Uno. Camilla

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«Attention, s’il vous plaît.»
Un annuncio proveniente dall'altoparlante sopra la mia testa, mi fece voltare in cerca di qualcosa. Improvvisamente mi ricordai dove mi trovavo, e di non essere certa del messaggio a malapena udibile diretto ai viaggiatori.
La locomotiva frenò, prima piano, poi in maniera più violenta. Mi ressi con tutta la forza che avevo nel braccio al palo centrale, quello vicino all'uscita e attesi che il metrò riprendesse il cammino.
Non parlava nessuno. In una locomotiva lunga sei carrozze, e piena zeppa di gente, nessuno esprimeva il proprio malessere per il ritardo che avremmo accumulato. C’era chi tentava di rubare altri minuti di sonno alla giornata faticosa, altri già attivi al cellulare e isolati dal mondo con la musica che pompava nelle orecchie.
Avevano tutti le cuffie, quasi non volessero mischiarsi, quasi non importasse neppure il messaggio dall’altoparlante.
Nelle grandi città soffrivano forse tutti di indifferenza?
Osservavo quelle facce che – ero certa – non avrei più rivisto e mi chiesi dove stessero andando. Cosa avessero lasciato alle spalle e cosa ancora gli attendeva. È un gioco che fanno tutti: immaginare la vita degli altri. E per un breve momento riesce anche a dare delle soddisfazioni. Cominci a ipotizzare vite, lavori, dialoghi.
Mi piaceva immergermi in una folla di sconosciuti, forse perché ero certa del mio anonimato.
Erano sei mesi che vivevo a Parigi, - tenevo il conto -, eppure ancora non mi ero abituata a tutta la gente. Quel pensiero mi opprimeva come una sorta di claustrofobia, mi schiacciava e allo stesso tempo mi coccolava.
Colpa della mia vita precedente.
Colpa della provincia, sempre un po’ chiusa, che abitua alle solite facce e non ti prepara al mondo esterno.
Cominciavo davvero ad amarla, Parigi. Me la sentivo cucita addosso. Era quello che mi serviva: non contare niente per nessuno.
Con fare timido, feci una veloce panoramica su chi mi stava addosso, e nel frattempo la metropolitana ripartì strattonandomi all'indietro.
«Pardon» mormorai all’uomo su cui ero andata a finire. Era forse una delle poche cose che avevo imparato da che vivevo a Parigi: tutti si esprimono con un filo di voce e tutti chiedono costantemente scusa o perdono, come se si sentissero in colpa e la cosa mi calzava a pennello. Io che sentivo sempre il dovere di scusarmi di esistere.
L’uomo replicò con un timido sorriso e la voce proveniente dell'altoparlante si fece sentire di nuovo, ma stavolta più chiara. Il metrò aveva ripreso il proprio cammino, e adesso indicava la mia fermata dopo venti minuti di tragitto e due coincidenze: dal Marais ai Quartieri latini.
Dissi mentalmente addio a quelle persone che mi lasciavo alle spalle e, con un colpo d'occhio, scrutai quelle che avrebbero preso il mio posto.
Sconosciuti. Chissà cosa mi aspettavo di trovare…
“Arrivo con un po’ di ritardo” mi avvertì il proprietario della galleria d’arte nella quale lavoravo in un italiano poco italiano, tanto per assicurarsi che la novella impiegata capisse che avrebbe dovuto fare da sola. E sapevo già cosa mi aspettava. Pierre ci teneva molto alle tele che sarebbero state consegnate quella mattina. Non faceva altro che parlare di questo artista parigino davvero promettente, che sarebbe stata la sua fortuna dopo i tempi bui che avevano vissuto le vendite.
L’unica cosa che sapevo io, era che avrei dovuto passare tutto il giorno a spostare faretti e cercare mille puntine.
Rue de Sien non era molto lontana dalla fermata del metrò, ma avevo comunque abbastanza tempo per poter divagare. Con la suola delle scarpe di cuoio che battevano sull’asfalto, aggiustai la borsa che pendeva dalla spalla e mi persi fra i miei pensieri.
Ogni mattina rivedevo il film della mia vita per capire dove avevo sbagliato, a quanti sacrifici facevo fronte per vivere a Parigi e con quale stato d’animo ero partita. Col passare dei giorni, dei mesi, quella fretta che mi aveva portata a inviare richieste di lavoro in tutte le gallerie d’arte parigine, a cercare un posto letto, piano piano svaniva, come se mi trovassi lì da una vita. Come se avessi finalmente raggiunto qualcosa.
