16- (𝘿𝙤 𝙣𝙤𝙩) 𝙎𝙪𝙢𝙢𝙤𝙣 𝙩𝙝𝙚 𝙙𝙚𝙫𝙞𝙡 -𝘑𝘰𝘳𝘥𝘢𝘯

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«Sì?» Ero quasi arrivato alla porta.

«Il tuo faccino. Ricordati che come l'ho fatto, se vedo qualcosa che non va con i miei bambini, lo disfo.» Minacciò.

«Ricevuto. Ciao, mamma.» Me ne andai ridendo, perché di tutte le minacce ricevute da parte sua in ventiquattro anni, nessuna era mai stata messa in atto. 

Quella fu la serata delle sorprese. Perché una volta uscito da casa dei miei andai dritto al Wave, dove ad aspettarmi al solito tavolo trovai Steven Miller in persona con una faccia da funerale mai vista prima. Faticava addirittura a guardarmi in faccia, mentre teneva le mani nelle tasche dei jeans e continuava a dondolare spostando il peso da una gamba all'altra.

«Ti devo parlare.» Iniziò subito.

«Sono qui.» 

«Mi sono fatto tua sorella.» Confessò guardandosi le scarpe, con un filo di vergogna. Era questo a preoccuparlo? La mia reazione?

«Lei ha ricambiato il bacio?»

«Eccome.» Sollevò le sopracciglia in segno di stupore.

«Non voglio i dettagli, grazie. Voglio solo sapere se era consenziente e felice.» Se era stato così, non avrei avuto nessun tipo di problema. C'era un sole splendente nel loro carattere, e sapevo che prima o poi si sarebbero trovati.

«Pensavo fosse felice.» fece una breve pausa «Ma poi non l'ho più sentita. Non ha risposto a nessun cazzo di messaggio.» Quasi volevo fare il finto ignaro e farlo penare ancora un po', ma aveva una faccia così triste che non ci riuscii. Amelia mi aveva aggiornato sulle tragedie del Fairwinds quel pomeriggio stesso, ma il mio amico non poteva saperne niente.

«Le hanno sequestrato il telefono, coglione.» Non sapevo che Steven avesse tutti quei denti, perché dopo le mie parole si aprì in una risata di sollievo.

Euforico, cercò con lo sguardo Jeremy, il barista, per ordinare due shots di Jack Daniel's per festeggiare la notizia. Ero contento per mia sorella e un po' invidioso di Steven, che sembrava aver chiara la situazione con la ragazza di suo interesse. 

«Offro io il giro. Quando vai a segno con la Reed, offri tu.» Mi disse.

Gli riservai un sorriso amaro, pieno dell'incertezza mia e del rifiuto di Amelia. Avevo visto il modo in cui mi aveva guardato le cicatrici. Era lo stesso che avevo ricevuto dai genitori dell'Academy quando ero tornato a pattinare in quell'estate di tanti anni fa, dopo il coma. Raggiunta un'età adeguata, stanco dei continui sguardi di pietà, le avevo coperte con qualche tatuaggio insignificante, stando comunque ben attento a non stare vicino alle persone quando ero a petto nudo. Non era mai stato un mio sogno riempire alcune parti di pelle con l'inchiostro, ma era il miglior modo che avessi trovato per mimetizzarle.

Il molo era il mio posto preferito, ci andavo ogni volta che ne avevo il tempo. Soprattutto se avevo passato gran parte della giornata a gestire più atleti di diversi sport, con programmi di preparazione atletica differenti per ognuno. Per quanto potessi essere stanco, pattinare lungo il  molo era sempre rigenerante, mi aiutava a staccare la spina. Amelia Reed era l'ultima persona che mi aspettassi di trovare lungo quell'enorme corsia che troneggiava sul mare. Ne vidi le gambe slanciate dai pattini, la vita stretta e la lunga coda di capelli al vento. Se ne stava appoggiata alla ringhiera, assorta nell'orizzonte del mare. Era perfetta. L'avevo riconosciuta a metri di distanza, anche se mi dava le spalle. Sarebbe stato impossibile non farlo.

Perché quelle poche ore passate insieme sotto il sole della Florida, l'azzurro innocente dei suoi occhi, la sua voce melodiosa, il suo gemito per un semplice caffè mi avevano lasciato una confusione mentale senza precedenti. Ero sempre stato una persona estremamente pragmatica nei sentimenti, eppure la piccola Reed aveva iniziato a demolire, mattone dopo mattone, il solido muro del mio raziocinio.

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