Capitolo 2

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Capitolo II: Incontri


L’unica persona con cui davvero preferivo non aver a che fare, era Johnny Brown. Era anche più odioso di mia sorella Mary, e ce ne voleva…
Era il figlio del Serg. Magg Alan Brown, capo delle forze armate. Mio padre e suo padre erano molto amici dato che, il Sergente, una volta, durante la guerra gli salvò la vita; di sicuro era una delle storie che preferiva di più, tra quelle che ci raccontava la sera davanti al focolare, e noi ormai, la sapevamo a memoria; già, perché ogni scusa era buona per tirar fuori l’argomento, come un ospite, una rimpatriata fra vecchi veterani, insomma, mio padre non si stancava mai di raccontare come il suo compagno di trincea rischiò la sua vita per tirarlo fuori dal filo spinato, in cui era finito per scansare una granata. – I proiettili fischiavano sulle nostre teste e pregavamo Dio, sperando di non essere colpiti entrambi… - diceva sempre all’inizio del suo racconto, ormai era diventato come un copione da seguire, ma i racconti di mio padre, anche se ascoltati e riascoltati per anni, non mi stancavano mai, piuttosto pensavo di essere fortunata, almeno ero lì, sulle sue gambe, ad ascoltare la sua voce; ad ogni modo il Sergente Brown, all’epoca soldato semplice, tagliò via il filo con delle tenaglie che aveva con sé, purtroppo il filo era così aggrovigliato alla vita e alle gambe di mio padre che fu un’impresa ardua e rischiosa. Finalmente riuscì a liberarlo, ma mio padre non riusciva a camminare  dato che uno spuntone gli aveva lacerato un nervo del polpaccio, così il suo compagno dovette trascinarlo in trincea e rimanere con lui, tra gli spari e i cadaveri che ammontavano a varie decine, fra di loro e i nemici. Da quel giorno mio padre non riacquistò più il corretto uso della gamba che lo portava, spesso e volentieri, a zoppicare e a non poter correre. Che paradosso: ero grata a quell’uomo per aver affrontato il rischio di morire per salvare mio padre, ma allo stesso tempo, mi chiedevo come aveva potuto fare un figlio così odioso e subdolo, che tra l’altro, nutriva anche una certa simpatia nei miei confronti!
A quei tempi aveva 19 anni e aveva preso parte alla guerra solo negli ultimi due anni, ed essendo il figlio di un ufficiale superiore, era entrato nell’esercito come Caporal maggiore senza avere alcun espediente né capacità di comando, sapeva solo fare il pallone gonfiato attirando a sé tutte le oche giulive della città, raccontando delle sue fantomatiche imprese eroiche, magari compiute da un suo compagno per salvargli il culo, altrimenti non si spiegava come fosse riuscito ad uscirne indenne. Peccato.
Capelli neri e occhi azzurri, era questo che affascinava tanto le mie amiche, che ammonivo ogni volta che la loro attenzione ricadeva su di lui. Come potevano essere così cieche, mi domandavo…
- Ciao, Cindy…
Eccolo, il marpione…
- Ciao, Jonny. Cosa vuoi? - risposi freddamente a quel sorriso accattivante, forse avrebbe funzionato con Angela o Sarah, ma con me no! Ero troppo furba per lui.
- Ehi, hai mangiato limoni acerbi per colazione? Tranquilla, per una volta, non stare sulle difensive… non mordo mica?
Che idiota, perché continuava a ronzarmi intorno? Aveva decine di ragazzine che gli fluttuavano fra i piedi, erano così disperate che si riducevano ad abbassarsi per raccogliere una monetina che Johnny lasciava cadere di proposito, giusto per sbirciare un po’ di curve.
Alzai gli occhi al cielo sbuffando, sapevo già cosa voleva propormi per l’ennesima volta.
- Mi domandavo se questo sabato saresti stata libera per venire al cinema con me, questa settimana proiettano di nuovo “Il sospetto” di Hitchcock.
- Cosa ti fa pensare che io apprezzi i film di Hitchcock? - ribbattei a braccia conserte guardandolo dalla testa ai piedi, era di sicuro troppo vicino e questo mi infastidiva ancora di più; in realtà mi piacevano i suoi film, ma non sarei mai andata con lui a vederne uno. "Diamine, mamma! Ma quanto ci vuole per compare del latte e delle uova!" Pensai.
