Cristalli e rubini

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Alla faccia del campo, quello era un labirinto in piena regola! Si era persa, il temporale appena scoppiato se lo stava beccando tutto in testa, e per giunta, nella fretta di scappare, aveva lasciato l'ombrello dentro. Correva tra i viali che stavano diventando rivoli di fango, l'acqua scrosciante le entrava fin nelle scarpe.

Tina questa volta non ce l'aveva fatta. Le foto in bianco e nero, le pile di scarpe e capelli, i racconti di torture, sevizie, eccetera eccetera, non le avevano fatto effetto più di tanto: si andava ad Auschwitz, che cavolo, questo se lo era aspettato fin dall'inizio.

Ma non quel disegno.

La guida, una tizia polacca che non sapeva nemmeno farsi capire troppo bene e ripeteva sempre le stesse parole, li aveva portati nel museo, dove c'era una mostra. Erano disegni fatti da un sopravvissuto; disegni a matita, di un bianco e nero accecante, teschi ammassati, scheletri che annaspavano come stessero affogando.

Finché si era ritrovato davanti quella specie di zombie.

Non aveva letto nemmeno la didascalia, la paura era stata troppa. Non per quella testa enorme su un corpo tutto pelle e ossa, e nemmeno per il cranio pelato, la faccia da cadavere e le orbite scavate: quello che non aveva potuto sopportare era stata la vista di quegli occhi, che gli occhiali rendevano ancora più grandi; pareva avessero puntato proprio lei.

Ora, bagnata fino alle ossa, cercava di ricordare dove fosse l'unico spiazzo di Auschwitz I, quello con il muro delle fucilazioni, dove la prof. di storia aveva detto di ritrovarsi nel caso qualcuno si fosse perso. Tentò di orientarsi guardando il numero del blocco di fronte al quale si trovava, un'anonima casetta di mattoni color terra.

11. E la scritta Blok Śmierci sopra la porta. Il Blocco della Morte.

Lo riconobbe, ci erano già passati, ma non avevano potuto entrare perché la guida aveva detto che oggi ci stavano facendo le pulizie. Il muro era proprio lì vicino. La porta era aperta, però.

Ma sì, entriamo e aspettiamo che la finisca di piovere almeno, si disse Tina; era inutile star lì ad aspettare con l'acquazzone in testa rischiando di prendersi una polmonite.

S'infilò di corsa nella porta. La investì un odore acuto di detersivo e disinfettante passato di fresco, il corridoio era ingombro di ceri, targhe di marmo, corone di fiori. Dovevano aver fatto proprio le pulizie di primavera lì dentro, e si sentì un po' in colpa vedendo l'acqua di cui grondava inzaccherare il pavimento. Pazienza, dovevano esserci abituati, con tutta la gente che andava e veniva ogni giorno.

Si sedette un momento a terra, provò a pulirsi un po' il fango sotto le scarpe con il suo ultimo pacchetto di fazzoletti, e a pulirsi da dentro quella paura bestiale con una delle sue canzoni preferite.

I can't stand the rain
against my window...

Ma nemmeno la sua adorata omonima Tina Turner riuscì a darle un minimo di calma. Strano, con tutta la carriera che aveva alle spalle, non doveva esserci niente che potesse ancora spaventarla; e poi era una cretinata aver paura di un pezzo di carta, le visioni di acido dei tempi in cui si bucava erano centomila volte peggio.

Ma quella faccia che sembrava uscita dall'ultima serie di The walking dead le era ormai entrata nel sangue, e la stava facendo andare fuori di testa. Sussultava al minimo rumore, si guardava intorno trattenendo il fiato. Colpa di quel posto insopportabile, dell'orrore che trasudava fin dalla pioggia, fin dall'aria che respirava. Quel sopravvissuto aveva ragione: tutto ad Auschwitz era veleno. No, era molto più di veleno. Come se la carne umana che i crematori avevano vomitato per anni fosse ancora là, e stesse aspettando solo il momento giusto, o le radiazioni di una sonda spaziale, per riaggregarsi e vendicarsi di tutto divorando il primo vivo che capitasse a tiro...

Cristalli e rubiniOnde as histórias ganham vida. Descobre agora