La vita è buffa.

Dopo aver speso tutto quel tempo a scegliere la canzone giusta e le parole adatte, uno sciocco proiettile non mi ha lasciato finire.

Bulldozer prese il colpevole senza fatica: il ragazzo si era chiuso in stato di shock nel bagno di un baretto, la pistola ancora in mano, senza offrire neanche un mistero da risolvere. Così, la mia morte fu noiosa quanto la mia vita.

Ma la volete sapere una cosa? Quello che successe dopo non fu noioso per niente. Non posso dire di essere contento di trovarmi confinato qui, ma ho scoperto delle cose che, da vivo, non avrei potuto neanche immaginare.

Ve ne racconto un paio: uno dei miei compagni di scuola, Calogero Piscitello, noto a tutti per essere il figlio del boss del paese, era un ragazzino silenzioso, così nessuno gli dava noia. Quello che non sapevo, è che quando nessuno lo vede, Calogero si trasforma. Letteralmente. Indossa una lunga parrucca corvina, affila con maestria i suoi tratti squadrati grazie a fondotinta e rossetto, e legge le carte alle anziane che vogliono sapere se i figli stanno davvero bene, su al nord, o alle mogli preoccupate che i mariti le stiano tradendo. Il suo nome? Geri, la donna i fora.

E non parliamo di Bulldozer. Vi ho già accennato del suo ruolo in paese. Tutte le volte che si trova solo in caserma, di guardia, Bulldozer tira fuori dal suo borsone da ginnastica delle miniature, piccole statue delle guerriere Sailor, il cartone che piaceva tanto alle ragazzine. Le dipinge per ore con minuziosità da amanuense. Da vivo non avevo mai visto sorridere Bulldozer, ma quando alla fine di una lenta notte ammira il suo operato, le grasse guance gli si dipingono di gioia color porpora.

Oggi è trascorso un anno esatto dalla mia morte. Un anno in cui mia madre ha trascorso le sue giornate tra casa e chiesa, affrontando la mia perdita con una forza che mi rincuora. La guardo uscire di casa, il rosario stretto al petto, e proprio quando sta girando l'angolo diretta alla piazza, spunta Sarù.

Stavolta non sorride, e con passo svelto raggiunge casa mia. In paese nessuno chiude a chiave la porta, questo lo sanno anche i bambini. Mi sorprendo nel vederlo entrare con aria furtiva. Lo seguo, muovendomi con la leggerezza di un soffio di scirocco, e lo trovo in camera mia. Con delicatezza sfiora tutto quello che credevo mi rappresentasse. Poi, come folgorato, si china a guardare sotto il letto e ne cava fuori la mia chitarra. Come un ladro dei cartoni animati, guardando prima a destra e poi a sinistra, Sarù corre fuori da casa mia e io lo seguo.

Resto con lui mentre a grandi falcate corre giù per le strade nodose e supera le botteghe impolverate. Arriva alla spiaggia, una sottile lingua di sabbia rosa circondata da rocce rosse e squadrate, e si avventura tra le loro insenature, sfidando con la sua stazza le leggi della fisica.

Percorre un lungo corridoio buio e roccioso, l'acqua ristagna tra i sassi e ogni suo passo pare uno schiaffo. Così faccio meno fatica a capire dove dirigermi. Sono un fantasma, non un pipistrello: non vedo al buio meglio di Sarù, che però sembra a suo agio in quell'oscurità salmastra.

Il nero viene improvvisamente interrotto da una falce di latte. Come in un vecchio film, il percorso ci ha portati in una grotta di cui non conoscevo l'esistenza. È alta, e all'estremità c'è una fessura che illumina il posto come il faro di un palcoscenico.

All'interno una cinquantina di scogli, di diverse grandezze e forme, indossano variopinte giacche. Leggeri cardigan, giubbotti in pelle, un paio di pellicce, lunghi cappotti dai cappucci imbottiti, una roccia ha persino un berretto di lana e una sciarpa sopra la felpa della Juventus.

Sono tutte disposte a cerchio, come scout attorno al focolare e, al centro, c'è una roccia leggermente più alta che indossa una giacca che conosco bene. Una giacca jeans con toppe di vecchi gruppi musicali cucite sopra.

Sarù le si avvicina, tenendo solenne la chitarra tra le mani come uno scudiero impugnerebbe una spada. Vi si inginocchia a fianco e lì la depone.

Quando si alza, per un istante, ho come l'impressione che stia sorridendo proprio a me, ma prima che possa dire qualcosa si siede a gambe incrociate, tra il pubblico di scogli e giacche, come un bimbo che aspetta che in sala spengano le luci per godersi lo spettacolo.

È buffa la vita, ma anche la morte non scherza.

Mi avvicino allo scoglio con la mia giacca. La indosso e prendo la chitarra tra le mani. La luce che filtra dalla fessura prende vita, come invasa da minuscole lucciole danzanti.

Sarù ride con la sua risata ansante e io non posso deluderlo. Muove la testa lentamente, provando a seguire il ritmo delle note.

Temporali e noviluni in filigrana
Osservano e contemplano dall'Unità...

Il pubblico mi osserva in religioso silenzio, ascoltando attentamente ogni parola, elegante nelle giacche rubate. Forse, se mi fossi fermato a guardare meglio, avrei scoperto prima che di noioso non c'è proprio nulla, in questa buffa vita.
Nuvole, si evolvono e poi si disperdono
Nuvole, vivono nel mondo ma non sono del mondo...

Sarù si alza in piedi e inizia a battere le grandi mani in un fragoroso applauso, che echeggia contro le pareti della grotta, amplificandosi e, per un attimo, è come se anche gli altri spettatori stessero applaudendo.

Ringrazio. Finalmente ho finito.

Nuvole biancheWhere stories live. Discover now