Prologo

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Quella casa era stata il suo rifugio nelle ultime due settimane, ma ora, mentre ne varcava zoppicando la soglia, Thren Felhorn dubitava della sua sicurezza. Si strinse il braccio destro al corpo e lottò per soffocarne il tremito. Il sangue gli scorreva dalla spalla al gomito, il braccio lacerato da una lama avvelenata.

«Che tu sia dannato, Leon» imprecò mentre attraversava barcollando il pavimento di legno di una stanza disadorna e raggiungeva la parete intonacata e rivestita in quercia. Aveva la vista annebbiata, eppure riuscì a localizzare il solco con la punta delle dita. Premette verso il basso, e la serratura di ferro situata dall'altra parte del muro scattò. Una piccola porta si aprì verso l'interno.

Il mastro della Gilda del Ragno si lasciò cadere su una sedia e si tolse il cappuccio grigio e il mantello dello stesso colore. Ora si trovava in una stanza molto più ampia, dipinta d'argento e decorata con quadri di campi e di montagne. Sbottonò la camicia, sfilandola con cautela per non strusciarla sul braccio ferito. La tossina era pensata solo per paralizzarlo, non per ucciderlo, ma quel pensiero era una ben magra consolazione. Molto probabilmente Leon Connington l'aveva voluto vivo per potersi sedere sulla sua poltrona imbottita e restare a guardare mentre i suoi Torturatori lo dissanguavano goccia dopo goccia. Le parole false pronunciate dal grassone durante il loro incontro gli avevano acceso nelle viscere un fuoco che non accennava a spegnersi.

«Non ci abbasseremo al livello dei topi di fogna che vivono della nostra merda» aveva detto Leon accarezzandosi i baffi sottili. «Credi davvero di avere qualche possibilità contro la ricchezza del Triumvirato? Potremmo comprarci la tua anima dagli stessi dèi.»

Quanta arroganza. Quanta superbia. Thren aveva lottato contro l'impulso di conficcargli la spada in gola.

Per secoli le tre famiglie del Triumvirato, i Connington, i Keenan e i Gemcroft, avevano governato nell'ombra. Col tempo erano riuscite a corrompere sacerdoti e regnanti, e avevano cominciato a credere che nemmeno gli dèi fossero fuori dalla portata delle loro dita stracolme d'oro.

Era stato un errore non assecondare il suo primo impulso, e Thren lo sapeva. Avrebbe dovuto colpire Leon, ancora e ancora. Dannate guardie.

Si erano incontrati nella stravagante magione di Leon: un altro errore. Thren giurò a se stesso che, nei mesi a venire, avrebbe rimediato alla propria imprudenza. Per tre anni aveva fatto del suo meglio per impedire lo scoppio della guerra ma, a quanto pareva, a Veldaren tutti desideravano il caos.

Se la città vuole il sangue, lo avrà, pensò Thren. Ma non sarà il mio.

«Sei tu, padre?» chiese la voce del suo primogenito dalla stanza adiacente.

«Sì» rispose, cercando di controllare la rabbia. «Ma se non fossi io, cosa faresti? Ormai hai rivelato la tua presenza.»

Suo figlio Randith entrò dall'altra stanza. Somigliava molto al padre: gli stessi lineamenti spigolosi, lo stesso naso sottile e il sorriso lugubre. I capelli erano castani come quelli della madre, e ciò bastava a renderlo caro a Thren. Entrambi indossavano i pantaloni grigi della loro gilda, e sulle spalle Randith portava un mantello grigio come quello del padre. Una lunga lama affilata era appesa a un lato della cintura, mentre dalla parte opposta portava un pugnale. Gli occhi azzurri del giovane incontrarono quelli di suo padre.

«Ti ucciderei» disse, un sorriso sfacciato a increspargli il lato sinistro del viso. «Non ho alcun bisogno di coglierti di sorpresa.»

«Chiudi quella dannata porta» replicò il padre ignorando la sua spacconeria. «Dov'è il nostro stregone? Gli uomini di Connington mi hanno ferito con un veleno, e il suo effetto è fastidioso.»

La danza degli inganniOnde as histórias ganham vida. Descobre agora