Mia principessa

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Mary accarezzava i capelli della figlia passandoseli con delicatezza tra le dita, lunghi fili biondi e luminosi come quelli di una principessa delle favole. La chiamava così, la mia principessa, celandole con ogni sforzo l'ansia e l'affanno che la sua condizione, da quando tutto aveva avuto inizio, aveva gettato sulle loro esistenze, coronandole di una luce maligna, blasfema. Emma rideva con la gaiezza di una creatura cui fosse preclusa ogni altra emozione. Giocava a nascondere il viso alla madre, dandole le spalle e girandosi di scatto una volta a destra e una volta a sinistra, e Mary inseguiva paziente l'azzurro guizzante di quegli occhi reagendo con simulato stupore e reprimendo, allo stesso tempo, l'angoscia che le montava nel petto. Era il loro rito da più di un anno ormai, la fase conclusiva del mondo come l'aveva sempre desiderato e l'inizio del più terrificante e spaventoso degli incubi ricorrenti.

Emma si voltò e allungò una manina sulla guancia della madre. Lo sguardo immutato, vivo e limpido come sempre, d'un tratto apparve in contrasto con il broncio che le si era formato sul musetto roseo. «Mammina, che cos'hai?»

Mary maledisse la propria fragilità, che tante volte aveva ricacciato indietro con il piglio di madre risoluta e coraggiosa, mentre il Dottor Palmer, nel suo ambulatorio (Dio non volesse che lo sfacelo di quella casa fosse presentato ad alcuno!), auscultava il cuore della piccola e le diceva che era perfetto e regolare come il più efficiente degli orologi da tasca; che doveva smetterla di preoccuparsi e che, anche se lui non si sarebbe mai tirato indietro per quel fiorellino indifeso, avrebbe fatto meglio a chiamarlo quando si fosse presentato un qualche rossore cutaneo, o il più banale, per quanto inusuale, dei colpi di tosse, anziché senza motivo apparente, come da due mesi a quella parte. Se avesse saputo, il poveretto, se avesse visto anche solo una volta, avrebbe odiato quel fiorellino indifeso come l'abominio inenarrabile quale era.

Dal camino acceso si levò uno schiocco che ridestò Mary da quei pensieri ansiosi, mentre lo sguardo interrogativo di Emma indugiava nel suo. Con l'indice le sfiorò teneramente la punta del naso, e come un interruttore nascosto che attivasse le emozioni giuste per una creatura così pura, la bimba rise felice. «Va tutto bene, mia principessa. Mamma è solo stanca.»

Saltellando sul posto Emma tornò a voltare le spalle alla madre e con un fremito di eccitazione ricominciò quel fugace nascondino di occhiate furtive e innocenti. Il fuoco irradiava il suo tepore familiare dal camino della cucina, riscaldandole in un abbraccio che Mary avrebbe voluto non finisse mai. Fuori il crepuscolo mescolava nel cielo le sue tinte pastello rosa, celeste e arancio e le incorniciava tra le assi logore della finestra. Un cumulo di foglie crepitò da qualche parte oltre la veranda, sospinto dal vento che si era alzato tra gli alberi del bosco. Presto sarebbe sopraggiunta un'altra notte senza luna. Mary distolse lo sguardo rassegnato dallo spazio intorno a loro e tornò a guardare la bambina, subito lasciando ricadere in grembo, con un sussulto, la ciocca delicata di capelli della figlia; Emma si era bloccata, ancora di spalle, e non rideva più. La donna sentì il terrore afferrarla alla base della nuca. Si sporse per scorgere gli occhi della sua principessa, sempre immobile, e si ritrasse un istante dopo cogliendo la sua espressione assente, la bocca rimasta socchiusa e il mento tremolante, come sull'orlo di un pianto disperato. O di qualcos'altro.

«Mamma...» la sua voce sembrò arrivare da molto lontano. «Mammina, dov'è papà?»

Mary lasciò stavolta che il gemito fuoriuscisse dalla sua bocca, liberatorio, e si drizzò in piedi. La piccola non mosse un muscolo. «Vieni, Emma. Andiamo. Vieni con la tua mamma.»

«Dov'è papà?» insistette la bambina.

