La pietra

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La pietra.

Mi ero dimenticato di quella scatolina. Ora l'avevo di nuovo tra le mani e la scuotevo per ascoltare quel suono familiare anche se lontano.

C'erano dentro venti sassolini, lo sapevo senza bisogno di contarli.

Venti sassolini grigi, di comune ghiaia ... ed anche una pietra, una grande pietra.

Era alta un'ottantina di centimetri. Era la mia isola.

Chissà come era arrivato lì quello strano pezzo di roccia?

Ero in Francia con i miei. Emigrati.

Vivevamo in una grande vecchia casa con tanti appartamenti ed una lunga terrazza in legno, coperta da un tetto in latta, in fondo alla quale c'era il bagno comune per quel piano.

La terrazza si affacciava in un grande cortile interno comune ad altri edifici.

Proprio lì, in quel cortile interno, c'era quella pietra che era divenuta la mia anima, la mia ancora di sicurezza, il mio rifugio.

Non ricordo una prima volta della pietra, è parte della mia memoria, come un'eco indefinito. La prima immagine che conservo in un cantuccio ovattato e morbido dell'archivio celebrale è quella di me seduto, con le gambe incrociate, su quella pietra. Allora era un piccolo pianeta con tanto di anfratti in cui nascondevo piccoli oggetti o qualche caramella propiziatoria riservata al re di quel mondo. Io.

C'era anche un modo di star seduto comodamente per delle ore, come facevo io, una curva particolare a 45° rispetto al cortile, una curva dolce della roccia che la rendeva quasi morbida alle natiche.

Oggi scrutando silenziosamente quel cantuccio caldo ed ombreggiato, mi sembra di riconoscervi l'immagine del "Piccolo principe", in piedi sul suo pianetino. Io invece ero seduto e seguivo le storie che si snodavano in quel cortile dominato da ritmi lenti e ripetuti.

La mattina, ogni mattina, andavo a scuola e molte volte ne uscivo malconcio, ferito. Insulti dagli altri bambini figli del Gaullismo nazionalista ed intollerante che arrivava alla violenza contro l'Italiano o forse semplicemente contro il povero.

Quella sofferenza non era comunicabile ai miei, già prostrati dalla stanchezza e dalla nostalgia; allora ecco la mia pietra non "filosofale" ma si, filosofica.

Il suo nocciolo duro assorbiva tutto e dopo un poco ero rigenerato e le storie prendevano il sopravvento sull'irrealtà del mattino.

Ricordo che una volta c'era la partita Francia-Italia ed a scuola si interruppero le lezioni e ci portarono tutti a vedere quell'avvenimento sportivo in un corridoio in cui avevano messo un televisore.

Ero terrorizzato e cercai di mimetizzarmi in un angolo dietro un armadio. Naturalmente non perdevo una battuta. Fu allora che amai immensamente quel portiere rimasto senza nome e le sue parate impossibili.

Vinse l'Italia.

Naturalmente non manifestai assolutamente nulla e sforzai i miei lineamenti all'impassibilità. Nessuno disse niente, facevano finta di non vedermi.

In me il cuore scoppiava. Finite le lezioni tornai di corsa a casa. Arrivai trafelato e scesi in cortile. Fu una delle poche volte in cui restai per così tanto tempo in piedi sulla mia pietra, con un immaginario , grande tricolore, al lato. Pensavo che tutti, vedendomi, leggessero il mio orgoglio.

La seconda volta in cui ero rimasto in piedi sulla roccia è stato quando in un negozio mi regalarono due palloncini rossi, gonfiati con l'elio.

Mi sembrò così strano quel semplice dono, quel gesto gratuito, che fino a casa dovette tenerli in mano mia madre, perché io li rifiutavo. Poi li presi e andai sulla pietra, in piedi li osservavo verso il cielo, finché persi l'equilibrio e caddi. I palloncini volarono via ed io, di nuovo seduto sulla pietra, li osservavo spingendoli con la mente verso i miei amici e cugini in Italia.

A volte arrivava il figlio della padrona di casa. Era un bambino della mia età e se non mi trovava in casa facendo i compiti, sapeva dove cercarmi. Scendeva in cortile e sedeva su un muretto a poca distanza dalla pietra. Scambiavamo qualche parola, ma lui non si avvicinava mai più di tanto. Ero orgoglioso di questo predominio, lo guardavo dall'alto e in quei momenti ero felice.

Quella roccia era anche una poltrona dalla quale osservavo i divertenti o preoccupanti spettacoli che si alternavano in quel cortile.

Ricordo le grida sconcertanti e violente che provenivano da una brutta palazzina attaccata alla nostra. Parlavano una lingua che non conoscevo. Un giorno la donna uscì con due valigie e la figlia adolescente e non la vidi più. Da allora sentivo l'uomo che piangeva e gridava da solo con la voce alterata degli ubriachi.

C'erano anche una mezza dozzina di bambini e per un periodo mi invitarono a giocare al calcio, ne ero felice e mi impegnavo a fondo; poi tutto terminò, non si recavano più sul prato dietro agli orti e non ho più saputo dei loro giochi. Quando ero seduto sulla mia pietra, li vedevo passare e li salutavo, ma niente più.

In una casetta mono-familiare in fondo al cortile c'era una ragazza, aveva le trecce lunghe ed i capelli neri, mia madre diceva sempre che sembrava una siciliana. Un giorno venne a casa a far riparare delle calze di nylon che si erano sfilate, uno dei tanti lavori che faceva mia madre, la vidi da vicino e lei sorridendo mi scompigliò i capelli.

Ecco, da allora ogni tanto la mia pietra diveniva cuore e osservava con ammirazione quella casetta invidiabile.

Un giorno mio padre, cancellando una riga dal calendario, mi disse che mancavano 60 giorni al ritorno in Italia. Mi dette un cioccolato dolce, caldo e denso di uvetta, mi mostrò il calendario cui aveva tagliato via i giorni e i mesi seguenti a quella sessantesima giornata ed io mi spaventai un poco davanti a quel vuoto di tempo, a quell'elisione così netta.

Lentamente il continuo argomentare del ritorno, dei nonni, della casetta in Italia, prese il sopravvento e ricordo che il pensiero del ritorno era sempre preceduto da un pezzo di calendario che immaginavo appeso in Italia.

Quando mancavano trenta giorni (Ogni sera c'era il rito della cancellazione della giornata trascorsa), decisi di farmi un calendario personale.

Presi trenta sassolini e li misi in un anfratto della mia pietra. Ogni giorno ne toglievo uno e lo mettevo in una scatolina.

Li avrei riportati a casa.

Quando mancavano tre giorni alla fine dell'anno scolastico e una decina al ritorno, scesi nel cortile da cui provenivano strani rumori e vi trovai due ruspe spianando terra in tutta la fascia di fronte alla nostra casa.

La mia pietra non c'era più. Era stata portata chissà dove e ora probabilmente era un inutile pezzo di roccia.

Con lei se n'erano andati anche gli ultimi dieci sassolini del mio calendario.

Venti sassolini grigi, di comune ghiaia... e una pietra, una grande pietra. 

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⏰ Last updated: Apr 26 ⏰

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