Tutto senza dimenticare perché avevo lasciato casa mia.
Anche se sarebbe stato più facile cedere alla protezione che i miei genitori mi avrebbero sempre offerto incondizionatamente. Avevo lasciato la mia vita, o comunque ciò che ne restava.
«Non ce la farai» mi aveva detto mia madre prima di partire, svuotando la valigia che faticosamente avevo riempito.
«Mamma, io qui non ci voglio stare. Ci ho provato» avevo risposto, con le lacrime che mi oscuravano la vista e quella implorazione che non veniva fuori per via del magone.
Quel momento lo ricordavo bene, l’intonazione della sua voce e lo sconforto derivato, tanto che infilai i pugni nelle tasche del cappotto e mi guardai intorno  a disagio.
Era troppo presto per chiedersi se avessi sbagliato tutto o meno anche se mia madre non mancava di telefonare per dirmi di tornare a casa, ma non riusciva mai a convincermi.
Lavoravo nella prima galleria che aveva risposto alla mia richiesta e vivevo nell'appartamento che avevo scelto dall’Italia prima di partire: un ripostiglio in cui era difficile fare troppe cose contemporaneamente.
Quando mi accorsi che le lacrime si stavano facendo più insistenti, smisi di guardare per terra e fissai i cornicioni dei palazzi. Era quello l'orizzonte che mi impediva di dare di matto. Di chiedermi se qualcuno prima o poi mi avrebbe indicata col dito. Non succedeva da sei mesi ormai e – cazzo – se stavo meglio.
Ero felice?
No, non lo ero. La felicità sarebbe stata vivere liberamente a casa mia, con i miei. Spostarmi per quella cittadina come se fosse la cosa più naturale al mondo e non qualcosa per cui suscitavo scalpore o pettegolezzi.
Scossi il capo per scacciare quel brusio dalle orecchie, le chiacchiere da bar che sembravano inseguirmi come una scia odorosa e, davanti alla grande vetrina della galleria, che regalava una visione della sala principale per le esposizioni, fermai il passo.
«Bonjour, madame» salutò il proprietario della rosticceria dall’altra parte della strada.
Mentre rovistavo nella borsa in cerca delle chiavi, ricambiai con un cenno del capo prima che l’uomo si mettesse ad attaccare bottone con frasi di cui non avrei capito il senso perché pronunciate troppo velocemente e sottovoce.
«Madame! Madame!» chiamò una voce poco prima che varcassi la soglia del negozio. «Excusez-moi!»
In un primo momento non feci caso al fattorino che faticosamente cercava di posteggiare tra due auto, per dare inizio al solito rituale della mattina: accensione luci, avvio riscaldamento e controllo della posta.
«Madame, s’il vous plaît! Ho una consegna e sono in ritardo!» disse spazientito l'uomo, piombando con un primo carico nell’ambiente chiuso ma con la luce che filtrava attraverso la vetrina a tutt’altezza.
«Pardon!» replicai mortificata, provando a velocizzare ciò che stavo facendo.
Sul parquet rovinato dal tempo, calpestai passi pesanti che mi portarono all'esterno. Giusto in tempo per scoprire un individuo che armeggiava con i dipinti imballati e farmi piombare in uno stato di agitazione mista ad ansia.
«Ehi!» lo richiamai, mentre lo raggiungevo e cercavo di tenere a freno i nervi per non urlare a squarciagola: «Fermate quel ladro!»
Il fattorino uscì dalla galleria dopo di me e senza fretta raggiunse il suo carico, come se non gli importasse.
«Cosa fai?» ringhiai, tra l’italiano e il francese, al tizio che indossava un blazer nero e un paio di jeans tagliati alle ginocchia.
Il ragazzo, il cui viso era nascosto da lunghi capelli scuri ricaduti in avanti, afferrava i bordi delle tele senza curarsi neppure della mia presenza o che quelle potessero avere un valore, con uno scatto del collo provò a scostare i capelli lisci.
«Quelle sono mie!» continuai a ripetere dopo averlo raggiunto e agguantato l’angolo di una delle tele.
