Nuvole bianche

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Sono nato e morto in un paesello sul mare. Uno di quei posti dove in inverno non accade mai nulla e in estate, con l'arrivo dei turisti, ti illudi che possa accadere di tutto.

È successo proprio durante una afosa serata estiva, quando un picciotto che conoscevo appena ha impugnato una pistola per regolare un conto, di cui anche lui sapeva ben poco. Era giovane, non gliene faccio una colpa, ma a causa della sua pessima mira, o forse del tremore impaurito delle dita, ha colpito me al posto del suo bersaglio.

Strana la vita, no? Proprio la sera in cui avevo l'opportunità di suonare sul piccolo palco in legno che avevano montato in piazza, di fronte alla vecchia chiesa, dove il parroco prima mi aveva battezzato, poi costretto a fare la comunione, e infine cacciato perché tenevo i capelli troppo lunghi sulle spalle e i vestiti sdruciti.

La piazza dove le campane scandivano il lento trascorrere del tempo, delle vite che ritenevo vuote e senza significato.

Mi chiamavano U musico. A me non dispiaceva. A mia mamma un po'. Prima di andarsene, papà aveva lasciato nel ripostiglio di casa una consunta chitarra acustica. Iniziai a suonarla a sei anni e per gli otto mi sentivo già il padrone delle corde e il signore delle note.

Così, quando affissero il poster per un concorso musicale, che diede agli anziani di che parlare e ai giovani di che ridere, fui il primo a iscrivermi. Impiegai settimane a scegliere la canzone che avrei suonato per i mei noiosi compaesani, cercando le parole adatte per svegliarli da quel torpore che temevo prima o poi avrebbe preso anche la mia anima.

La sera del concerto la piazza era piena. Quando salii sul palco non potei far a meno di notare in prima fila il lungo e sorridente volto di Saruzzo.

Di Sarù dovrò parlarvi.

Anche lui, come me, aveva una nciuria. U Fuodde. Ci capivamo, io e Sarù, perché nessuno voleva darci troppa confidenza, anche se per motivi diversi. A me a causa dei lunghi capelli, a lui per l'innocente ritardo che lo rendeva un eterno bambino di due metri, con mani grandi come dizionari.

Non era cattivo, Sarù, né troppo fastidioso. Salutava sempre tutti, sfoggiando un sorriso sgangulato. Aveva un solo vizio, che da vivo non ho mai compreso: Saruzzo rubava giacche. Proprio così, ogni qual volta qualcuno, compaesano o turista, lasciava la propria giacca incustodita su una sedia o poggiata su una panchina, lui, con destrezza, la portava via, chissà dove. Se per caso nelle tasche trovava soldi, o documenti, Sarù li faceva sempre ritrovare ai proprietari, quelli non gli interessavano.

Anche quella sera mi salutò, e io ricambiai. Salii sul palco e iniziai a suonare la mia canzone.

Nuvole bianche veloci nel vento
Attraversano i mari della relatività...
Ignorando le risate dei compagni di scuola e i borbottii del parroco, mi concentrai solo su Saruzzo, che batteva le mani fuori tempo e sorrideva.

Viaggiano in alto al di sopra del maestrale
Oltre gli orizzonti della vanità...
Saruzzo ululò di gioia e anche io non potei trattenermi dal sorridere cantando. Quella fu l'ultima cosa che feci da vivo.

Ma non fu l'ultima che vidi. Rimasi lì mentre i presenti iniziavano a urlare e sparpagliarsi, con il parroco che correva cautamente in chiesa e si barricava al sicuro, e persino quando le sirene della polizia conclusero il concerto al mio posto. Poco prima che l'ispettore capo, che tutti in paese chiamavano Bulldozer, arrivasse, notai Sarù. Il sorriso sul suo lungo volto a forma di mezzaluna si era sciolto, e grosse lacrime gli bagnavano le guance. Si avvicinò a quello che era rimasto di me e, dopo un istante d'esitazione, sfilò dal mio cadavere la logora giacca di jeans con le toppe dei miei gruppi preferiti e scappò via, mescolandosi alla folla.

Nuvole biancheWhere stories live. Discover now