Melonauti (Parte I)

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Il coniglio balzò via rapidamente, ma dopo pochi metri si girò timidamente ad osservare la scena. Quando la serranda si era sollevata con uno stridio improvviso, l'animale era fuggito d'istinto, ma evidentemente ora non sembrava più percepire minacce per la sua incolumità.
Marco vedeva spesso i conigli quando correvano vicino ai binari della stazione dei treni, mentre aspettava ogni mattina il treno a levitazione magnetica che lo portava in città. Ma quella non era la stazione e la presenza di quegli animali era l'unica cosa che quel posto e la sua stazione avevano in comune. Non poteva infatti esserci maggiore differenza tra il caos ordinato e pieno di vita della stazione, con i suoi veicoli silenziosi e le sue piattaforme eleganti e il campo abbandonato su cui sorgeva la casa, con la sua parvenza piatta e poco appariscente. Quando la città si era espansa e le campagne si erano ripopolate, molte aree periferiche erano state restituite all'agricoltura o al pascolo, ma le zone come quella dove viveva lo zio erano state lasciate incolte e libere di crescere, disabitate e disordinate, in balia della crescita sregolata della vegetazione.

Erano aree di passaggio, di transito, intercapedini territoriali tra il mondo high-tech della città e le sue campagne, dove l'impronta dell'uomo sfumava e si mescolava con l'operato della natura. Anche lì, in quelle che un tempo erano le periferie della sua città, elementi naturali e antropici si intrecciavano inestricabilmente, ma ciò avveniva in modi assai lontani dalla grazia e dall'armonia funzionale pensata per i distretti rurali: lì, in quelle aree abbandonate, regnavano il caos e il disordine, che davano vita a ibridi architettonici impensati e privi di alcuna progettazione. Pochi frequentavano quella zona, non perché vi fossero pericoli o cose da temere, ma perché non vi trovava alcunché di interessante: non molti sapevano cogliere il suo fascino. In un mondo dove l'armonia tra forma e funzione era il principio estetico fondante, quel posto permaneva nelle geografie mentali dei cittadini come un rimosso.
Ma allo zio la cosa non sembrava essere mai interessata molto, lui amava vivere lì.
Lo zio... Doveva smettere di chiamarlo così, pensò Marco.
L'uomo che abitava nella decrepita casa in muratura a due piani che ora aveva davanti a sé non era propriamente suo zio: il termine corretto era prozio, lo zio di suo padre.
Ma per lui egli era sempre stato lo zio.
Marco lasciò perdere il coniglio (o era una lepre? non sapeva davvero riconoscerli) e si avvicinò al vecchio garage, ora aperto. La luce del tardo pomeriggio tagliava la penombra del magazzino quel poco che bastava a illuminare cataste disordinate di oggetti di diverso genere, accumulatisi in strane concrezioni sovrapposte senza alcuna logica che non fosse quella dell'economia dello spazio e dell'accumulo seriale. Non si riusciva nemmeno a distinguere con chiarezza la maggior parte degli oggetti che erano riusciti fortunosamente ad emergere dai mucchi e che ora apparivano sporti fuori da essi come strane protuberanze. Ma in fondo ciò non aveva molta importanza: loro erano lì proprio per quelle cataste informi.
Finiti i tempi in cui l'economia poteva permettersi di confidare nell'inesauribilità delle risorse fossili e dei loro derivati, l'economia aveva rivalutato forme di design più adatte al riuso e al riciclo, pensate fin dalla loro progettazione in un'ottica di minore spreco e maggiore sostenibilità. Ma non si potevano ignorare le enormi masse di oggetti dal design antiquato, che affollavano ancora le città come rifiuti, residui o ciarpame. La gente aveva iniziato a guardare con enorme interesse a qualsiasi oggetto del passato che potesse essere riusato, riadattato o procurare materiali ormai rari e componenti molto richiesti, quindi persino quella catena montuosa di cianfrusaglie ammucchiate poteva avere un suo valore.