Fu a quel punto che entrambi alzammo lo sguardo nell’altro e il suo viso riempì le mie iridi scure, facendomi richiudere le labbra d'istinto. Non sapevo bene cosa fosse stato, forse l'imbarazzo di aver azzardato una minaccia che era un mix di francese e italiano urlato a più riprese o forse i suoi occhi profondamente chiari: limpidi.
Ingoiai un boccone vuoto e dimenticai cosa dovevo dire.
Il ciuffo ricadde sulla guancia, oscurando un occhio, ma il ragazzo provò subito a spostarlo con un altro scatto repentino. Aveva un volto spigoloso, con gli zigomi messi in risalto dalla barba scura che incorniciava un paio di labbra piene. In quei brevissimi istanti mi parve che il tempo si fosse fermato per farmi scrutare ogni più piccolo dettaglio di lui. Era incantevole, con le folte sopracciglia scure una delle quali segnata da una cicatrice piccola e bianca.
Il ragazzo davanti a me mosse appena le labbra prima di accennare un breve sogghigno che mi fece imporporare le gote.
«Queste tele sono di mia proprietà» precisò in un francese perfetto, con una voce che si era adattata a quelle lettere e, soprattutto, al tono. Era imperiosa come se tutto in lui rivendicasse le opere e allo stesso tempo trovasse paradossale la mia opposizione.
Continuammo a studiarci per quei brevissimi momenti, col corriere che continuava a sbuffare spazientito e a fare avanti e indietro col carico, mentre il traffico fluiva indisturbato così come i passanti che non ci prestavano attenzione.
«Non credo che il mio titolare sarebbe d’accordo con lei» replicai, strattonando appena la presa nella mia direzione e rincarando il tono. Poteva ammaliarmi quanto voleva con gli occhi contornati da lunghe ciglia scure, con il sorriso malandrino e il profumo griffato che si espandeva tutto intorno a lui, in ogni caso avrei rispettato le direttive di Pierre. O almeno ci avrei provato.
«Ah, no?!» Il ragazzo mollò la presa incrociando le braccia al petto, in attesa che continuassi a divertirlo, con la conseguenza che la tela mi finì addosso e mi toccò fare un passo indietro per non cadere.
«No!» risposi beffarda a quel viso che si illuminava sempre di più come il sorriso che si allargava. Cominciava a darmi sui nervi. Non solo dovevo reggere la sua bellezza, ma dovevo anche sopportare lo scherno. «Trova la situazione così tanto divertente?»
«Queste tele portano il mio nome, potrei ridipingerle anche a occhi chiusi, visto che sono l'artista» precisò.
Mi concessi una panoramica sul suo aspetto. Non aveva l’aria dell’artista maledetto, piuttosto quella del ragazzo da aperitivi in centro: bicchieri di vino, tante chiacchiere, sigarette e donne.
Studiai le Adidas bianche, i jeans skinny, la giacca che copriva una t-shirt di cotone chiara e ancora una volta ritornai sul suo viso, che mi attirava come una calamita.
«Cos'è, hai bisogno della mia carta d'identità?» si lamentò, probabilmente spazientito dalla mia insistenza, e incredulità.
Mi domandai se stesse scherzando, così, sulle prime, non parlai. Nella mia mente cercai di ricordare come fosse fatto davvero l’autore di quelle opere, tanto per smascherare l’impostore. Il problema però era che non sapevo davvero chi fosse, proprio come non conoscevo l'identità del ragazzo. Ho sempre odiato fare la figura dell’idiota, ma davanti a occhi così chiari, e a labbra tanto piene… sarebbe stato difficile non ricordarsi di un essere bello come quello che mi stava davanti.
«Jean» disse, allungando la mano nella mia direzione. «Picard» aggiunse poi, forse ricordandosi di essere lì per lavoro.
Colta dall’esitazione, non potei fare a meno di riguardare il suo viso e con lo sguardo scendere lungo la sua gola chiara lasciata libera dalla folta barba, notando il pomo d’Adamo piuttosto pronunciato. Proseguii attraverso la sua spalla e arrivai sino alle dita affusolate.
«Camilla» mormorai, un istante prima che le nostre mani si unissero in una stretta forte che mi provocò un violento brivido e un immediato capogiro che mi fece dimenticare della circostanza.
Ci guardammo negli occhi, e i suoi si ridussero in minuscole fessure. Mi chiesi se fosse dovuto al fatto che – al contrario di lui – avevo semplificato la mia identità al solo nome. Era questione di abitudine, come se tutto di me si riducesse a quello: chi sono, la mia vita precedente e quella futura.
