IL MIO CUORE NELLA TUA MANO

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GIUDITTA

Sto seriamente pensando di essere arrivata alla pazzia. Sì, pazzia. Quell'uomo, seduto a qualche metro di distanza dal mio tavolo mi sembra Flavio, ma è assurdo. Non possono essere i suoi occhi quelli che sto continuando a fissare, eppure l'intenso blu delle sue iridi non potrebbe appartenere a nessuno, se non a lui.

E se quell'individuo non fosse proprio Flavio, rischierei di perdere la testa per uno sconosciuto incontrato nella piazzetta di un paese lontano anni luce da quella che era la mia vita a Milano.

Comincio a sentirmi confusa, inizio a percepire uno strano calore pervadermi dentro, arrivarmi al cervello e stordire il mio labile autocontrollo.

Flavio, sei tu?

Non può essere lui. Il Flavio che conosco io non perdona. Il Flavio che conosco non poserebbe di nuovo lo sguardo sopra di me dopo il male che gli ho causato. Il tizio che siede a quel tavolo sembra lui, ma non lo è.

Sto vaneggiando, il mio inconscio inizia a manifestare un malessere che ho represso per mesi.

Porto una mano sul petto, il cuore è lì per scoppiare, le gambe tremano come fossi un equilibrista in bilico su una fune a metri e metri da terra.

«Scusatemi. Devo andare.» Ma non so davvero a chi sto rivolgendo il mio blaterare confuso. Adele non è ancora arrivata, solo lei potrebbe capirmi al primo sguardo.

Mi tiro su di scatto, spostando con violenza la sedia. Il fastidioso rumore causato dall'attrito del metallo sull'asfalto dirotta l'attenzione di tutti su di me.

Fa' che Lorenzo non torni ora, fa' che Lorenzo non esca adesso. Continuo a ripetere a mente a una sconosciuta e improbabile entità metafisica.

Qualcuno mormora: «Ehi, che hai?».

«Ho bisogno di andare via, non mi sento bene.»

E invero, non mi sento affatto bene.

Mi staranno prendendo per una pazza. Una riservata, pazza e isterica dottoressa venuta dal nord. Al nord sono un po' tutti affetti da una grottesca forma di isteria. È lo stress di vivere sempre sotto pressione, rispettando ritmi che non sono da ritenersi propriamente idonei a uno stile di vita tranquillo.

Sento una mano trattenermi. «Vuoi un passaggio?» mi viene chiesto.

Ho un attimo di esitazione nella risposta, volgo di nuovo lo sguardo verso l'uomo pericolosamente simile a Flavio. Non smette di fissarmi, di studiarmi, di consumarmi con gli occhi come se di questa mia carcassa vuota conoscesse ogni minimo particolare. Mi entrano dentro le sue pupille, mi corrodono, divorando il poco raziocinio che mi rimane.

Deglutisco a fatica e l'aria intorno a me sembra essere densa e difficile da respirare, la testa sta diventando troppo leggera e sento un vuoto all'altezza dello stomaco che è un chiaro presagio del fatto che sto per crollare.

Ho imparato a riconoscerli gli attacchi di ansia, il momento che precede il blackout, l'istante in cui il corpo ti avvisa del fatto che potresti non farcela, che le gambe potrebbero non reggere il peso dell'affanno.

Di solito giungono di notte, mentre sono sola e la mente ha troppo tempo per pensare. Erano settimane che non provavo più questo perenne ruotare, come su una giostra. Ora le voci che mi gravitano intorno diventano confuse e l'ossigeno, pericolosamente, sembra non bastare più.

Afferro la borsa e senza salutare nessuno mi allontano. Non vedo la strada, non vedo neppure la gente che popola la piazzetta. Sto impazzendo. Il fiato diventa affannato e irregolare, sento caldo e un nodo stringe intorno alla gola. Raggiungo il Duomo, lo riconosco dalle luci ambrate che ne illuminano l'imponente architettura, prendo la prima stradina che mi capita a tiro, senza sapere in quale direzione io stia realmente andando. Sento solo i miei passi che mi inseguono uno dietro l'altro; quando capisco di non farcela più mi appoggio a un muro grigio e ruvido. Inspiro, inspiro forte. Il mio fiato entra, esce, entra, esce.

L'attesaWhere stories live. Discover now