Mary scoppiò in lacrime, oramai incapace di arginare il vortice di angoscia che tornava a scuoterla con rinnovata brutalità. Mio povero Tom, gemette dentro di sé. Perché mi hai lasciato sola? Con un braccio cinse le spalle della piccola e la spinse davanti a sé strisciando i passi sulle travi scrostate del pavimento. Scricchiolii sinistri si levarono dai loro piedi mentre la donna lanciava occhiate febbrili e timorose ai solchi irregolari nel legno, come se stesse osservando il baratro dalla sommità di una montagna la cui cima si assottigliava a vista d'occhio senza lasciarle scampo. Il respiro di Emma giungeva alle sue orecchie appesantito e accelerato, ora un fischio asmatico, ora un rantolo animalesco e impossibile. Poi, con un filo di voce la sentì farsi strada nella nebbia di quel male oscuro: «Fa male, mamma...»

Mary sollevò la figlia per un braccio («Lo so, bambina mia, ma ora passa»), quasi trascinandola di peso, e raccolse la lampada dal tavolo della cucina. Avrebbe corso ancora una volta il rischio, pur di non lasciarla sola fino all'ultimo istante. Non in preda allo sconquasso che stava per manifestarsi, orribile come la più orribile delle maledizioni. Salì i primi gradini della scala tenendosi a debita distanza dalla balaustra che era andata in pezzi il mese prima (Oh Tom, amore mio, fu di nuovo il gemito di dolore che le percorse l'anima), poiché temeva che il peso della figlia, o un suo strattone improvviso e imminente, potessero farle volare entrambe tra schegge appuntite e urla inumane.

«Vieni, piccola mia. Mamma è qui con te» le disse, la voce ora nient'altro che un singhiozzo incontrollato. Raggiunsero il ballatoio, il cui pavimento, illuminato dai guizzi di luce della lampada che Mary stringeva nella mano tremante, appariva anch'esso coperto di squarci ancor più profondi e violenti, quanto più rapida e irrefrenabile doveva essere stata, in quel punto, la forza che li aveva prodotti. La donna chiamò a raccolta forze insperate e puntò la lampada verso il fondo del corridoio. Scorse a pochi metri la rassicurante porticina di ferro del sottotetto, e altrettanto doveva aver fatto la piccola Emma, ma con sentimento opposto, perché a quella vista strillò disperata: «Non lasciarmi sola, mamma!», ma tutto quello che ottenne fu di produrre solamente un verso gutturale e appena intellegibile, di una miserabilità tale che Mary sentì sfilar via anche l'ultimo barlume di ragione dalla sua mente provata. Incespicò all'indietro, a malapena sorreggendo la lampada tra le mani incerte. Guardò la porta del sottotetto, ultima barriera tra lei e la salvezza, e poi ancora la piccola Emma, che cominciava ad appesantirsi e ad affondare gli artigli nel pavimento. Si chinò a sfiorarle il viso, come fosse l'ultimo tentativo di renderle più dolce l'istante prima della trasformazione. «Ora passa tesoro mio, ora passa...», balbettò, e dopo un'ultima carezza si lanciò a testa bassa verso il riparo. Emma emise un urlo lacerante alle sue spalle, un urlo che Mary sapeva essere del più indicibile dei dolori fisici, perché quella era ancora la fase che precedeva la perdita totale del raziocinio; la fase oltre la quale non ci sarebbe più stata alcuna possibilità di sfuggire alla sua bambina. La povera donna raggiunse la porta e afferrò la maniglia come se questo bastasse a risvegliarla da quell'orribile incubo senza fine, poi si voltò un'ultima volta verso sua figlia. Emma era lì immobile al centro del ballatoio, un'ombra piccola e nera i cui contorni si stagliavano contro le lame di luce che baluginavano dal camino al piano di sotto. Mary sapeva che la figlia la stava fissando, finché non scorse le braci nei suoi occhi incontrare la luce della lampada e poi spegnersi mentre il suo corpicino crollava carponi. «...FA MAAAALEEEEEE!» fu l'ultimo rantolo che l'essere grugnì al cielo prima che la figura dell'orrido demone quadrupede cominciasse a lacerare le carni sottili e delicate e a sostituirsi, impietoso e deforme, alla bambina che era stata pochi secondi prima. Mary urlò e spalancò la porta, e appena l'ebbe serrata alle sue spalle, il respiro trattenuto per lo sforzo, sentì la bestia galoppare verso quel riparo e schiantarsi di slancio contro la spessa barriera di metallo.

«Ora passa, principessa mia» sussurrò la madre dall'angolo più lontano del sottotetto, gli occhi serrati e le mani premute sulle orecchie straziate dal rimbombo dei colpi e dai grugniti bestiali di Emma.

«Ora passa...»

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