NELL'ETA' PIU' BELLA I GIORNI PIU' TRISTI

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Comincia la marcia: da Klisura a Prevesa...

Il nostro calvario ebbe così inizio. Guidati da due greci, fummo spinti per una mulattiera verso il fronte nemico pieno di neve e gremito di soldati che andavano a raggiungere le nuove posizioni lasciate dagli italiani. Questi soldati greci ci guardavano con un grande disprezzo facendoci dei gesti osceni. Qualche colpo di mortaio tirato dai nostri cercava, passando sulle nostre teste, il nemico nascosto nelle retrovie. Ricordo con profondo dolore che la perquisizione sulla mia persona mi costò la perdita dell'anello di fidanzamento che tenevo tanto caro per il suo significato simbolico. Mi furono asportati con i denari la penna stilografica, un bicchierino tascabile e il libretto ferroviario con gli scontrini. Quello che provai per la perdita dell'anello non potrò mai descriverlo. Pare che mi si strappasse l'anima di colei che amo ed amerò per sempre. Continuando per lo scosceso sentiero ci riunimmo ad altri nostri compagni fatti prigionieri in altre posizioni. Fra questi ne riconobbi molti della mia compagnia in linea. Con loro giungemmo nelle prime retrovie greche, ove i nemici lasciavano le posizioni per fortificarsi sulle nuove. I soldati ci passavano vicini con grida di scherno ed io ricordo di aver ricevuto un colpo alla testa che quasi mi stordì. Una guardia greca da me pregata fu tanto generosa da restituirmi il portafoglio senza denari, ma con le fotografie dei miei cari. Mi rimase così la consolazione di poter tenere le immagini dei miei cari genitori, di mia sorella e della mia buona Rosina.

Da queste posizioni fummo adibiti al trasporto dei feriti greci su barelle a mano. Continuammo la marcia tra le montagne piene di neve attraverso quell'interminabile sentiero pressoché impraticabile portando un ferito ogni quattro. Fu questo per me uno dei periodi talmente dolorosi nei quali invocai più volte la morte. Il peso della lettiga mi opprimeva talmente tanto che le forze mi mancavano; più di una volta scivolavo involontariamente a terra sulla neve, tanto era instabile il sentiero sul quale due persone affiancate non potevano passare. Sembrava che il cuore mi scoppiasse da un momento all'altro dalla fatica e del male fisico che mi produceva il peso del ferito. Correva in mio soccorso il caro Giulio, che spesso mi dava il cambio e dopo una giornata di simile vita giungemmo la sera, già buio, al Comando di divisione greco più vicino. Lungo le strade percorse vi fu il cambio delle guardie di guida che parvero subito a noi più severe delle altre. Non mi sbagliavo perché queste ogni volta che uno cadeva sotto il peso della barella anziché aiutare l'infelice accorreva e a scudisciate e legnate ed ancora con un intimidatorio colpo di rivoltella in aria rimetteva in marcia la lenta colonna. Fra noi prigionieri ve ne erano molti feriti chi al capo, chi alle braccia o al corpo. Essi non portavano feriti greci e ci seguivano lentamente desiderosi di giungere al più vicino posto d'infermeria per potersi medicare. A metà strada, mentre incontravamo continuamente salmerie che avanzavano fummo attaccati dalla nostra aviazione che con i suoi potenti trimotori bombardava retrovie e salmerie; per poco le bombe non ci raggiunsero. Un particolare personale è che il viaggio fu particolarmente duro per me perché avevo solamente una scarpa avendo perso l'altra tra la neve nel portare la lettiga ed essendo impossibilitato a recuperarla per la durezza dei greci dovetti rimanere senza. Giungemmo così dopo sforzi inauditi, e superando le difficoltà del cammino, al Comando di divisione greco.

Era ormai buio. Come un branco di suini per quella notte fummo messi a riposare e a dormire a terra in un cortile, con la promessa che ci avrebbero passato un pezzo di pagnotta; per ciò che riguarda il freddo ci stringemmo alla meglio uno contro l'altro e dormimmo tutta la notte conservando la fame per il giorno dopo, poiché di pane quella sera non se ne vide nemmeno l'ombra.

