The end of the beginning

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Keith
"Siamo quello che decidiamo di essere".
La direttrice dell'istituto dove ero cresciuta ripeteva sempre quella frase.
Durante un compito in classe,con tema "Cosa vuoi essere da grande?",io avevo risposto "Felice".
La felicità è sempre stato un tassello importante della mia vita fino all'età di sedici anni,quando la mia convalescenza nell'istituto era ormai terminata.
Mia madre era un'avvocato che viaggiava per il mondo all'inseguimento dei suoi sogni,ormai infranti. Era una donna che seguiva i miraggi dei propri sogni.Solo i cocci spezzati di un vaso che una volta conteneva una rosa.
Mio padre,a causa delle continue assenze di mia madre,era diventato un'alcolizzato.
Ed io ero caduta in depressione all'età di sei anni.
Così i servizi sociali mi portarono all' Asylum,una sorta di centro psico-riabilitativo,come lo chiamavamo lì.
Non era un luogo di costrizione o di abbandono.
Lì ti facevano sentire a casa come nessun'altro,come se volessero farti dimenticare tutto quello che avevi subito in passato.
Io ero troppo piccola per ricordare ogni dettaglio della mia infanzia prima dell' Asylum,ma quei dieci anni erano stati i miei d'oro.
Dopo essere dimessa ero tornata a casa ma non per molto tempo.
Era cambiato molto da quando avevo sei anni.
Scoprii che mamma era scomparsa e che papà era un uomo rispettato,con una nuova compagna e due figli:James e Kathy.
Kathy come la mamma.
Due mesi dopo,i servizi sociali,erano arrivati a casa,avevo fatto le valigie ed ero stata data ad una famiglia affidataria.

Vago per le vie di Miami ormai da un'ora e il gelo mi si sta insinuando nelle ossa fino a renderle solo pezzi di ghiaccio.
Calpesto le pozzanghere,che si sono formate per terra dopo il temporale della notte precedente,guardando le increspature sull'acqua che si allargano.
Con le mani nelle tasche della giacca mi incammino verso un minimarket dove spero di trovare un po' di cibo.
Muoio di fame.
Sono stata licenziata dal ristorante in cui lavoravo ormai da un anno per colpa di una cliente troppo presuntuosa che mi aveva fatto perdere le staffe.
Un cumulo di rabbia mi appesantisce il cervello e non riesco a ragionare,così tiro un calcio ad uno scatolone vuoto davanti ad una vetrina di un negozio.
Sbatto i piedi come una bimba capricciosa e mi accascio a terra dove la tettoia di telo colorato non ha permesso alla pioggia di bagnare anche il poco spazio tra la vetrina ed il marciapiede.
Comincio a tremare per il freddo e il mio corpo viene percorso da fremiti e conati di vomito cominciano ad essere sempre più frequenti finchè sento la ragione abbandonarmi e il respiro diventa un semplice sussurro alla luna che mi osserva dall'alto con la mamma.
Mi stringo a me,facendomi piccola come un criceto,cercando di scaldarmi ma tutti i miei sforzi sono inutili.Gli esili guanti di stoffa non sono sufficienti a scaldare le mie mani,così comincio a sfregarle tra di loro,nel vano tentativo di portare un po' di calore al mio corpo.
Continuo così per un'abbondante mezz'ora finchè,sfinita per la lunga giornata,non mi abbandono in un sonno profondo che spero mi porti via,lontano da quel posto gelido e desolato.

Mi sveglio tra le coperte di lino di una lussuosa camera.
Ma non è casa mia.
Mi alzo di scatto,ma sbatto la testa contro una mensola posta sopra la testata del letto.
Impreco a bassa voce massaggiandomi la nuca,finché un clic non mi fa sussultare.Mi trascino verso la testata del letto,lontana dalla porta,trascinandomi le coperte fino al mento.
-Buongiorno,cara-una voce velata come lo zucchero filato mi fa aprire gli occhi.
La donna davanti alla porta avrà all'incirca una settantina d'anni e porta tra le mani un vassoio con una tazzina di ceramica rosea e un piattino con dei biscotti.
Comincio a tremare.Mi sento a disagio.Come ho fatto a capitare in una camera così bella?
-B...Buongiorno-biascico le parole.Un nodo mi si forma in gola e mi costringe a deglutire.
-Ragazzina stai bene?-mi chiede gentilmente la donna.
-S...Sì l...La ringrazio-rispondo balbettando.
Mi squadra da capo a piedi,dopo,-con pochi passetti si avvicina a me e poggia il vassoio sul comodino.
Si gira verso di me e mi riserva un ampio sorriso.
Quando sta per uscire dalla stanza la fermo.
-M...Mi scusi-la signora si gira con un sorrisetto stampato sulle labbra.
-Sì cara?-chiede.Questa donna ha del buono.
'Fidati,fidati,fidati' dice una vocina dentro di me.La ascolto.
-Come ha fatto a trovarmi...C...Cioè che ci faccio io qui?-chiedo cauta.
-Ragazzina stavi gelando lì fuori.Mio nipote mi ha aiutata a portarti qui.-dice lei calma.
-M...Ma la strada era deserta...i...io-balbetto.
-Gestisco una piccola attività lì nei paraggi.Stavo per chiudere quando mio nipote è venuto a trovarmi alla bottega e siamo tornati a casa assieme.Mentre ci dirigevamo qui,ti abbiamo vista accasciata a terra e ti abbiamo portata via di lì,nulla di più.-mi racconta lei con la compassione stampata sul volto.
-Ma sappi che puoi restare qui per quanto lo desideri.Questa camera non la utilizzo mai.-aggiunge.

La giornata trascorre tranquillamente.Scopro che la donna si chiama Sophie Middleton e che gestisce una piccola bottega che vende articoli di cucito e ricami fatti a mano.
Scopro inoltre che prepara del cibo squisito e che ha una parlantina che ti fa dimenticare persino la tua voce nei pensieri.
Finisco di leggere il terzo capitolo di 'Orgoglio e Pregiudizio',trovato su uno scaffale in soggiorno,prima che le palpebre mi si chiudano del tutto.
Ripongo cauta il libro nel cassetto del comodino e spengo la luce.
La stanza viene avvolta nel buio più totale.
Chiudo gli occhi e mi addormento.

EcstasyWhere stories live. Discover now