22 - Qui o in camera, scegli tu

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Non sapevo se fosse quel trauma ad avermi canalizzato verso l'istinto violento che emergeva in situazioni combattive. Provavo a fingere che fosse così perché in qualche modo dovevo trovare una giustificazione alla delusione che provavo nei riguardi di me stesso quando mi ritrovavo a fine spedizione solo con i miei pensieri e i miei tormenti.

Non trovavo plausibile che qualcuno potesse provasse per me qualcosa di diverso dall'odio e dal ripudio. Ovunque mi girassi notavo occhi pieni di terrore, di rabbia, di gelosia, di disprezzo e col passare del tempo tutte queste emozioni negative le avevo rese mie. Ero fatto per tre quarti di indifferenza e collera che provavo a sfogare in modi eticamente discutibili, guidato dal desiderio di dare voce alle ombre torbide della mia mente, convinto che solo così sarei riuscito a tenerle a bada, a metterle a tacere.

Mi nascondevo nel mio silenzio e nel chiacchiericcio di chi mi circondava e cercavo, giuro, con tutto me stesso di allentare la presa salda della mano attorno al mio stesso collo, ma non ci riuscivo perché, nonostante ci provassi, quando capivo che quella era la mia stessa mano, l'istinto suicida prendeva il sopravvento su di me.

Dorothea era la parte della luna su cui si rifletteva più luce solare, io ero l'esatto opposto, inutile terra deserta su cui un uomo era approdato credendo di scoprirvi chissà quale meraviglia. Ma ero deserto, vuoto, arido, i cui unici abitanti erano le ombre del passato.

Quando mi guardava con quegli occhi sofferenti e intensi, sentivo come se potesse esserci spazio per qualcosa di positivo in me. Il suo sguardo, l'espressione empatica con cui mi coinvolgeva riusciva a rendere vivibile quella solitudine, perché eravamo soli insieme.

Sapevo che l'avrei ferita, ero stato plasmato unicamente a tale scopo, e lo sapeva anche lei perché se io ero stato abituato a commettere quegli atti vili e disumani, lei era stata abituata a subirne.

Sembrava non le importasse, per quanto insensato e stupido e devastante potesse sembrare agli altri.
Non le importava di soffrire, non pensava a cosa ne sarebbe stato di lei, di noi, una volta ridotto in cenere il poco che le avrei potuto offrire.

Ciò che contava era sentire qualcosa, provare emozioni, amare, desiderare amore, scopare per amore, soffrire per amore, morire per amore. Tutto, voleva tutto questo fuorché l'odio, il disprezzo, l'indifferenza. Di quelle ne aveva abbastanza.

«Non ho mai desiderato una donna tanto quanto desidero te.» Sbatté le palpebre e le labbra si schiusero sorprese.

Era così criptica mentre le sue guance si tingevano di un rosa candido e le sue falangi prendevano a stringermi i polsi. Non mi sarei allontanato nemmeno sotto tortura, la sua forza era un soffio di brezza mattutina contro il tornado delle mie braccia e neanche l'astuta impertinenza che si portava dietro avrebbe potuto scalfirmi più di tanto.

«E allora accettami così come sono.» Contestò dura aumentando inutilmente la presa. Spinsi le dita oltre il suo viso, incamminandomi tra capelli lisci come la superficie di un lago, e lei rabbrividì impercettibilmente, alzando di poco il mento all'insù come a sfidarmi.

«Perché non capisci che cerco solo di aiutarti?» Strinsi i denti sentendo la pazienza scemare via con il poco contegno che mi ero concesso di riservarle. Odiavo l'insistenza, ma amavo quella sua testardaggine, l'ostinazione nel voler dimostrare di avere ragione anche quando aveva palesemente torto.

«Nessuno può aiutarmi, Oakley.» Non seppi se fu l'aver toccato quel tasto dolente che era la sua difficoltà a relazionarsi al cibo o a qualsiasi altra cosa che riguardava il suo corpo, oppure se fosse stata la sua convinzione nel ripetersi di non meritare tutte quelle mie attenzioni a farla traboccare in quel modo.

Un singhiozzo rotto le scosse il corpo quando gocce salate presero a scorrere fino a bagnarle le labbra: era provata, inquieta e solo allora riuscii a comprenderla davvero.

Evermore - 𝑆𝑜𝑡𝑡𝑜 𝑖𝑙 𝐶𝑖𝑒𝑙𝑜 𝑑𝑖 𝐴𝑙𝑡𝑜𝑛𝑎 𝑉𝑎𝑙𝑙𝑒𝑠حيث تعيش القصص. اكتشف الآن