25- 𝙏𝙝𝙚 𝙗𝙧𝙚𝙖𝙠𝙞𝙣𝙜 𝙤𝙛 𝙩𝙝𝙚 𝙨𝙞𝙡𝙚𝙣𝙘𝙚 -𝘈𝘮𝘦𝘭𝘪𝘢

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Eravamo quasi arrivate alla porta quando mi strinse la spalla per farmi strada verso lo spogliatoio in destra.

«Ho bisogno di parlare con te e Kevin.» Dissi appena mi lasciò libera. Io volevo che fosse presente anche lui.

«Ci sono solo io.» Si sedette sulla panca incrociando le gambe snelle, continuando a puntarmi due occhi neri come la pece addosso. «Con il mio gruppo agonistico hai chiuso nel momento in cui tua madre ha scelto una clinica a duecento miglia da me e non la cura ambulatoriale. Con quella avresti potuto continuare qui, ma così...no, Amelia.»  Parlava con voce sicura e sguardo severo, e capii che nonostante quello che era successo a una delle sue atlete di punta, Audrey Clark non era cambiata di una virgola.

Fu una doccia fredda, ma i conti, a me, non tornavano. Era stata chiara nel messaggio che avevo ricevuto un paio di mesi prima. «Mi avevi scritto che mi avresti aspettata.» Inclinai la testa di lato, confusa, in attesa di una sua risposta.

«Certo, qualche giorno. Sai benissimo che nel pattinaggio, a questi livelli, chi si ferma è perduto. Se vuoi puoi tornare a fare singolo, magari in qualche categoria promozionale, se proprio vuoi pattinare. Ma in questo gruppo siamo andati avanti, mi spiace. Ho bisogno di menti presenti e disciplinate, non di cervelli che costringono il corpo a non mangiare appena le fai presente che hanno messo peso.»

Stronza. Stronza, stronza e ancora stronza. 

Da quella chiacchierata mi aspettavo di doverle spiegare i motivi della mia scelta e mi ero preparata mentalmente un discorso in cui le avrei chiesto di lasciarmi pattinare dall'altra parte della Florida. Ma forse mi ero data troppa importanza: lei aveva già scelto al posto mio. Ero fuori dalla sua squadra agonistica.

Sentii la rabbia entrare in circolo, un sangue velenoso che aspettava di esplodere come mai prima d'ora. Audrey mi aveva allacciato i pattini per la prima volta. E dopo tutti quegli anni in cui a modo suo mi aveva plasmata come atleta, mi stava sbattendo le porte in faccia con una freddezza unica. Capii che teneva a me come un bambino con il giocattolino nuovo: quando smette di luccicare, appena un angolo si crepa, si butta via. Avrei voluto risponderle a tono, ma dovevo restare focalizzata sul mio obiettivo e lei mi stava fornendo quell'occasione servendomela su un piatto d'oro, il suo metallo preferito.

«Allora sono sicura che non avrai problemi a mettere una firma qui.» Senza aggiungere niente, prendendo esempio dalla sua flemma, le consegnai il modulo per il cambio società ben aperto, in modo che si rendesse conto che forse non ero poi così finita se un'altra allenatrice era disposta ad allenarmi. Mentre lo leggeva, sfilai dalla tasca della i tuta venticinque dollari necessari da regolamento nazionale e me ne restai lì, con il braccio allungato in attesa di un suo commento maligno.

«L'Academy, il paese dei balocchi.» disse con aria strafottente quando lesse il nome di Martina Davis nella sezione dedicata alla società ricevente. 

«Firma il foglio, Audrey, e levo il disturbo. Tanto sono comunque fuori, no?» Quasi rideva, quando filò dalla borsetta la sua inseparabile Montblanc, la stessa con cui tracciava le linee dei nuovi programmi di gara su dei fogli immacolati che sarebbero poi passati nelle mani del coreografo.

«Se quel Davis fosse stato un mio atleta lo avrebbe vinto il mondiale.» Scribacchiò la sua sigla e quando mi guardò di nuovo vide quelle banconote che stringevo tra le dita ricominciò: «Non me ne faccio niente di quella misera cifra, Amelia. Valevi molto di più, prima delle scelte di tua madre.»

Me lo ricordavo bene, quel giorno. Fosse stato per me, avrei scelto di restarmene in quel letto d'ospedale ad aspettare che la vita se ne andasse. Non avevo le forze per nessun tipo di scelta, se non quella di restare nascosta. Mia madre aveva scelto per me. L'essere ancora minorenne si era rivelata una fortuna, perché il Fairwinds e la mia forza di volontà si erano rivelati un'accoppiata vincente.

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