- Non lo so, ma dicono sia un bel film, romantico…
già romantico, come se io non sapessi dove voleva andare a parare il volpone. Ero sempre e vistosamente più seccata, era così fastidioso ricevere attenzioni da chi neanche speravi di incrociare per strada. Rimasi sulle mie e cercai di fargli capire che non era aria, ormai mi ero rassegnata, non mollava mai e quindi mi congedai dal suo cospetto non appena mia madre arrivò con due buste piene zeppe di roba.
- Sabato sono impegnata. Adesso devo andare… - mentii.
- Allora ci si vede in giro!- mi urlò mentre mi allontanavo con mia madre e una busta ricolma di frutta in braccio. Certo Johnny, ci si vede… mi voltai senza dire nulla, abbozzando un sorriso visibilmente forzato. Posai frettolosamente la busta in auto ed entrai nella nostra Lea Francis sbattendo la portiera così forte che mia madre mi guardò esterrefatta, le risposi telepaticamente con un sorrido fasullo, poi presi una mela rossa e la sgranocchiai in santa pace, abbassai il finestrino e mi sporsi permettendo al vento di pettinarmi i lunghi capelli chiari abbandonando lo sguardo verso  la strada e gli alberi che la costeggiavano.
Allora abitavamo in una casa subito fuori città, vicino l’Eaton Canyon Park, quindi nel nostro giardino spesso sconfinavano procioni e volpi. La casa in stile vittoriano era a tre piani, era di un color malva chiaro con finestre dai bordi bianchi, ma la finestra che più preferivo era quella in soffitta, da lì riuscivo a vedere l’intero bosco e sognavo di esplorarlo insieme a Napoleone e a Sam, nella visione di un mondo parallelo dove mia madre non rompeva, mai. Davanti l’ingresso principale vi era una veranda dipinta di bianco con il classico dondolo e un tavolino in paglia su cui era poggiato un posacenere, l’unico della casa, così mia madre costringeva mio padre a star fuori quando si concedeva qualche sigaretta, per non appestare la casa; effettivamente credo fosse una delle poche regole di mia madre che appoggiavo. Odio il fumo, l’odore del tabacco mi ha sempre fatto venire i giramenti di testa. La porta di casa era anch’essa bianca sul cui stipite vi era scritta una frase che recitava: “In questa casa tu sei il benvenuto”, in realtà non era stata un’idea nostra mettere lì quella scritta, ci saremmo accontentati anche del classico zerbino, ma volevamo comunque conservare una parte di quella casa che comprammo dieci anni prima insieme alla proprietà circostante, e poi faceva la sua figura. A proposito della proprietà, non so bene mio padre da chi acquistò quella casa, ma di sicuro doveva essere stata l’abitazione di qualche ricco uomo di Pasadena, forse un uomo d’affari, un politico o un imprenditore, ma non mi ero mai soffermata tanto, non mi aveva mai interessato; il giardino sul retro era così grande che il confine fra il prato e il sottobosco era praticamente inesistente, anche se sapevamo bene che non dovevamo spingerci più in là  di dov’era la quercia, dal cui ramo più basso pendeva un’altalena. La casa aveva anche una stalla, riposta quasi al confine della proprietà, ed era lì che mio padre teneva la legna da ardere e i suoi attrezzi, ed era lì che stava il vecchio Napoleone. Può sembrare strano avere un cavallo in giardino, certo, se non si hanno campi da arare, carrozze da trainare, il che in questo secolo è altamente improbabile, o se si ha già un mezzo di trasporto, non vivente, dovrebbe sembrare davvero assurdo agli occhi degli estranei…
Circa sei anni prima, alla fiera della contea, notai un puledro in un piccolo recinto, dal mantello palomino, magro e sporco, aveva zampe lunghe e snelle e si agitava calciando a destra e a manca… io ero intenerita da quella visione, mi dispiaceva vederlo lì, fra la gente chiassosa, le luci, senza la madre, spaurito… al che un uomo mi si avvicinò poggiandosi di peso a quel precario steccato, io continuai a guardare incantata quella piccola creatura indifesa, così l’uomo vedendomi così incuriosita mi rivolse la parola; aveva un tono di voce tranquillo e l’aria di un vecchio saggio indiano.
- L’ho trovato che gironzolava da solo, di notte, vicino la prateria, forse avrà smarrito la mandria…
- È un cavallo selvatico?- chiesi timidamente rivolgendo lo sguardo a quell’uomo che sembrava una montagna in confronto alla mia piccola stazza da bambina che si era allontanata dalla mano del suo papà. Quell’uomo non rispose ma mi sorrise, poi voltò lo sguardo verso il puledro e dopo un attimo di silenzio riprese il suo discorso.
