Io non avevo più convertito. A lezione recitavo il ruolo d'incapace, quale in fondo mi sentivo, nell'osservare gli altri affrontare quel supplizio con disinvoltura e uscirne indenni. Qualche volta un oggetto scompariva, ma sapevo bene che il merito non era da attribuirsi a me, bensì a Miss Key, o J, o L, o chiunque altro desiderasse darmi tempo.

"Spegniamo?"

Non mi curai di rispondere a W e gli unici rumori che seguirono nella stanza furono un click sommesso e dei lievi, discreti passi che infrangevano il silenzio della notte.

Mi ritrovai poco dopo accovacciata nello sgabuzzino angusto, illuminata dalla luce elettrica, a fronteggiare Corinne con un'ansia latente nel battito affrettato, e quanto avevo narrato che ancora scottava nella bocca.

Trovavo C taciturna, più del solito. Era seduta contro il muro, la vestaglia bianca stretta attorno al corpo, e lo sguardo opaco una vetrina, attraverso cui ombre scure si sopprimevano l'un l'altra, ignare del mondo circostante.

"Quindi?" eruppi titubante.

"Quindi cosa?"

Il suo tono, così affilato, così adulto, mi sorprese. E di colpo mi sentii una bimba piccola. Infantile, dipendente dal prossimo, perché non le hanno mai insegnato a scegliere tra il silenzio e la parola, tra il moto e la quiete, tra la scelta e l'obbligo. Una bimba che sbandiera la sua autonomia, ma non se ne assume il carico.

"Che dovrei fare?"

"Amira." Corinne sospirò, e sospirò ancora, rendendomi inquieta. "Amira, non domandarmi questo. Non domandarmi di decidere della tua vita."

"Non è quel che voglio."

"Davvero?" ribatté, lo scetticismo impresso sul volto. "A me sembra di sì. Vuoi che io ti dispensi da questo gravoso compito."

Un filo di disperazione mi macchiò la voce. "Ti sbagli."

Corinne tacque per qualche minuto, e distolse lo sguardo. Mi accorsi solo in quel momento di quanto apparisse stanca. I ricci scarmigliati le scendevano sul viso tirato e il calore che le ravvivava gli occhi si era estinto, una scia di cupidigia adulta l'aveva succeduto.

"Ti conosco da dodici anni, Amira. E so che se ora dovessi privarti della possibilità di scegliere, in futuro la rimpiangeresti, e io stessa la rimpiangerei."

Altro silenzio. Altro tempo vuoto.

"Non vuoi aiutarmi?"

Corinne mi osservò, gli abissi scuri velati di tenerezza, e mi accarezzò il viso teso.

"Non ti aiuterei in questo modo."

A quel punto uno scudo invisibile si erse tra di noi e scattai in piedi, sottraendomi al suo tocco materno.

"Capisco." Uno spesso strato di ghiaccio si depositò sulla mia voce. "Capisco perfettamente."

Nel profondo riconoscevo l'immensa saggezza di Corinne. Ma all'esterno un più cupo veleno si snodava nelle crepe del mio orgoglio e ne leniva il dolore, donandomi un appagamento sfuggente, un appagamento che solo gli arroganti possono comprendere. Gli arroganti come me.

Tuttavia in quell'attimo sentii di essere nella ragione nel rivolgerle le spalle. Corinne non si mosse, o almeno così mi parve, poiché alle mie orecchie non sopraggiunse alcun rumore.

"Ti voglio bene, Amira. E questo te lo dico con il cuore in mano. Se non hai abbastanza coraggio per fare una scelta, forse la scelta l'hai già fatta."

Rimasi immobile, bloccata di fronte all'uscita.

"Non ho bisogno della chiave" sussurrai, più a me stessa che a lei.

"Vai, A. Vai e non fermarti."

La ascoltai e corsi, corsi fino alla mia stanza. Infilai la chiave nella toppa ed entrai. W mugugnò nel sonno, ma non si destò. Allora la sistemai nella giacca e mi gettai nel letto, ancora con l'uniforme indosso. Cambiai posizione più e più volte, mentre gli effetti del veleno svanivano poco a poco, lasciando come unica traccia una testarda convinzione. Arresa alla prospettiva di una notte in bianco, brancolai nel buio e afferrai la borsa dell'Heddem Institute. Ne estrassi un libro e senza neanche vederne il titolo, e strappai un pezzo della pagina.

