14. Orchidee

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Liam

Un leggero bussare mi distolse dal mio furioso battere sui tasti del computer, impegnato com'ero a rispondere ad un idiota, che aveva il coraggio di fregiarsi del titolo di avvocato quando in verità riusciva a malapena a ricordarsi quando la sua presenza di fronte alla corte fosse richiesta, avevo completamente perso di vista l'ora.

Il viso gentile di Diane fece capolino dalla soglia e mi lanciò un'occhiata carica di scuse, «So che aveva chiesto di non essere disturbato, ma c'è qui una signorina che vorrebbe ess-», tentò di spiegare tranquilla.

Sbuffai in preda all'esasperazione. Perché oggi niente andava nel verso desiderato? E perché proprio oggi anche la cara Diane doveva decidere di mostrarsi inefficiente e poco attenta alle mie chiare richieste?

«No, non riceverò nessuno oggi. Scusati con lei e fissa un appuntamento per la prossima settimana», la bloccai subito.

La segretaria mi guardò attentamente, gli occhi pieni di domande che però non avrebbe mai osato tradurre in parole. «Liam, la settimana prossima sarà a San Francisco...», mi ricordò, cercando di non apparire sorpresa di fronte alla mia dimenticanza.

Maledizione! Perché ero stato così stupido da accettare quell'incarico in California? Tutta quell'afa, quell'allegria da West Coast non facevano proprio per me. Soprattutto se ci dovevo andare da solo e per questioni di lavoro.

«Trova il modo di incastrarla in qualche modo in agenda, cristo santo!», sbottai perdendo la pazienza. Per quel che mi riguardava poteva esserci anche Angela Merkel seduta sul divanetto in pelle chiara della sala d'attesa e ciò non avrebbe cambiato la mia decisione di non riceverla oggi stesso.

Diane si ritirò senza replicare, ma potevo capire dalla piega assunta dalle sue labbra e dalla malagrazia con cui si chiuse la porta alle spalle, così lontana dalle sue solite maniere garbate, che era scontenta.

Ci mancava solo che Diane mi tenesse il broncio. Questo andava a sommarsi alla notte passata in bianco, all'importante cliente texano che aveva rinunciato ad essere rappresentato dal mio studio legale e alla telefonata di Tiffany. In verità sapevo benissimo qual era la vera causa del mio malumore. Era così chiaro ed evidente che mi infastidiva ammetterlo.

Lei non aveva chiamato.

Erano passati quasi due giorni da quella meravigliosa notte passata insieme e di Felicity non avevo più avuto notizie. Probabilmente eravamo finiti nel classico trabocchetto che porta ognuna delle due parti ad aspettarsi che sia sempre l'altro a fare il primo passo e così ci trovavamo in una fase di stallo. Sapevo benissimo che le cose stavano così ma, testardamente e anche molto infantilmente, era da trentasei ore che fissavo lo schermo del telefono in attesa.

Slacciai maldestramente il nodo della cravatta e con gesti stizziti la feci scivolare via dal collo, sperando di poter trovare almeno un po' di sollievo nel liberarmi da quella costrizione che non mi faceva respirare. La sensazione di avere un macigno intento a premere sul mio petto però non si alleviò.

Due rapidi colpi sul legno della porta mi obbligarono a darmi un contegno e a tornare a rivolgermi alla schermata illuminata del pc.

«Che c'è ancora?»

«La signorina non vuole nessun appuntamento e afferma che aspetterà qui fuori», lo informò concisamente Diane, gli occhi glaciali fissi sulla cravatta gettata sulla poltrona.

Scossi la testa, «Che aspetti allora!»

Passai le successive tre ore a correggere le bozze dei fascicoli dei clienti di cui mi sarei dovuto occupare in settimana. Quello era un lavoro che solitamente era riservato all'ultima ruota del carro, probabilmente un povero tirocinante, nelle sue pause tra il fare fotocopie e il portare il caffè a tutti quelli che occupavano posizioni gerarchicamente superiori alla sua. Ovvero tutti.

Se son rose fioriranno altrimenti...in bocca al lupo!Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora