Lo zio Marco

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Il porticello della città esala vapori che sanno di uova marce. È lo zolfo, dicono gli altri abitanti del posto. Dovrei esserci abituato, ma faccio ogni giorno la stessa strada e questa puzza mi dà ogni volta una nausea più forte.
Sarà che sto invecchiando.
Questa mattina, poi, c'è anche l'odore della pioggia che ha appena smesso di cadere. Un temporale come ne capitano tanti, in questo periodo. Però per qualche motivo mi tengono sveglio a rigirarmi nel letto, ad aspettare il primo mattino. Ho qualcosa in testa che è come un terremoto: mi scuote tutto dalle fondamenta. Adesso il mare è una tavola. Nuvoloni grigi coprono ancora il sole, ma la brezza mattutina li spazzerà via. Succede sempre così.
Il bar El Globo è incastrato in un vicolo sulla strada opposta al lungomare. È un posto commerciale, o almeno così pensava Jack quando ha comprato il locale. Però è sempre vuoto, soprattutto ora che è inverno e che nessuno ha poi tanta voglia di uscire. Prima di raggiungerlo, però, passo dal giornalaio. Gazzetta dello Sport, La Repubblica e il quotidiano locale. Prendo ogni giorno lo stesso.
Qualche minuto di cammino e sono di fronte al locale. Chiuso, dice l'insegna apposta sulla porta. Io busso con le nocche sul vetro.
Passa qualche secondo e Jack viene ad aprire. Poi si volta senza salutarmi e torna alla sua panca, reggendosi il fianco con una mano.
La stanza puzza del suo sudore. Acre, pungente, con un fondo di vecchio. È quasi peggio delle uova marce.
«Devi affittare una casa, Jack. Sei vecchio, non puoi dormire su quella panca del cazzo tutti i giorni» dico, e indico la panca di legno su cui è seduto, impregnato di sudore. Ha le guance paonazze e i capelli zuppi. Non capisco come faccia a essere così accaldato: qui dentro si gela.
Lui mi ignora. «Caffè?».
«Sì» dico. «Però sono serio. Hai bisogno di un letto, così ti rovini. Che ne dici di dormire da me, per un po'?»
«Non mi rompere i coglioni, Ale'» dice lui, riempendo la moka di polvere. «Il bar non lo lascio. Già non si lavora, metti che vengono i ladri?»
Ma chi cazzo deve venire a rubare in 'sta baracca?
Non glielo dico, però. È l'unica cosa a cui tiene veramente.
Subito l'aroma del caffè satura la stanza. Sembra quasi riscaldarla. In ogni caso, sostituisce la puzza di sudore, quindi è un bene.
Porto la tazzina all'unico tavolo che c'è nel locale. È sporco di qualcosa, forse salatini. C'è anche un insetto, uno di quelli che si fanno a palla quando avvertono il pericolo. Lo allontano con un soffio. Sorseggio e penso a quale giornale leggere per primo.
Jack intanto è accasciato sul bancone con le mani sul viso. Si stropiccia gli occhi e fa smorfie strane, che gli creano rughe profonde attorno alla bocca. Sul suo mento a punta sopravvive la peluria di qualche giorno, mentre il resto del viso è liscio e pulito.
Sorrido. È sempre stata la sua cosa più buffa: da giovane si dannava perché non gli cresceva la barba, a parte quei peli ispidi e neri sul mento. Adesso è uguale, solo che i peli sono bianchi e più duri.
«Jack, quale leggiamo per prima?» gli urlo. L'eco rimbalza sui muri. Jack, Jack, Jack. Mi fa strano: quello non è il suo vero nome. Si chiama Giovanni, naturalmente, anche se non ricordo perché l'abbiamo inglesizzato.
«Quali hai?» risponde lui, rimanendo nella stessa posizione di prima.
«I soliti».
«Ah. Quello del posto allora».
Devo arricciare gli occhi per distinguere le lettere: è tutto buio. L'unica lampada rilascia una luce troppo fioca, il sole ancora non s'intravede e anche i miei occhi stanno invecchiando. Leggo ad alta voce. Lo faccio ogni mattina, perché così almeno passiamo il tempo e non c'è quel silenzio imbarazzante che ci separa. Con il tempo, non so perché, i nostri rapporti si sono raffreddati. Parliamo poco e quasi solo per litigare o per ricordare i tempi passati.
Nel frattempo, lui si prepara quell'intruglio di acqua e medicine che prende ogni mattina.
Di solito qui non succede mai niente. È un bene, ma ogni tanto ci si annoia. «"Cent'anni fa il mistero del battello Ferrandi". Sentito, Jack?»
Lui mugola, ancora intento a ingollare quella bevanda. Poi dice: «Mi sta sul cazzo quella storia».
È un vecchia leggenda che circola in città da prima che nascessimo. Nessuno può affermare con sicurezza che la vicenda sia reale né ricorda di conoscere i coniugi Ferrandi. Però è l'unica storia interessante che gira in questo posto e si tramanda di padre in figlio da qualche generazione, ogni volta con una versione più personalizzata dei fatti. Io non la ricordo benissimo, a dire il vero.
Qualcosa che cigola.
Sono i cardini della porta.
All'inizio penso che sia stato il vento. Poi, però, nel bar entra una figura piccola e secca. Indossa abiti pesanti che sembrano zuppi.
«Mi dai una gassosa?» chiede, ancora prima di raggiungere il bancone. È un bambino.
Anche Jack pare sorpreso. O almeno così mi pare di capire dallo sguardo che mi lancia.
Intanto il piccolo con un balzo sale sulla sedia al bancone, che è più alta di lui. Poi la sua bocca si corruga e il suo naso si raggrinzisce quando osserva la sporcizia sul tavolo. Jack è lì imbambolato che lo osserva.
«Mi dai una gassosa?» ripete il bambino. A osservarlo meglio, mi rendo conto che è zuppo. Sulle mani e sul piccolo squarcio di collo visibile la pelle è avvizzita. I capelli neri sono attaccati alla fronte e le scarpe sono sporche di una poltiglia fangosa. Sembra appena sfuggito a un temporale, ma fuori non piove.
«Sì... sì, subito» balbetta Jack. S'inginocchia, afferra una bottiglia di vetro e la riversa in un bicchiere. «Ecco».
«Grazie!»
Il bambino inizia a succhiare grossi sorsi dalla cannuccia e accompagna ogni sorsata con un sospiro. Una fitta lancinante mi trafigge il cervello e mi viene quasi da urlare.
«Che ci fai qui a quest'ora?» chiede Jack. Sulla sua fronte nascono rughe che conosco bene: è dubbioso.
«Mi andava una gassos» dice il bambino, alzando le spalle.
«E i tuoi genitori?»
Il ragazzo tace, continuando a sorseggiare dalla cannuccia. Delle gocce d'acqua gli colano lungo tutto il corpo. Ne osservo una che, dalla nuca, s'infila nella camicia e gli percorre la schiena. Il suo corpo si piega all'indietro e trema per un attimo.
«Sono andati in vacanza qualche giorno fa. O forse era qualche settimana fa. Dicono che tornano presto». Guarda fisso Jack negli occhi.
«E tu con chi stai?»
«Con mio zio Marco. È venuto da un paese vicino per stare con me per qualche giorno». Il suo corpo resta immobile, il suo sguardo ancorato in quello di Jack.
Passa qualche secondo. Jack piega il viso su un lato, il bambino fa lo stesso e sorride. Un'altra stilettata mi trapassa la testa.
«Come ti chiami?» gli chiedo io.
«Andrea». Non si volta: sembra divertirsi nel guardare gli occhi del mio amico. Poi dà un ultimo sorso alla gassosa e si accorge che è finita. «Me ne dai un'altra, per favore?»