Accesi la lampada, nella speranza che W non si svegliasse, e celandola con la mano sinistra, iniziai a scrivere il biglietto da consegnare a J.

Parete destra, n. 17. Scrivimi l'ora e il luogo in cui dovrei vedere Miss Key. Lascia passare il messaggio sotto la porta. Mi auguro tu ci riesca ma, in caso contrario, dammelo durante l'Ora di Conversazione di domani.

A.

Dopo pranzo, il dì seguente, anziché restarmene nella mia stanza con W, mi recai all'Ora di Conversazione. La odiavo, in realtà, e avrei preferito agire in altra maniera, ma non potevo semplicemente attendere che J si avvicinasse abbastanza da dargli il foglietto.

L'Ora di Conversazione consisteva nell'ennesima menzogna dell'Heddem Institute. Alla fine del pranzo, se lo si desiderava, si poteva partecipare. Era obbligatorio andarci almeno una volta ogni tre mesi. Supponevo che l'Heddem Institute la ritenesse un buon mezzo per la socializzazione, o quantomeno l'illusione più credibile di quest'ultima. La maggior parte se ne stava in un angolo, o chiaccherava con il proprio compagno. Anche ai camerieri, durante quella frazione di tempo, era concessa una pausa. Supponevo fosse solo per rafforzare i controlli, dato che i professori non amavano molto spendere il loro tempo libero monitorando le conversazioni inesistenti che avvenivano in quell'ora.

Non era molto sicuro dare a J il biglietto in quell'occasione, essendo di sicuro calamite dell'attenzione degli insegnanti. Era raro che un ragazzo e una ragazza si rivolgessero la parola. Era raro, in effetti, che chiunque rivolgesse la parola a qualcuno che all'infuori del proprio compagno di stanza.

Probabilmente non sarei mai andata all'Ora di Conversazione, tranne che nei giorni in cui W mi ci avrebbe trascinata, se non ci fosse stata Corinne. Gli argomenti che ci davano il permesso di discutere non erano molti, anzi, ma anche solo sentirla raccontare aneddoti delle cucine mi divertiva.

Quella volta, però, C non venne. E gliene fui grata, perché la discussione della sera risuonava ancora nella mia testa e, per quanto tentassi di allontanarlo, anche il senso di colpa iniziava a infettare il mio animo.

Scorsi subito J. La noia trapelava dal suo viso e da quello del suo amico. Si vedeva che nemmeno loro adoravano quell'usanza. Mi diressi verso di loro, intimando a W di aspettarmi, e li salutai con un cenno.

"Ciao."

M'imposi di ripetere il rito. Percepivo già la pressante attenzione di Mr Vega, l'insegnante di Geografia, su di me. Non avrebbe dovuto dubitare che io e J ci conoscessimo.

"Ciao" mi assecondò L, intuendo i miei timori.

"Sono andate bene le lezioni?"

J non aprì bocca, limitandosi a fissarmi intensamente.

"Mh... non c'è male. Molto interessante la lezione di Geografia."

Mi sforzai di rimanere seria nell'udire L alzare il tono di voce e sorpassarmi con lo sguardo.

"Di cosa trattava?" proseguii, imperterrita.

"Uhm... i continenti... l'Africa. Non ero molto concentrato. Lo ammetto."

L scandì la frase, lentamente, ed enfatizzò l'ultima parte. Impiegai un istante ad accorgermi che Mr Vega si era distratto. Lo ringraziai mutamente per la collaborazione, un sorriso accennato sul viso, e mostrai il bordo del foglietto accartocciato.

Lo diedi a J, fingendo di stringergli la mano, e rilasciai la presa solo quando sentii le sue dita stringersi salde attorno alla carta.

"Arrivederci, L. Arrivederci, J."

Mi congedai con quell'insulsa formalità pronunciata a bassa voce, e ritornai da W.

"È stata una conversazione interessante?" s'informò.

"La potrei considerare un successo."

BlackvoyantWhere stories live. Discover now