«Cami» ripetei più sommessamente «…e basta. Lavoro nella galleria di Pierre.»
Fu in quel momento che mollai la presa della sua mano e mi accorsi di quanto fosse calda, di quanto il suo tocco mi avesse riscaldata, mentre tutto intorno a noi girava.
«Mai avuto nessun dubbio su questo» replicò Jean per le rime.
Sulle prime non capii. Stavo per domandargli: «Come?» ma poi vidi le sue labbra schiudersi un’altra volta e preferii godermi quello spettacolo.
Il corriere aveva preso a borbottare ancora più forte e a sbuffare più sonoramente, eppure poco - di tutto quello - arrivava alle mie orecchie. Era tutto un brusio di sottofondo, colpa o forse merito dello sguardo di Jean che sperava di avere qualche altra informazione utile a capire chi aveva davanti.
A quel pensiero un lieve brivido mi fece tremare, chissà perché non riuscivo mai a capire la curiosità della gente nei miei confronti. In fondo non c'era niente che mi rendesse diversa da tutte le altre ragazze. Avevo lunghi capelli ondulati che il più delle volte tenevo legati, dopo mesi passati a torturarli con tagli e colori perché facessero di me un’altra persona. Avevo occhi castani come tanti altri montati su un ovale magro. Ero io, niente di più e niente di meno. Ma in fin dei conti, non era stata per la mia fisicità che avevo deciso di trasferirmi lontano dalla mia famiglia? E quello mi fece abbassare lo sguardo.
«Camilla» ripeté Jean, provando ad annullare l’accento francese per imitare la mia intonazione. Quella nota dolce sulle vocali mi strappò un sorriso tirato. «Lo hai sentito anche tu?»
Cosa? Stavo per chiedere ma non lo feci. Si riferiva alla nostra stretta di mano? Al brivido che avevo provato non appena ci eravamo guardati negli occhi? Lo aveva avvertito anche lui?
«Sì» mormorai incerta.
«Allora forse è il caso che ci diamo da fare, credo che ci stia maledicendo» concluse, lanciando brevi sguardi fugaci in direzione del fattorino.
Cazzo, pensai, e morsi l’interno della guancia per non darmi dell’imbecille. Cosa diamine credevo?
Abbozzai un sorriso e annuii.
Per trasportare il resto delle opere impiegammo svariati avanti e indietro in cui il fattorino continuava a controllare l'orologio. Avrei potuto restarmene all’interno del locale, fingermi indaffarata, fatto sta che trovavo molto più divertente incrociare i suoi passi e accennare un sorriso a ogni suo sguardo. Trovavo irresistibili quelle occhiate fuggevoli e quel calore che i suoi occhi mi infondevano. Rispondere: «Lo faccio con piacere» ogni qualvolta Jean mi ripeteva di non preoccuparmi, che avrebbe portato lui a termine il trasporto. E, inseguire il suo profumo, contare i passi per non risultare troppo goffa, mi facevano mentalmente pregare Pierre di arrivare più tardi del dovuto.
«Una firma, s’il vous plaît» disse il fattorino, felice di andare via.
Io, al contrario, ero sprofondata in una crisi nera, non appena avevo notato la catasta di opere che occupava la sala centrale della galleria, quella che dava su Rue de Sien.
A separarci dall’esterno c’era solo un vetro trasparente che ci faceva sembrare pesci in un acquario, quasi la galleria si fosse trasformato nella versione casalinga di qualche reality.
«Merci, au revoir» salutai, portando le mani ai fianchi.
Alle orecchie arrivò il battito incontrollato del mio cuore. Era bastato restare da sola con Jean perché cominciassero a sudarmi le mani, il mio stomaco si annodasse e un senso di timidezza mi spingesse a cercare riparo nel retro, proprio lo spazio in cui erano accatastati i cavalletti, la zona buia che era solo uno spoglio retrobottega chiuso al pubblico.
Intrecciai le dita e mi domandai cosa avrei detto per rompere il ghiaccio. Ero io, lì, la padrona di casa, toccava a me fare gli onori quando Pierre era assente.
Chiedigli della mostra, pensai. Ma subito dopo, qualcosa dentro di me mi ricordò che quello era il mio lavoro. Avrei dovuto conoscere già certe informazioni e poi sapevo della suscettibilità degli artisti. Lo avevo già offeso per strada, non era il caso di farmi odiare.