«Prima paghi, però».
Andrea si porta una mano al mento. Poi però il suo viso s'illumina e lui inizia a frugarsi nelle tasche. «Ecco!» esclama, cacciando una moneta e agitandola in aria. La superficie argentea sembra coperta da una patina verdastra e traslucida.
Jack l'afferra, aguzza la vista, se la rigira tra le mani. «Che razza di moneta è?»
«Non lo so, ho solo questa io...»
«Ale', vedi qua!» dice Jack e mi lancia la moneta. Io la prendo al volo.
È viscida. Da vicino, quella patina verde sembra non esserci. E capisco cosa intendeva Jack: non è né in euro né in lire. Forse è di qualche paese straniero. La tengo in mano e inizio a giochicchiarci, mentre ascolto il proseguo del dialogo.
«Non hai altri soldi, vero?» chiede Jack.
«Ora no... però dopo può passare zio Marco a pagare». Il labbro di Andrea trema.
«Non se ne parla».
«Dai, Jack, dagliela. Gliela pago io» dico io.
Jack mi guarda e sembra confuso. È più paonazzo di prima e i suoi peli sul mento stillano sudore. «Va bene, tieni...» dice, riempendo lo stesso bicchiere di prima.
Il bambino si attacca di nuovo alla cannuccia. Una lama di luce s'intrufola nel bar e gli illumina un lato del viso.
Mi prende un colpo al cuore. Una schiuma rosacea gli bolle sulla bocca. Aguzzo la vista, ma quella sembra rimanere. Ma forse è solo un gioco della luce che investe la pelle bagnata del ragazzo. Oppure sono io che sto iniziando a non vedere più come una volta, soprattutto dopo una notte insonne.
«Zio Marco mi porta ogni sera al faro e mi fa conoscere i suoi amici».
Io guardo Jack, con un dubbio che mi martella in testa: qui vicino il faro non funziona più. Anzi, non ha mai funzionato, da quel che ricordo io. Però il mio amico non ricambia lo sguardo e scruta Andrea.
«C'è Paul che è grande e grosso» continua il bambino. «Ha le braccia che sono tentacoli e mi alza ogni volta per la caviglia e mi fa volare. Ha il viso tutto pieno di...» S'interrompe, abbassa lo sguardo e agita le mani, afferrando qualcosa nell'aria. «Tipo di brufoli, o di tagli. Non lo so».
Che diavolo vuol dire?
«Poi c'è Max. Lui invece è piccolo, ha le mani arancioni e sottili, ma se stringe fanno male. Ha anche gli occhi piccoli piccoli». Chiude le dita in un cerchio minuscolo e dice: «Così».
«Conosco anche Ariel. Lei è rotonda e trasparente. Però ha il contorno nero e ruvido». Mentre parla, la sua guancia si contrae. Sale verso l'occhio e tutto il corpo del bambino si scuote. Poi si rilassa.
Jack guarda ancora il bambino, reggendosi la testa con le mani. «Perché hanno questi nomi strani?»
Io ridacchio, ma lui non distoglie lo sguardo dal bambino e piano piano si avvicina al suo naso. Ha la bocca serrata e il respiro affannato.
«Perché...» Ticchetta le dita sul bancone, poi le pulisce sui pantaloni. «Non lo so, perché. Lo zio mi ha detto di chiamarli così. Tranne Ariel, quello me l'ha detto lei».
«E dov'è ora, lo zio Marco?» chiede Jack.
«A casa. Ora si sta riposando: è stato agitato tutto la notte».
Mi accorgo che sto iniziando anch'io a sudare. Eppure sento ancora il freddo che mi morde le ossa. Mi asciugo qualche goccia con la manica della giacca.
«E dove abita lo zio Marco?»
