2. Lucilla e io

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Quando io ho incontrato Lucilla, lei era diventata argento spento, ormai più simile a cenere che a mercurio. Si trascinava inerte da un giorno all'altro, da una stanza all'altra, quasi non vedesse nulla se non le pareti contro cui non doveva andare a sbattere. Lucilla era priva di qualsiasi luce, ridotta soltanto a un flebile ricordo della scintilla che il suo nome evocava.

Ma nel manicomio in cui era ricoverata si distingueva comunque tra tutte le facce spente che le stavano attorno: era di una bellezza cristallina, anche se appassita e timida. Era grande ma delicata, sfuggente tanto quanto piena, candela smorzata eppure legnetto pronto per ardere.

Come psicologo tirocinante, non potei fare altro che provare a tirarle fuori qualche parola. Ma ero grezzo, inesperto, e lei mi abbagliava, mi guardava con occhi opachi ma pieni di colore riflesso, e io non capivo niente. Temo di averla ferita, più e più volte, nei primi tre mesi in cui l'ho conosciuta: non sapevo dosare le parole – il mio supervisore mi rimproverava aspramente, per il poco tatto e la poca professionalità – non sapevo come affrontare la sua solitudine forzata, il suo disturbo che la portava improvvisamente da periodi di depressione a giorni di inimmaginabile euforia.

Così, il mio periodo di tirocinio si concluse: presi la mia laurea sottobraccio e andai alla ricerca di un lavoro. Finii per essere assunto come consulente in una clinica ospedaliera. Era dura stare dietro a tante persone diverse, curare ognuna come la sua specifica vita, tornare a casa da solo ma accompagnato dai loro lamenti o dai loro singhiozzi – le risate erano rare – ma mi piaceva. Aiutavo le persone. Avevo studiato per quello.

Poi una mattina entrò dalla porta del mio ufficio una donna dai capelli scuri e occhi brillanti, anche se socchiusi a causa della luce che proveniva dalle finestre.

Quella donna era Lucilla. Un braccio bendato, un medico a fianco. Ero sconvolto, così tanto che a fatica afferrai il senso delle parole del mio collega: si era tagliata un polso, ultimo tentativo di una serie che continuava da qualche settimana.

Erano passati anni da quando l'avevo conosciuta, ma era ancora la stessa donna bellissima: più appassita, più distrutta, ma inevitabilmente splendida. Stavolta però io sapevo come affrontarla: avevo qualche asso in più nella manica, anni di studi e lavoro alle spalle, e l'assoluta certezza che se non fossi riuscito ad aiutarla me ne sarei sentito responsabile per il resto dei miei giorni.

Durante il nostro primo colloquio, notai che Lucilla osservava con attenzione i pennarelli che tenevo sulla scrivania. Deciso a non farmi sfuggire nessuno dei suoi movimenti, contai ogni occhiata e misi giù un piano d'azione. Mi procurai scatole e scatole di colori – cere a olio, principalmente, nulla con cui potesse ferirsi – e la volta successiva li lasciai tra le sue mani e uscii dalla stanza.

Avevo fatto il primo passo, e quando tornai a vedere, dopo poche decine di minuti, lei era distesa per terra, immersa in risme di fogli spiegazzati, arrotolati, sparsi a caso sul pavimento candido. Teneva un colore per mano, uno era infilato nei capelli – lo ricordo, era rosso come il sangue – e altri distribuiti attorno a lei come petali di un fiore. Quando mi vide, aprì con timidezza le labbra in un sorriso, e il mio cuore crollò con un tonfo quando capii che lei c'era, che era splendida come avevo sempre pensato, e che tutto ciò di cui avevo bisogno per aiutarla erano tempo e voglia di capire la sua follia, tempo e voglia di riportare la sua ipomania– quei lucidissimi momenti di abnorme euforia che le impedivano di fermarsi, di stare in silenzio, di fare qualcosa per più di qualche istante – a una gioia euforica ma più contenuta, compresa, o per lo meno più comprensibile per lei.

