Capitolo 2

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Ripensavo a lui molto spesso, in due settimane non avevo saputo fare altro che pensare a due meravigliosi occhi scuri e ai capelli biondi di Aaron. Dio, quanto ero bugiardo! Le cose che mi tornavano più spesso alla mente erano il suo corpo spalmato al mio, la sua bocca contro la mia e lo sguardo bramoso che mi aveva puntato addosso.
Mi aveva fatto sentire vivo ed era stata la sensazione migliore della mia non vita. Per un attimo, per un attimo soltanto, avevo pensato che il mio cuore avrebbe potuto ricominciare a battere con lui presente, ma dovevo saperlo che era una speranza destinata a morire… come tutto ciò che mi riguardava. Ero uno zombie del sesso, con una vita fasulla che non era davvero la mia, quella l’avevo persa anni prima, stando alla data recata sul calendario. Sarebbe stato interessante scoprire la causa della mia morte dato che non avevo alcun ricordo in merito. Sapevo chi ero, dove avevo vissuto e chi era la mia famiglia, le scuole e gli amici che avevo frequentato, eppure qualcosa non mi tornava. Ero convinto che ci fosse altro di terribilmente importante che mi ero lasciato alle spalle, dei tasselli che non riuscivo a trovare e collegare tra loro.
Cosa mi ero dimenticato? E perché?
L’esclamazione seccata del proprietario dell’Eclipse Pub, il locale in cui lavoravo, mi riscosse dalle mie elucubrazioni mentali e ritornai al presente, afferrando il vassoio contenente le birre per il tavolo undici. Era mezzanotte e il pub era gremito di gente, non vedevo l’ora di tornare a casa e farmi una dormita. Persino uno zombie ne aveva bisogno, non che rischiassi di morire se non lo facevo, dato che potevo stare sveglio tutta la vita, ma il mio cervello in quel caso iniziava a perdere colpi, procurandomi vuoti di memoria o rendendomi difficile recepire immediatamente quello che mi veniva detto. Diventavo una sorta di vegetale, insomma, uno con l’aria di essersi appena alzato dal letto o reduce da una notte all’insegna dell’alcol.
Consegnate le birre, feci il giro del locale per ritirare nuovi ordini e incontrai gli occhi della ragazza che stavo per portarmi a letto diversi giorni prima, se non fosse che uno stronzo si era messo in mezzo, facendo saltare il mio appuntamento sotto le lenzuola e costringendomi a uscire a notte fonda in cerca di una nuova preda.
Come si chiamava la rossa? Kara? Karin? Bah! Non ricordavo i nomi di quelle con cui ero stato a letto, figurarsi di quelle con cui non ci ero stato…
Gli occhi verdi della ragazza parevano non volermi abbandonare, era in compagnia di un paio di amiche eppure non le degnava della minima attenzione. Il suo sguardo era inequivocabile: mi voleva. E io ero ben intenzionato ad accontentarla, perché era un bel bocconcino e, inoltre, mi stava venendo fame.
Le riservai un sorriso malizioso e le feci l’occhiolino, prima di tornare ai miei compiti e sfacchinare a destra e a sinistra per un’altra lunghissima ora, fino a quando tutti i clienti si decisero a levare le tende.
Terminai di rigovernare e pulire il pub che erano quasi le due di notte e, dopo essermi cambiato, desiderai semplicemente di poter andare a dormire. Peccato che avevo un problema da sistemare, sempre se non volevo correre il rischio di diventare maleodorante e di passare il resto della notte con l’uccello duro da far male.
Salutai il mio capo, la moglie e il cuoco, che se ne sarebbe andato anche lui a breve, e uscii dall’Eclipse, dove l’unica luce che illuminava l’esterno era quella dell’insegna al neon posta sulla facciata del locale. Beh, forse Jim, il mio capo taccagno, avrebbe dovuto decidersi a fargli dare un’occhiata, perché da qualche giorno a quella parte emetteva un ronzio fastidioso e preoccupante.

«Hai finito, finalmente,» esordì la voce di una donna.

Non avevo fatto in tempo a puntare il piede fuori dalla porta, che la rossa mi si parò davanti e la prima cosa che mi balzò davanti agli occhi furono le sue enormi bocce, esposte in modo indecente attraverso la scollatura esagerata. Indossava un vestitino rosso striminzito che le copriva a malapena le cosce e calzava un paio di sandali tacco dodici, come minimo.

«Mi aspettavi, bellezza?» le sorrisi, circondandole la vita stretta con un braccio e premendola contro il mio corpo eccitato.

«Ovviamente,» cinguettò, per poi lamentarsi: «Non mi è piaciuto che, la volta scorsa, tu mi abbia scaricata per quello sfigato.»

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