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Dedicata a M

quando per noi
forse la vita era più facile

La prima estate passata a Mullingar era stata piovosa e triste.

Avevo pensato che forse era stato un caso sventurato - come quelle primavere che durano troppo a lungo o quegli inverni dalle temperature elevate - ma avrei dovuto intendere dal comportamento dei suoi abitanti che quella pioggerella fine e fastidiosa era un qualcosa all'ordine del giorno. E non solo d'estate.

Osservai fuori dalla finestra seduto sul mio letto. Indossavo ancora i pantaloni della tuta che usavo come pigiama, mia sorella aveva lasciato la porta aperta e la voce di mia madre ripeteva con astio di alzarmi.

Erano le undici ed era domenica, forse era giunto il momento di far comprendere a quella donna che svegliarmi prima di mezzogiorno era considerato un reato nella nazione in cui ci trovavamo ora.

«Harry, ti sei alzato? - strepitò entrando nella mia stanza - Non dovevi svegliarti presto per fare quella cosa

Mormorai qualcosa tra me senza che nemmeno io ne carpissi il significato. Mi diedi una spinta con le braccia per mettermi in piedi, anche se la tentazione di tornare a letto era forte. Mia madre mi sorrise, un sorriso strano che nascondeva un qualcosa che nel mio stato di sonnolenza non afferrai; si diresse poi verso il bagno. Si stava preparando, quale fosse l'evento era per me un segreto ma alla fine dei conti non m'importava. Avevo quella cosa da fare.

Mi preparai con calcolata lentezza. Le mie braccia si muovevano a fatica come se quei gesti giornalieri fossero d'un tratto stati dimenticati e avessi dovuto apprenderli ancora. Infilai una giacca a vento leggera nello stesso modo in cui avrei indossato una camicia di forza ed uscii di casa. Le gocce di pioggia s'intrufolarono tra i miei capelli spettinati ma non m'importava. Avevo quella cosa da fare e la piega dei miei capelli era l'ultima mia preoccupazione.

I miei piedi si trascinavano con difficoltà mentre mi dirigevo verso la fermata dell'autobus, che già sentivo avanzare alle mie spalle. Si fermò e salii, senza degnare l'autista di un saluto. Notai un ragazzo incappucciato seduto in uno degli ultimi posti, intento a rollarsi una sigaretta.

«Liam.» dissi.

Lui alzò lo sguardo e mi salutò con un cenno del capo. Mi sedetti quando avvertii le gambe cedere e la testa girare. Guardai fuori dal finestrino appannato per svuotare la mente, concentrandomi nel guardare quelle casette a schiera ora cupe e malinconiche, quelle stesse abitazioni che una volta mi erano apparse come una reggia. Il tratto di strada non era lungo, ma era mezzogiorno e c'era traffico in centro.

«Hai saputo?» domandò Liam sistemandosi la sigaretta dietro l'orecchio.

«Sì.»

«Vai da lui?»

«Devo.»

Annuì senza aggiungere altro, perché in realtà non c'era altro da dire e perché lui era sempre stato avaro per quanto riguardava le parole. L'autobus si fermò dopo qualche metro e compresi di essere arrivato. Salutai Liam con una stretta di mano debole, prima di scendere.

Sentii ancora più freddo quando il mio sguardo si posò sul palazzo di cemento di fronte a me. E quando entrai, nonostante non sentissi più il vento colpirmi il volto e le mani, rabbrividii.

«Non è orario di visite.» rispose la giovane segretaria con un sorriso mellifluo quando le porsi una domanda. Osservai un numero sullo schermo del suo computer e annuii, fingendo di andarmene.

Regole. Stupide ed inutili regole.

Appena lei si voltò per dar retta ad un collega, sgattaiolai nell'ascensore e schiacciai più volte il pulsante del piano a cui dovevo andare, come se così facendo le porte scorrevoli potessero chiudersi più velocemente. Tutto il peso di quella mattina che mi aveva costretto ad una lentezza logorante pareva essere sparito. Frenetico ed entusiasta osservavo i numeri dei piani aumentare regolarmente. In fondo ero sempre lo stesso, avrei avuto il battito a mille anche nel dire la più bianca delle bugie.

Se torneraiDove le storie prendono vita. Scoprilo ora