Però, Houston non significava solo mamma, ma anche ricordi. Ricordi ai quali non volevo pensare.

Certo, quel che stavamo facendo era molto pericoloso. Un solo passo falso e la nostra copertura sarebbe saltata. Ovviamente, però, eravamo stati più furbi di loro. Avevamo preso l'aereo per il Texas controllando tutti i passeggeri a bordo. Inoltre, avevamo avuto l'okay da parte di Mary che ci avrebbe monitorato durante l'intero viaggio.

Eravamo certi che Alejandro non ci avrebbe seguiti, anche perché sarebbe stato molto impegnato con il suo piano. Prima di partire era incredibilmente teso e Anthony aveva scoperto da Miguel che il messicano voleva accelerare l'operazione.

Compii l'ennesimo sospiro passandomi una mano sugli occhi assonnati.

All'improvviso percepii un peso sulla spalla e dei capelli solleticarmi lo zigomo.

Abbassai lo sguardo senza muovermi e vidi la testa di Weston poggiata sulla mia spalla.

Si era addormentato.

Poggiai quindi il mio capo sul suo e chiusi gli occhi attendendo la fine di quel viaggio.

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Houston, Texas

Houston era una città caotica, decisamente più di San Diego. Gli alti grattacieli mi ricordavano Los Angeles e l'accento dei suoi abitanti mi ricordava le mie radici.

Il freddo mi faceva tremare i denti e rendeva le mie dita pallide, mentre il vento si insinuava tra i miei capelli che non vedevo l'ora di lasciare al naturale.

«Benvenuto in Texas!» esclamai con un forte accento che credevo di aver ormai perduto.

«Adesso sì che sembri una vera texana!» disse lui in risposta fermando un taxi e caricando le valigie nel bagagliaio.

Una volta entrati nell'abitacolo, diedi l'indirizzo di casa e osservai la città avvolta dalle tenebre dalla finestra.

Erano solo le sette di sera ma, a causa dell'inverno, il sole ci aveva già abbandonati.

La strada era costernata da meravigliose e luminose bancarelle natalizie a ricordarmi dell'imminente giorno festivo.

«Sei originaria di Houston?» domandò all'improvviso Weston accanto a me cogliendomi alla sprovvista.

«Sono nata qui, ma effettivamente non ci ho mai abitato» affermai distogliendo lo sguardo dalla vetrata del taxi che cominciava ad appannarsi a causa del riscaldamento attivo.

«Prima» dissi a bassa voce cercando di non venir travolta dai ricordi «prima del tornado, abitavamo in campagna. Poi, dopo che la nostra casa è stata distrutta, siamo stati costretti a trasferirci qui...»

«Oh, lei deve essere una delle vittime di quel tornado che ha colpito nel 2003, non è vero?» domandò il tassista infilandosi nella conversazione poco prima di arrivare davanti casa.

Nonostante il movimento della mia testa dall'altro al basso, l'uomo sulla sessantina continuò a guardarmi dallo specchietto.

Frenò davanti a casa mia e l'unica cosa che disse mi fece rabbrividire.

«Tu sei quella bambina...» abbassai la maniglia dopo avergli porto i soldi che ci doveva e presi le nostre cose dal bagagliaio velocemente.

«Claire, piano, ci penso io...» disse il moro avvicinandosi a me e prendendo il suo borsone per poi metterselo in spalla.

Afferrai il mio trolley e percorsi il dialetto fino alla porta di casa lasciandomi alle spalle un agente della DEA molto confuso.

Arrestai la mia camminata davanti all'entrata e mi passai una mano tra i capelli cercando di calmarmi.

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