- Sai cosa sono i Mustang? - mi chiese, ma ovviamente era stata una domanda retorica, così  scossi il capo per dargli il via libera.
- I messicani li chiamano “mustango”, significa non domato. Credo che si addica molto a questo piccoletto. Sono cavalli estremamente coraggiosi e forti, sono nati liberi e conservano in loro questa libertà ereditata dai loro antenati. Sanno essere compagni davvero fedeli sai? -  disse l’uomo rivolgendomi ancora lo sguardo, poi aprì il recinto lasciandomi entrare, il cavallo era nervoso così mi avvicinai con cautela nonostante fossi eccitatissima, forse era la prima volta che sentiva il calore di una mano umano sul muso; in un lampo si calmò e parve a suo agio, così mi azzardai ad accarezzargli il collo passando le mani fra la sua criniera spelacchiata color oro, fu amore a prima vista.
- Se vuoi puoi prenderlo… - disse l’uomo, guardando quella scena così dolce.
- I miei non me lo lasceranno mai tenere, e poi non ho soldi per comprarlo… - risposi delusa.
- Se proprio ci tieni posso regalartelo. Ha bisogno di affetto e sembra che voi due andiate d’accordo… se vuoi davvero qualcosa fai di tutto per ottenerla.
Quelle parole mi convinsero e ancora oggi riecheggiano nella mia testa ogni volta che intendo pormi degli obbiettivi; inutile dirvi, quando tornai dai miei, che faccia sconvolta avevano vedendomi condurre quello spavaldo puledrino. Alla fine mi accontentarono a patto che mi sarei dovuta occupare io di lui da quel momento in poi, e io mantenni la promessa. Mia madre diceva che passavo più tempo con lui che con quelli della mia specie. Il motivo non mi sembrava poi così scontato.
 
Scesi dalla macchina e aiutai mia madre a riporre la spesa sulle mensole, nella credenza e nel frigo. Cavoli, mamma! La guerra è finita…
Finii la mia mela e gettai il torsolo nel cestino, ero impaziente di correre da mia sorella per raccontarle di Johnny , così corsi di sopra e mi fiondai sul letto ma di Alex non c’era traccia. Corsi in camera di Tommy per vedere se era lì ma mia sorella Mary disse che era andato con degli amici a guardare una partita di football amichevole. Ovviamente non mi andava di chiedere a Mary dove fosse finita Alex così scesi al piano di sotto dove incrociai Ivette intenta a spolverare la vecchia credenza.
- Ivette, sai dove si è cacciata mia sorella Alex?
- Miss, in verità la signorina Alexandra è uscita poco fa, con un uomo. - rispose la donna sperando di aver soddisfatto la mia domanda.
- Ivette… quante volte ti ho detto che puoi chiamarmi Cindy, non sono mica come Mary… per me lo sai, sei parte di questa famiglia, non trattarmi da estranea… - la guardai sorridente, si può dire che quella donna mi aveva cresciuta, le volevo bene e non capivo proprio il motivo per cui la maggior parte della gente in città guardava di sottecchi, quasi con disgusto, lei e le altre persone di colore. Come se la pelle dicesse chi sei.
Ivette era con noi praticamente da una vita, almeno da quando ne ho memoria. Aveva anche lei una famiglia, ma ahimè, perse il marito anni fa, morto nella fabbrica di montaggio auto dove lavorava per portare il pane a tavola, e si sapeva, l’assicurazione non rendeva quasi nulla per un operaio di colore. Così la povera donna dovette rimboccarsi le maniche ancora di più per poter sfamare i suoi tre figli. Che storia triste. Io la trattavo come una madre e lei trattava me come una figlia. Qualche volta, quando Mary era così vipera da rimproverarla ingiustamente, se non puliva bene o perché era semplicemente di cattivo umore, fino a farla piangere, io correvo da lei e l’abbracciavo. Spesso le dicevo anche che avrebbe dovuto avere la faccia tosta di mandarla dritto a farsi friggere, e poi per farla sorridere dicevo che uno di questi giorni sarebbe finita, per puro caso, con la faccia dritta nella pupù di Napoleone.
- Come con un uomo?! - sputai. Avevo già capito con chi, ma chiesi comunque, per sicurezza. Ivette però non fece altro che confermare il mio timore.
E così il capitano mi aveva appena dichiarato guerra, ma questo, ancora non lo sapeva.

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