«Lì, al faro! Però non passa tutto il tempo lì. Solo la notte, di solito. Poi va sott'acqua». Passa qualche secondo, poi Andrea contrae ancora il muscolo della guancia e si dà una botta sulla testa. «No, no, mi sono confuso. Non va sott'acqua. Lo zio Marco... lo zio Marco non sa nuotare». Per la prima volta distoglie lo sguardo da Jack.
Mi pare di vivere in un sogno. Diavolo, vedo i contorni sbiaditi, e mi sembra tutto così folle. Perché quelle sono chiaramente le fantasie di un bambino, ma c'è qualcosa che non mi torna.
È tutto bagnato.
La cosa più strana è che Jack pare credergli. Non l'ho mai visto così pensieroso di recente.
Andrea è tutto bagnato e ha piovuto tutta la notte.
«E dove vivono questi tuoi amici?» chiede Jack.
«Anche loro... no, non lo so. Li vedo sulla spiaggia e poi al faro, ma non so dove abitano».
È tutto bagnato e ha piovuto tutta la notte. Ha le scarpe sporche. Prima pensavo fosse fango, ma forse è la sabbia che gli si è attaccata alle scarpe durante la tempesta.
Però perché dovrebbe vivere al faro? Davvero i suoi genitori sono in vacanza o è tutto uno scherzo? Lo guardo fisso, mi sforzo, ma tutto finisce a quell'unica constatazione. L'emicrania mi sta mangiando. Ma ha davvero parlato dei suoi amici, poi? Credo di averlo sognato.
Un'inquietudine strana, fredda come quella stanza, mi entra nel petto e me lo svuota. Per un attimo mi sento nudo.
Il bambino dice: «È meglio se vado. Zio Marco si arrabbia, è già tanto che sono fuori». Poi salta giù dalla sedia e corre fuori.
Quando la porta sbatte, sospinta dal vento, sento Jack che caccia un urlo. «Cazzo, sto diventando pazzo...» La sua voce è bassa, colma di rimpianto.
«Che c'è?» gli chiedo.
«Di cos'ha parlato, quel bambino? Perché, se ha parlato di amici di suo zio con dei nomi del cazzo, ho appena dato retta alle sue stronzate». Mentre parla si mette una mano in testa e si gratta i capelli grigi.
Io rido, cercando di sollevarlo, ma lui non reagisce. «Dai, lascia stare. È solo fantasioso». Non ci credo del tutto.
Passa qualche minuto. La mia inquietudine si dissolve e rimane solo il mal di testa. Dev'essere stata la confusione della notte insonne, e poi il bambino raccontava con una voce davvero seria. Non c'è da preoccuparsi. Però mi piacerebbe sapere di più sulla vicenda.
Anche Jack sembra tranquillizzarsi. Si prepara anche lui un caffè: non lo fa quasi mai.
Io continuo a leggere il giornale per conto mio.
Cent'anni fa il mistero del battello Ferrandi.
Il mio sguardo scorre velocemente sulle parole. Man mano i ricordi affiorano e una fastidiosa sensazione di familiarità mi confonde.
E a un certo punto lo sguardo si fa infestato di mille puntini bianchi. No, devo aver letto male.
Sbatto gli occhi e riprendo la lettura.
I corpi del piccolo Andrea Ferrandi, figlio dei due coniugi, e del fratello del signor Ferrandi, Marco Ferrandi, proprietario del faro poi lasciato abbandonato in seguito alla vicenda, non furono mai ritrovati.
Stringo forte i pugni e la moneta che ho nella mano mi incide la pelle. Ecco, la moneta! Devo controllare una cosa. La metto sul tavolo e la esamino.
Una morsa mi stritola il cuore. Per un attimo il mio sguardo si fa di nuovo confuso e sono costretto a ricontrollare: ho letto bene. La nausea mi stritola tutto e mi sento cadere nel gioco vuoto.
Al centro della moneta c'è un semibusto maschile. Tutt'attorno, una scritta circolare: Vittorio Emanvele III Re D'Italia - 1917.

Danzando nel vuoto Where stories live. Discover now