"Lo sapevo! Era da quando ero bambino, che lo zio buttava roba qua dentro. Non buttava via mai niente e quindi finiva tutto qui dentro" disse con voce trepidante suo padre da dentro il garage. L'uomo si interruppe e si girò per osservare le reazioni di Marco e della moglie, quasi aspettandosi di trovarli sbalorditi. Probabilmente l'apertura del garage-cripta doveva essergli sembrata incredibilmente teatrale e voleva godersi l'effetto.
La madre di Marco, più angustiata che sbalordita, guardava già nervosamente il piccolo furgone elettrico preso a noleggio. "Saranno almeno quarant'anni di roba, ci starà tutto?" chiese e un borbottio di assenso fu l'unica risposta. Marco si rese conto che il padre era già entrato, quindi lo seguì dentro il garage. Dentro non era più così buio ora che la serranda era completamente sollevata, ma l'odore penetrante testimoniava inequivocabilmente che era da qualche tempo che nessuno entrava lì dentro. D'altronde, lo zio era morto da quasi due mesi, in pieno autunno. Marco si ricordava poco del funerale, ma gli erano rimaste impresse l'atmosfera plumbea di quel pomeriggio di novembre, le foglie secche a terra e il fiume di lamentele stizzite delle sue zie perbene che commentavano incessantemente infastidite ogni particolare del suo abbigliamento. E ora erano lì, lui e i suoi genitori, a rovistare tra le cose dello zio, morto senza figli ed altri eredi diretti, cercando qualsiasi oggetto che potesse valere un soldo. I suoi stavano di nuovo urlando, come sempre e dal magazzino giungeva una serie caotica di frasi concitate come "Ecco, sì, prendilo da lì, bene"oppure "No, così cade, cade, cade!". I due avevano appena trascinato uno scatolone fuori dal magazzino e ora stavano sollevando un vecchio armadio. Si era deciso che sarebbe stato necessario fare più giri col camion, quindi il piano era diventato individuare preliminarmente gli oggetti di maggior valore. Suo padre lanciò a sua madre una sgraziata lampada da comodino in plastica, lei la prese al volo e la mise in una scatola, mentre Marco si chiedeva per l'ennesima volta perché fosse lì. Lui odiava quel genere di lavori, la polvere lo irritava e soprattutto non aveva molta voglia di trascorrere più tempo del necessario coi suoi genitori. Ma lo aveva fatto per lo zio. Non lo aveva davvero mai conosciuto, era sempre stato una presenza troppo evanescente nella sua vita, sempre lontano, sempre in viaggio per il mondo, era difficile trovarlo a casa. Ma ogni volta che tornava da quei viaggi si premurava di portargli un regalo e raccontargli una storia e allora stavano a lungo seduti sul divano in salotto, a parlare, finché sua madre non urlava dalla cucina di lasciar stare il povero zio, che doveva sicuramente essere così stanco.... Marco sapeva che a sua madre lo zio non piaceva: troppo sciatto nel vestire, troppo diretto, quasi rude, nei modi, troppo distante dalla finta cortesia che informava ogni rapporto in quella famiglia. Sapeva anche che non era solo sua madre a pensarla in quel modo, a riguardo dello zio: non era stato solo l'abbigliamento del ragazzo a suscitare i commenti acidi delle vecchie zie al funerale, visto che le comari avevano spettegolato a lungo, dopo la cerimonia e da ogni racconto, commento o aneddoto che riguardasse lo zio che traspariva un astio feroce e velenoso, di quelli che appagavano gli animi meschini, pettegoli e vendicativi dei suoi parenti. Non c'era bisogno di vivere in un distretto adibito alla pastorizia per sapere cosa significasse essere una pecora nera ed era anche per quello che a lui lo zio era sempre piaciuto: non era solamente l'alone di mistero che lo circondava ad affascinarlo, era soprattutto quel senso di indipendenza che emanava, che faceva di quell'uomo l'unico modello che avesse mai avuto di uno stile di vita diverso da quello dei suoi opprimenti parenti, con le loro beghe futili e le loro ipocrisie. Ma ora di lui rimanevano solo mezza dozzina di piramidi di cianfrusaglie impilate in un magazzino. Sospirò, si infilò i guanti da lavoro e si addentrò nel garage..

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⏰ Last updated: Mar 04, 2023 ⏰

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