità, vidi un uomo sulla quarantina. Era alto quanto il soggetto che era a pochi centimetri da me, ma il suo sguardo era più 'gentile' più 'accogliente'. Colui che però mi stava ancora esaminando non batté ciglio, proprio come se non fosse entrato nessuno, come se quell'uomo sulla soglia della porta fosse solo una mia immaginazione. Da giudicare il modo in cui si muoveva quell'uomo era agitato, non riusciva a stare fermo e quando parlò la sua voce tremava come se fosse incerta.
"Scusi capo se la disturbo ma dobbiamo sapere cosa vorrebbe farne di lei..." aveva una voce profonda che però non metteva timore ne tanto meno tranquillità. La stessa cosa però non potevo dirla della voce del soggetto davanti a me che non gli degnò di risposta. L'uomo che nel frattempo stava ancora sulla soglia della porta, invece, gli parlò come se avesse capito da solo la risposta alla sua stessa domanda.

"Ok capo, però decida in fretta. La polizia sta per arrivare. Dobbiamo andare via da questo posto il prima possibile". Mi sentivo la testa esplodere per le troppe domande; dove mi volevano portare se non qui? In che senso "cosa vuole farne di lei"? Stanno decidendo se uccidermi all'istante oppure lasciarmi lì? Forse però non era il momento più adeguato per delle domande. 'La polizia sta per arrivare'. Quelle dolci parole mi rimbombarono in testa. L'avrà chiamata sicuramente mio padre; amavo quell'uomo!.
"Signore lo so che non dovrei metterle fretta, e che lei sta ancora decidendo cosa fare, lo vedo che sta analizzando il soggetto, ma vede, è questione di minuti e la polizia sarà qui a momenti e se lei n-" "Viene con noi". Finalmente riuscii a sentire la voce del ragazzo che mi stava stringendo il polso. Era bassa e avrei preferito non sentirla visto che la sua voce mi faceva lo stesso effetto dei suoi occhi, mi metteva paura, mi si gelò il sangue. Il signore alle sue spalle per un attimo lo guardò con occhi serrati e bocca spalancata, come se gli volesse dire che era pazzo ma non ne aveva il coraggio. Lui sembrò come intuirlo, infatti mi lasciò il polso e tolse la mano dalla mia faccia. Caddi a terra come un sacco di patate non avendo neanche la forza di reggermi in piedi per quanto poco mangiavo da oramai un intero mese. Si girò di scatto e lo rimproverò senza perdere la sua compostezza. "Beh? Vuoi startene ancora lì per un bel po' a fissarmi aspettando che la polizia ci arresti?! Muovi quel culo che ti ritrovi e vai a mettere tutta la roba sul furgone, fra un po' ti raggiungeremo."
Dopo avergli detto ciò si rigirò verso di me, ma nel mentre richiamò il ragazzo che nel frattempo stava richiudendo la porta. "Ah, e Roger, se dico una cosa è quella. Non provare mai più a guardarmi come se fossi pazzo. Intesi?".
Fece un ghigno mentre alle sue spalle la porta si richiuse. Prima di andarsene però il presunto "Roger" aveva lasciato per terra qualcosa che non riuscivo a vedere molto bene. Il soggetto davanti a me invece mi squadrò per un'ultima volta e senza far passare manco un secondo di più mi diede di spalle.
"Perché sono qui?". La mia voce era esile, non so dove trovai la forza di parlare, a malapena ne avevo per respirare so solo che pensai che forse era quello il momento giusto di ricevere delle risposte, ma così non fu. Lui mi tolse le catene nel frattempo e una sua mano mi afferrò i capelli e li turò leggermente per farmi alzare la testa verso di lui "non ti venisse in mente di scappare, ti abbiamo messo un GPS sottocutaneo".
Non volevo credere alle mie orecchie ma so per certo che la rabbia che sentivo in quel momento mi diede la forza di urlargli contro la frase di prima. Lui si stava già incamminando verso la porta ma al suono della mia voce si fermò in mezzo alla stanza, girò a malapena la testa per vedermi con la coda dell'occhio per farmi intravedere il suo sorrisetto.
"Te lo domanderò per la terza volta e stavolta proverò a essere più chiara. Perché sono in questa fogna da un mese e chi cazzo siete voi." La mia voce era stranamente calma.
Rise. Io avevo appena trovato la forza e il coraggio di urlargli in faccia e lui rideva, rideva come se avessi appena raccontato una barzelletta e fossi il giullare del momento. Mi guardò con aria divertita ma i suoi occhi continuarono a non esprimere nulla e poi smise di ridere, come se non avesse mai iniziato.
"Hai carattere ragazza credo che nessun altro avesse mai avuto il coraggio di urlare contro una persona armato." Armato? Era armato? E chi lo sapeva. "Tieni questi sono i tuoi vestiti, indossali e poi vieni da noi. Ti conviene muoverti novellina o morirai qui dentro."
Si avviò per uscire ma da terra prese i panni che il così detto Roger prima aveva appena appoggiato lì e me li gettò ai piedi. Si chiuse la porta alle sue spalle e e mio mi ritrovai ancora da sola in quella stanza affollata dai miei pensieri e con il buio che oramai era diventato il mio migliore amico. Tutto ciò successe in poco tempo, in piccolissimi attimi... continuavo a fissare i vestiti gettati a terra e dentro di me, nel frattempo, si era creato un uragano di emozioni che stava continuando a crescere; sembrava che cercasse di divorarmi, di portarmi con sé e una lacrima mi scivolo sulla guancia, ma in questa situazione l'ultima cosa che avrei voluto era far prevalere le mie emozioni così presi in mano i vestiti che mi aveva lanciato e li indossai. Non erano affatto il mio genere, io ero più una ragazza da pantaloni larghi a vita bassa con top o felpe larghe, non da pantaloni di pelle e maglietta attillata scollata, tutto rigorosamente nero. L'unica cosa che mi piacevano erano gli stivali con un tacco, non a spillo per fortuna; non erano del mio stile ma ci sapevo camminare benissimo e alla fine erano comodi. Non so perché proprio a me stava succedendo quella cosa, ma di certo continuando a chiedermelo non avrei trovato una risposta.

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