Qualcosa di personale sarebbe stato troppo, mi rimproverai.
Avevo la mente sgombra. Ero vuota solo se tenevo gli occhi aperti, perché, se li chiudevo, mi sembrava di vederlo e non andava bene.
Quando mai uno sconosciuto aveva occupato tanti pensieri nella mia mente? Era troppo per un ragazzo qualsiasi anche se molto carino.
«Il progetto dell’esposizione è già pronto?» domandò Jean a gran voce, ricordandomi di dover uscire dalla mia tana.
«Sì, eccolo.» Prontamente di ritorno alla scrivania, mi imposi di rimettere in moto il cervello e di non scollegare più i cavi. Ero lì per lavoro e lo stesso valeva per lui. Ottimo punto di partenza per ritrovare il senso delle cose.
Gli allungai il foglio e parlai.
«Scusami… per prima. Sono stata maleducata. Mi dispiace.» Sentii di dovermi scusare col ragazzo che ripassava in rassegna le ultime opere e le divideva, tutto senza più prestarmi la minima attenzione. La cosa da un lato mi fece storcere il naso, ma dall’altra mi fece sospirare di sollievo: questi francesi tutto fascino sanno confonderti le idee.
Jean, che aveva tolto la giacca per dare spazio alla sua fisicità fasciata da una t-shirt bianca, veniva illuminato da un faretto mentre i colori vivi usati nelle opere si riflettevano sul suo viso.
Mi avvicinai di svariati passi, fingendo interesse per le opere e riprovai a ripetere ciò che avevo detto.
I miei occhi solcarono le curve delle sue spalle larghe che parevano imitare quelle di un cuore. Ogni volta che spostava una dozzina di tele, i suoi muscoli si gonfiavano, creando incantevoli chiaroscuri. Non potei fare a meno di notare quanto fossero ampie, e allo stesso tempo di domandarmi se fossero accoglienti. Come sarebbe stato accoccolarsi?
«Non sei stata maleducata. Non conoscevi la mia identità. Tutto qui» concluse Jean, mettendo in pausa ciò che stava facendo solo per raddrizzarsi e scrutare negli occhi. «Mi hai quasi fatto paura però» sogghignò. «Ma, per rendere meglio, la prossima volta aggiungi una parolaccia.»
Jean mi strappò un sorriso, quasi incoraggiandomi a parlare. Passare dallo stato di sconosciuti a quello di complici.
«Ci proverò» promisi. «Ma non credo di conoscerle poi molto bene.»
Avevo ventisette anni, vivevo a Parigi da sei mesi e la mia vita sociale si riduceva alle facce che incontravo in metrò.
«Da dove arrivi, Cami e basta?» Su quelle parole, non poté fare a meno di accennare un sorriso divertito, dandomi prova che quel diminutivo lo aveva colpito più del dovuto.
Turbata non solo dalla domanda, ma anche dalla sua totale attenzione, mi domandai cosa rispondere. Quella piccolezza mi provocò un tremolio d’ansia sulle labbra.
«Sono italiana» replicai, sperando bastasse quello, generalmente era così, come se tutta l’Italia si riducesse a un unico posto e tutti provenissimo da lì.
«Io sono francese» disse per le rime Jean, le cui sopracciglia presero ad aggrottarsi per colpa delle mie risposte striminzite. «Sono stato diverse volte in Italia, ho molti amici a Roma che vado a trovare spesso. Per caso abbiamo rischiato di incontrarci?»
All'improvviso il mio cervello aveva smesso di funzionare. Era bastato ascoltare nella stessa frase le parole: amici e Roma, per ritornare indietro nel tempo e provare quello stato d’angoscia che mi impediva di respirare bene. Fu come se all'improvviso una morsa mi avesse afferrata forte e stretta, intrappolando anche le mie braccia.
«Camilla» provò a richiamarmi Jean, forse dopo aver notato il mio pallore e la totale assenza. «Stai bene?»
«No» risposi.
«No?!» Jean parve turbato.
Non sto bene. «Non c’è stato questo rischio» preferii dire, spazzando via quella nube scura che cominciava ad addensarsi su di noi.
