CAP. 5

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Brescia, martedì 17 agosto 2004, all'alba

Stimatissimi coniugi Pierdimaria

Quando la vide affacciandosi alla finestra, alle cinque e un quarto del mattino, l'aristocratica signora Lilia, moglie dello stimatissimo giudice Giovanni Pierdimaria, non riuscì a distinguere quasi nulla (complice la vista ormai calata da lunghi anni e quell'aria assonnata che, nei quarant'anni di levatacce lavorative di suo marito, non era mai riuscita a togliersi prima delle nove e trenta, dopo essersi cotonata i capelli a dovere).

I coniugi Pierdimaria si alzavano all'alba da quando lui, nominato a trentacinque anni giudice della prima sezione penale del Tribunale di Milano, dovendo prendere a Brescia il treno delle sei, si era abituato a trangugiare velocemente una tazza di caffè, preparata dalla moglie per decenni sempre allo stesso modo: con la caffettiera napoletana, poco zucchero e nessun commento.

La signora Lilia, infatti, in quei lunghissimi anni di arido coniugio, oltre all'arte del caffè aveva appreso con maestria anche l'arte del tacere sapendo che il marito rifiutava sempre di parlare: al mattino perché lunatico dalla nascita ed alla sera per perenne stanchezza professionale.

Così quel martedì mattina, affacciatasi alla finestra dopo aver faticosamente alzato la tapparella ed annusato le erbe aromatiche sul davanzale, l'anziana signora Lilia dovette trovare il coraggio di rompere il silenzio (e quell'aurea regola di vita domestica e coniugale) e con voce flebile chiamò il marito dalla porta del bagno.

«Gigino...Gigino, ti stai facendo la barba?» domanda retorica perché prima del caffè suo marito la barba non l'aveva rasa mai perché gli tremava la mano, ma l'educazione le impediva di chiedergli se stesse espletando impellenti funzioni intestinali.

Lui, stupito ai limiti dell'inverosimile causa l'insospettata capacità della moglie di proferire parola prima delle ore nove e trenta, trasalì dalla Gazzetta Ufficiale che non aveva perduto mai l'abitudine di leggere e rispose: «Lilì che c'è stai male?»

«Gigino... quando puoi vieni alla finestra della cucina.»

Il giudice Giovanni Pierdimaria, uscendo dal bagno malamente avvolto nella vestaglia da camera in seta, color melanzana appassita, s'avviò annoiato a passi lenti pensando a quale fosse stata l'ultima volta che lui e la moglie si erano parlati al mattino così presto. Labile, gli sovvenne così il ricordo della nascita di suo figlio Andrea (nato prematuramente il 18 agosto 1966, giorno di Sant'Elena Imperatrice, di giovedì alle otto del mattino dopo due sole ore di travaglio condotto per metà in tram).

"A proposito", pensò, "domani è il suo compleanno".

«Guarda là», disse la moglie, «oltre la siepe, sull'auto color tortora c'è una cosa colorata che non capisco.»

«Dove?» disse lui, annoiato e indispettito, pensando con scazzo al desiderio mai completamente represso della moglie di farsi gli affaracci altrui anche di primissimo mattino.

«Là dove ci sono le macchine parcheggiate sotto al condomino "La Fiorita", sopra l'auto color tortora» (colore che a lui era sempre sfuggito nella sua vera definizione e che, pertanto, non lo aiutava ad orientarsi).

Sporgendosi un po' a ridosso della moglie sederona, finalmente capì e diresse lo sguardo oltre la siepe sopra un'auto, la prima da sinistra, coperta in un angolo con un telo a righe rosse e nere, molto simile ad una bandiera del Milan, ma più corposo come un plaid o una trapunta.

La vista da settantenne, ormai insufficiente a qualunque tentativo naturale di messa a fuoco, fu immediatamente coadiuvata dalla moglie che gli porse gli occhiali "da lontano" e fu così che, tra una riga rossa e una riga nera, scorse una mano bianca penzolare da un braccio e deglutendo impallidì.

360 CASH (Jader, Jude, Jovan)Onde histórias criam vida. Descubra agora