3- 𝙏𝙝𝙪𝙣𝙙𝙚𝙧𝙨 𝙖𝙣𝙙 𝙡𝙞𝙜𝙝𝙩𝙣𝙞𝙣𝙜𝙨 - 𝘈𝘮𝘦𝘭𝘪𝘢

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E ancora, in cucina, il tavolo che aveva visto la me bambina disegnare principesse sui pattini crescere fino a diventare una ragazza insofferente che in quel tavolo, se avesse potuto, non ci si sarebbe più seduta. La gabbietta con Skippy, l'odioso canarino che con i suoi canti acuti mi svegliava anche la domenica mattina, ma che in quel momento ringraziai perchè il suo cinguettio era l'unico suono capace di spezzare il silenzio in cui versava l'open space del piano terra.

In ultimo, la vetrina con i miei trofei. Era la prima cosa che si notava entrando in casa: una panoplia di coppe, medaglie e trofei che avevo collezionato in quindici anni di fatiche sulle rotelle. Mi riempiva sempre di gioia poter tornare a casa, stravolta, dopo una o più giornate trascorse in preda all'adrenalina in qualche palazzetto, per aprire l'antina in vetro e aggiungere l'ennesima coppa guadagnata nella specialità singolo prima, in coppia con Kevin poi. Mi chiusi la porta alle spalle, con il cruccio di non sapere se un domani sarei stata in grado di portarne a casa altre, e salii in macchina.

Colsi mia madre a trafficare infastidita nella sua tote bag, mentre scaldava il motore dell'auto.  «Ecco tieni, me lo hanno dato in ospedale» e mi porse il mio smartphone. Me ne ero dimenticata. Lo collegai al caricabatteria del cruscotto, mentre Catherine ingranò la retro per uscire dal nostro posto auto, nel consueto tintinnio dei ninnoli legati al polso che accompagnava le sue manovre, e lessi gli unici due messaggi ricevuti:

Audrey: "Mi spiace essermene andata così. Non è facile per me accettare che la mia atleta di punta debba fermarsi per non so nemmeno quanto tempo. Ti aspetterò al tuo ritorno, un bacio"

Kevin: "Ciao, mi ha chiamato Audrey, ho saputo la novità...mi dispiace. Continuerò ad allenarmi,  ci si vede in pista!"

Considerando che la chat mia e del mio partner altro non era che un elenco di orari e conferme, quello fu il messaggio più lungo che mi avesse mai scritto. Risposi a entrambi con un laconico "grazie".  Non sarei riuscita ad andare oltre la risposta monosillabica con entrambi, non me la sentii. Mi sarebbero mancati i pattini e la libertà che conseguiva l'averli ai piedi, ma non avrei certo provato nostalgia per una persona che era più volte arrivata ad alzare le mani su di me e per un ragazzone dall'ego smisurato che mi incolpava di qualsiasi errore in pista, costantemente circondato dalla sua aura di perfezionismo da sbandierare su instagram al ritmo di hashtag imbarazzanti. 

Sopportavo, e avrei sopportato di tutto, perchè conscia del fatto che le difficoltà pullulavano nella via della realizzazione personale. I grandi obiettivi richiedono sempre una buona dose di sacrificio: sta a noi definirne limiti e priorità. Nel mio caso, lo scotto da pagare portava i nomi di Audrey e Kevin. Sopporta, mi ripetevo.

Avevo quattro ore per distrarmi un poco e prepararmi ad affrontare una nuova situazione. Uscire dalla comfort zone per spontanea volontà può incutere timore, figurarsi quando si è costretti a farlo. Mi distrassi acquistando qualche ebook in offerta per il mio kindle, dal momento che non potendo allenarmi in qualche modo avrei dovuto occupare il mio tempo libero. Leggere aveva da sempre un effetto sedativo sui miei nervi, amavo immergermi in qualche sport romance per empatizzare con le dinamiche degli altri sport. Mi piaceva tuffarmi nel crescendo delle storie d'amore, vedere i protagonisti passare dall'odiarsi all'amarsi, affrontare i mille intoppi di trama per vederli poi trionfare nell'epilogo. Adoravo comprendere l'amore tra le righe di una storia scritta, ma non lo sognavo per me, figlia di una famiglia disfunzionale. Rotta e vuota com'ero, non me lo sarei meritata. Se anche avessi voluto, poi, non ne avrei avuto il tempo.

Approfittando del continuo silenzio di mia madre, intenta a seguire le indicazioni del navigatore, infilai le cuffie e mi assopii lungo le strade trafficate della Florida.

Qualche ora e due album dei Power-Haus dopo, il navigatore ci indicò di svoltare a sinistra. Da Harrison Avenue, mia mamma rallentò per svoltare in un vialetto alberato, l'ingresso al Fairwinds Treatment Center. A primo impatto somigliava a un'imponente struttura composta da villette a schiera, con i tetti a punta pronunciata e mattoni faccia vista. I colori caldi dell'enorme edificio contrastavano quasi con il verde brillante del prato curato che delimitava la strada d'accesso. Non avesse avuto un cartello con scritto in rilievo "psychiatric center", i passanti lo avrebbero di sicuro pensato come un resort per le vacanze. 

RESILIENTWhere stories live. Discover now