Ci misi anni – lo giuro, anni – a farle recuperare un po' di coraggio, a tenerle la mano mentre camminava per qualche isolato, a insegnarle ad attraversare la strada concentrando la sua attenzione solo su ciò che stava facendo, e non su tutto il resto dell'infinito mondo che le danzava attorno luccicante. Ci misi anni a imparare io stesso a sentirla ridere senza freno, a vederla sorridere sempre, a capire che per lei non era nulla di strano, nulla di diverso, tutto normale. Ci mettemmo anni, a capire i nostri difetti assieme, a fidarci uno dell'altra – lei di me, che la frenavo e le ponevo un limite; e io di lei, che mi trascinava a vedere le corolle dei fiori e si lasciava pungere da un'ape perché non la voleva spostare dal proprio braccio.

Alla fine, dopo anni interi, mi feci avanti con lei. Dopo un decennio di cure, un decennio di minuti e ore e giorni passati assieme, un decennio di sorrisi e risate e piccoli insegnamenti e passeggiate più lunghe, alla fine le spiegai che l'amavo. Sì, non lo dissi, lo spiegai: Lucilla non sapeva cos'era l'amore, e non capiva cosa significasse provarlo.

Ci misi altri anni – meno di dieci, però – a farle capire con gesti e sillabe sparse tutto ciò che sentivo dentro di me: la portai a vedere il mare, le feci provare l'abbraccio della neve gelata, l'accompagnai al circo, la feci salire su un cavallo, le spiegai passo passo come scattare una foto, le mostrai ogni fiore e ogni colore di cui fossi a conoscenza. Paragonai ogni mio sentimento a quello che lei provava sulla pelle: il calore del sole e il fruscio del mare erano i suoi occhi che mi guardavano, la sua voce quando parlava; la neve gelata era la sua mano sul mio braccio, i brividi che sentivo fin dentro le ossa; il circo era lo spettacolo del mio cuore che impazziva ogni volta che mi stava troppo vicina; il cavallo l'eccitazione tremenda che provavo quando ero io ad avvicinarmi a lei, a lasciarle un bacio sulla tempia sperando non si allontanasse; le foto erano i modi in cui cercavo di osservarla continuamente, per portarmi dentro tante piccole istantanee di lei; i colori erano l'arcobaleno in cui lei aveva trasformato ogni cosa che conoscessi in qualcosa di nuovo.

Alla fine, Lucilla capì. Avevamo ormai entrambi quarant'anni, e il giorno del mio quasi-quarantesimo-compleanno lei mi regalò un dipinto. Raffigurava una macchia di un colore metallico, grande, lucida, che rifletteva infinite gradazioni di pigmenti dentro sé stessa.

«È argento vivo» mi disse. «Sono io. O almeno, io mi sono sempre compresa così. Come argento vivo. Come mercurio».

Aveva usato le parole ripetutele da tutti per provare a capirsi, a fare quello che da una vita le insegnavano a fare e però non era mai riuscita a realizzare davvero. Aveva provato a definirsi, più che a capirsi. E poi mi aveva regalato ciò che aveva compreso di sé.

Capimmo entrambi che quello era il punto di non ritorno. Capimmo entrambi che da lì in poi avremmo vissuto assieme, continuando a guardare il mondo assieme, anche se ognuno a modo suo.

E fu la vita più bella che avessi mai potuto desiderare.

Lucilla mi insegnò a colorare con ogni mezzo e a disegnare ogni cosa, a correre nei prati, a cogliere i fiori e a farne mazzi infiniti, a ridere per una battuta squallida, a raccogliere le lacrime dalle guance di chi piange, a farmi coraggio per lanciarmi da un dirupo con la corda da bungee-jumping. Lucilla mi insegnò a essere pazzo, pazzo di vita e pazzo di lei.

In cambio, io le insegnai ad abbracciare le persone, a parlare con loro, a farsi tenere per mano, a baciarmi, a fare l'amore con me, come voleva lei, come sentiva lei – tendenzialmente... senza stare fermi un secondo. Le insegnai ad amare gli altri esattamente come amava il mondo e la vita.

Diventammo pazzi assieme. Diventammo pazzi uno dell'altra e pazzi a causa una dell'altro. Fu la miglior vita di sempre, la migliore del mondo. Perché era tutta nostra, e noi la vivevamo come volevamo. Con pazzia. Con amore.

Argento vivoWhere stories live. Discover now