I superiori del Comando prima del riposo ci chiesero le generalità, forse per comunicare al nostro Governo la nostra caduta nelle loro mani. La mattina seguente di buon'ora si ripartì di nuovo in numero di prigionieri maggiore del giorno precedente, essendone altri giunti durante la notte. Scortati da soldati e carabinieri greci, riprendemmo il cammino impervio. In numero di circa trecento iniziammo così il secondo giorno del nostro calvario; i nuovi prigionieri arrivati furono adibiti al trasporto dei feriti a braccia ed a spalla, per potere così evitare al mio fisico uno sforzo che poteva essermi fatale. Cominciai a sentire dolori alla gamba sinistra ove fui ferito da una scheggia di mortaio che mi fece zoppicare, affaticandomi la andatura. Sul principio non vi badi e zoppicando continuai la strada solo, contento da un lato di essere libero dal peso di quella barella. Strada facendo il dolore mi si acuì a tal punto che dovetti ricorrere all'aiuto di un amico di caserma che si offerse di farmi da appoggio per tutta la strada nel viaggio di quella giornata. La fame aumentava, ma nulla ci fu dato per quel giorno; solamente per la generosità di un greco che incontrammo sul cammino si saziammo con un fico secco, che dividemmo in due. Dopo aver superato le infinite tortuosità del terreno montano, giungemmo stanchi, laceri ed affamati al piano e precisamente sulla strada carrozzabile Berat-Premeti-Giannina. Sollevai il petto in un sospiro sperando di essere giunto al luogo destinato, ma fu una delusione. Continuammo ancora la penosa marcia, distaccati l'uno dall'altro, sfiniti, come un branco di pecore. Incontrammo molti compagni ed interi reggimenti di Greci che ci deridevano e schernivano; spesso ci frugavano nelle tasche pronti anche a picchiarci se avessimo reagito. Furono oltraggiati anche i nostri feriti che in condizioni pietosissime avevano dovuto effettuare l'intero viaggio con le loro gambe. Laceri, scalzi e affamati, percorremmo ancora quattro ore di strada al buio, perché la sera era già scesa, mentre l'acqua incominciò a cadere a catinelle bagnandoci fino alla ossa. La strada ben presto divenne un pantano e l'acqua la percorreva a fiumi. Finalmente scorgemmo Premeti e potemmo in quel luogo riposare per quella notte dentro una chiesa vuota; nessun pagliericcio a terra, e il terreno era freddissimo. Passò così la seconda giornata senza pane e senza acqua. Il mattino seguente riprendemmo ancora il penoso cammino diretti chissà dove. Ben presto però gli zoppi e gli sfiniti si distanziarono, così la colonna divenne di nuovo un branco. La fame aumentava di giorno in giorno e la sete era terribile. Il tempo era schiarito, ma la strada rimaneva sempre interminabile. Avevamo raggiunto il massimo della fame e fu così che cominciammo a perdere la cognizione del nostro essere umano, Guardavamo con occhi famelici sui campi e ci lanciavamo in molti per sradicare qualche cipolla o qualche cavolo, insensibili alle grida e alle bastonate dei greci di scorta; erba di ogni qualità serviva a saziare in qualche modo la fame che ci invadeva. Bucce di arancie sporchissime e lavate nell'acqua altrettanto sporca dei fossi laterali, erano la nostra delizia. Non potrò mai dimenticare il terribile sapore di quell'acqua piena di fango che noi bevevamo da veri assetati. Dopo dieci ore di marcia senza sosta arrivammo presso l'accantonamento provvisorio di un reggimento greco, dove finalmente potemmo avere pane, acqua ed olive. I nostri panni furono disinfettati e noi pure ci potemmo lavare. Fu uno dei più bei momenti della nostra vita. Attendemmo la sera in attesa, come ci dissero, degli ufficiali greci, delle macchine che dovevano trasportarci a Giannina. Fummo così caricati venti per volta su dei camion ed avviati verso quella località. Passammo tutta la notte in vettura; essa filava a grande velocità regalandoci certi scossono da romperci addirittura le ossa indolenzite. A Giannina giungemmo che erano circa le tre del mattino; era ancora buio. Fummo intanati in una caserma onde dormire qualche ora. Così sul nudo terreno potemmo dormire mentre continuavamo a giungere vetture piene di prigionieri; il numero si elevò a cinquecento circa. Il mattino stesso caricati di nuovo su altre macchine in numero di venticinque per ogni camion iniziammo il viaggio per Prevesa, percorrendo una bella strada asfaltata attraversando valichi montani. Dopo tredici ore di camion smontammo in una caserma di Prevesa; cittadella posta in riva al mare e con porto assai importante. Gli altri nostri compagni si trovavano da qualche giorno in quel luogo e vedemmo che alcuno erano adibiti a lavori portuali. Rimasi cinque giorni a Prevesa con la compagnia cara dell'amico Franco e di altri bolognesi conosciuti durante il viaggio. Qui fummo trattati abbastanza bene; ci diedero sei etti di pane con formaggio ed olive, e potemmo dormire in baracconi e riposarci a nostro agio. La cittadina di Prevesa era giornalmente bombardata dagli aerei italiani, le cui bombe facevano tremare le nostre baracche poco distanti dal porto stesso. La grazia di Dio ci salvò sempre poiché, le bombe piovvero intorno a noi lasciando intatte le nostre vite. Passammo così cinque giorni al termine dei quali fummo imbarcati in una nave da carico diretta ad Atene.

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