Ritornai a sorridere, ma senza coinvolgere pienamente il viso. Erano solo le labbra a essersi aperte davanti a lui che riprendeva a parlare, mentre io cercavo di calmare il mio stato d’animo in subbuglio. Ogni riferimento, ogni accenno, ogni parola mi faceva paura come se al mondo esistessimo solo io e ciò che era stato.
Perché era così difficile per me il passato?
Prima avrei capito che sentire nominare l'Italia non comportava necessariamente riferirsi al passato, e prima sarei guarita.
«Bonjour!» tuonò la voce baritonale di Pierre, sorprendendo entrambi.
I due cominciarono a confabulare per recuperare il tempo perso, così ebbi la possibilità di ritornare alla mia scrivania e di studiarli da lontano.
Osservai due uomini così diversi tra loro: Pierre, il mingherlino che mi aveva concesso la possibilità che mi serviva senza neppure saperlo, e l'artista.
Jean.
Mormorai il suo nome cosicché potesse mescolarsi ai miei pensieri. Avevo voglia di pronunciarlo, metterlo in cima alla lista delle parole che mi piaceva mormorare in francese. Jean. Quella J mi solleticava il palato e le vocali si mischiavano per creare qualcosa di unico.
La cadenza che quel nome richiedeva nel pronunciarlo, pareva fare il paio col proprietario. Il ragazzo riempiva lo spazio con quel fare naturale che può solo essere invidiato.
Seduta su una sedia girevole, lo scrutavo attraverso il bordo della scrivania. Trafelata. Pronta a fingermi indifferente se fossi stata sorpresa.
Scoprii che l’esposizione a lui dedicata sarebbe durata due settimane. Quello era il tempo che Pierre aveva stabilito per permettere al ragazzo di farsi conoscere dal grande pubblico. O, meglio ancora, quello era il lasso di tempo che Pierre si era dato per rimettere in sesto la baracca.
Mi domandai se Jean ci avrebbe fatto compagnia per tutto il tempo, ma conoscevo già la risposta. Gli artisti vengono in galleria solo per allestire lo spazio, presenziano alla serata inaugurale e poi spariscono. «Devono essere le opere a parlare per loro» mi aveva detto una volta Pierre, durante la prima mostra alla quale prendevo parte.
Da che lo avevo conosciuto, potevo finalmente dare un volto all’artista di cui tanto aveva sempre parlato il gallerista. Ne aveva vantato le doti, la genialità. Era estasiato dal fatto di averlo scoperto prima degli altri; essere arrivato per primo a una potenziale miniera d'oro.
«Questa mostra…» aveva sempre ripetuto. «Inseguo monsier Picard da… ho perso il conto. I suoi bozzetti sono sublimi. Vedrai, Camilla, sarà la mia fortuna!»
Per me era una mostra come le altre. Solo un evento che portava fermento e ansia per tutte le ore precedenti.
L’inaugurazione si sarebbe tenuta quel venerdì e alle mie orecchie arrivò l’immaginario ticchettio di un orologio. Avevano poco meno di quarantotto ore per sistemare cinquanta tele e provvedere agli ultimi accorgimenti. Vidi Jean sbuffare più volte, spostare tele e darsi da fare come nessun artista aveva mai fatto da che ero lì. Generalmente i “geni” preferivano stare seduti in un angolo a imporre le loro volontà. Il ragazzo, invece, si sporcava le mani e spesso scostava i capelli dalla fronte, spazientito, come se non avesse tempo da sprecare.
«Pierre» disse dopo l’ultima imprecazione. «Mi fai perdere tempo. È la mia occasione, ho bisogno di concentrazione» e dopo aver parlato, Jean si voltò verso la mia postazione cogliendomi di sorpresa.
«Hai ragione» convenne l'uomo che aveva capito di essere di troppo con le sue chiacchiere. «Vieni, Camilla, andiamo a prendere un caffè.»
Interpellata e colta alla sprovvista, d'istinto mi nascosi ai loro occhi, manifestando il mio disaccordo con un silenzioso «No» che mi colorò il viso di un rosso acceso.
«Pierre, se non ti dispiace Camilla può restare. Avrò bisogno del suo aiuto» dichiarò Jean, stupendo non solo Pierre, ma anche me.
«Sei tu l'artista» borbottò il gallerista alquanto offeso. E se ne andò lasciandomi da sola con Jean.

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⏰ Ultimo aggiornamento: Jun 13, 2017 ⏰

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