Capitolo 2

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Non mi lasciavano mai uscire da sola. Il sesto giorno poi, la famiglia di Jesse aveva allestito una specie di ritrovo familiare. Nessuno lo chiamava funerale, ma il nero degli abiti e dei cuori non aveva bisogno di un nome.

Ero con mia madre, come sempre da quando avevano finito di torchiarmi in caserma. Certo ci sarebbe stato tutto un iter burocratico e legislativo di cui non sapevo nulla, e di cui non mi importava nulla. Potevano pure mettermi in carcere e buttare via la chiave per quanto mi riguardava. Sempre se fossi arrivata viva a quel momento.

C'era mia madre dicevo, che mi accompagnava ogni mattina dalla psicologa. Ci fermammo in farmacia per fare scorta delle mie bombe addormenta cervello, ma le chiesi di lasciarmi in macchina. Sembrerà strano, ma il mio volto era piuttosto conosciuto da quelle parti, dopo che ogni telegiornale locale aveva fatto di quella notizia l'apertura di ogni notiziario per un paio di giorni. Poi come sempre, tutto era tornato nell'oblio. Tranne che non c'era persona che non sentisse il bisogno di avvicinarsi e dirmi qualche stronzata che nella loro testa avrebbe dovuto farmi sentire meglio.

Per cui quando quel tizio busso al finestrino e mi urlò qualcosa, quasi non ci feci caso e mi voltai dall'altra parte. Certo, era strano che arrivasse a bussare sul vetro, ma la gente è strana, si sa.

Però lui lo fece ancora e ancora più forte. E non mi disse niente di confortante, né di pacato. Urlò semplicemente «ma tu che diavolo pensi di fare?».

Solo allora mi voltai incredula per fissarlo meglio. Un signore, sui cinquant'anni forse, una leggera barba grigia incolta e i capelli brizzolati. E due cazzo di occhi scuri che mi guardavano pieni di quello che sembrava odio. O stupore. Ma con una punta di incazzo.

«Cosa?» feci io, appena cascata dalla nuvola più alta del mondo.

«Sei impazzita? Ho detto che diavolo credi di fare? Dove l'hai portato?»

Cristo. Mi sta veramente chiedendo dov'è Jesse? Forse un suo parente? Per fortuna in quel momento arrivò mia madre che lasciò cadere la borsa delle medicine per strattonare quel tizio via dal mio sportello, ben chiuso comunque.

Mia madre era una furia e le sue urla stavano attirando un capannello di gente che si era fermata intorno a questo signore. Che dal canto suo non fece una piega, si prese le urla e i pugni di mia madre sul braccio senza spostare di una virgola la testa e lo sguardo dal mio vetro. Ora però mi fissava con un'espressione più attonita. Stava valutando qualcosa. Me.

Poi, così come era venuto e ben poco preoccupato dalla gente intorno, se ne andò senza mai togliermi gli occhi di dosso.

«Tutto bene Jinny? Chi era quel tizio? Ti ha fatto del male?» e tutta un'altra serie di domande di mia madre che ebbero come mia unica risposta uno sbuffo dalle labbra e uno scrollare di spalle.

Era stato in ogni caso il momento più emozionante da quando...da quando persi Jesse. Uno dei pochi che mi aveva fatto sentire qualcosa da quella notte. Grazie tizio misterioso quindi. Ma sotto con l'analisi della psicologa che continuava a dirmi quanto io non fossi colpevole.

Tipo non pensare all'elefante rosa.

Tutti continuavano a ripetermi la stessa cosa. E io non riuscivo a fare a meno di pensare che fosse esattamente così. Forse lo credevano tutti.

Tre ore di terapia. Tre ore di sonno, che poi era uno svenimento dopo le pasticche. Un pasto leggero che mia madre preparava da farmi mangiare davanti al divano guardando un film, rigorosamente selezionato in modo che non ci fossero storie d'amore particolari, morti, scossoni emozionali di nessun tipo.

Dei film di merda insomma.

Poi di nuovo a tavola dove anche mio padre aggiungeva la dose di 'non è colpa tua' e infine, quasi finalmente, le tre pillole serali che mi proiettavano nel mondo di morfeo. Che era più il mondo di Hoffmann visto la quantità massiccia di chimica che mi ottenebrava il cervello.

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