Vedo, non vedo

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Quando i piatti colpivano la mia testa producevano un rumore acuto, un lungo fischio che non smetteva nemmeno quando i cocci mi circondavano. M'immaginavo che quel fischio fosse una qualche comunicazione aliena, su una frequenza che riuscivo a percepire solo io. Provavo a decifrare quei lunghi suoni tutti uguali disegnandoli nella mia mente: spesso erano sinuose linee bianche, il fumo di un aereo in un cielo azzurrissimo, un paracadute che veniva a salvarmi. Altre volte, invece, erano dei confusi tratti neri impazziti, come il fumo di un vulcano che riempie il cielo, con la lava pronta a sommergermi.

Quando il fischio smetteva ero solo nella stanza. 

C'erano i miei genitori in casa, ma ero comunque solo perché smettevo di esistere: il mio corpo si ricopriva di tanti piccoli specchi e quando passavo davanti alle persone non mi vedevano (non sapevo però quando gli specchi si sarebbero disattivati, quindi mi nascondevo lo stesso). Strisciavo nascosto di fianco al divano per non farmi vedere da mia madre, con mio padre invece bastava essere silenziosi: teneva spesso gli occhi fissi altrove. Me ne tornavo in camera mia. A volte facevo un po' di rumore perché mi notassero ­—mia madre almeno— ma gli specchi mi coprivano talmente bene che il suo sguardo non mi raggiungeva mai.

Ogni tanto c'erano delle liane scure che mi uscivano dal cuore per distruggere gli specchi, ma non ci riuscivano e facevano solo male.

Questi specchi poi funzionavano solo quando gli pareva. Quando ne avevo bisogno non ero mai invisibile. Mi vedevano fin troppo bene, anche se mi nascondevo sotto il letto e respiravo la polvere. Anche se trattenevo il fiato e dicevo al mio cuore di non battere altrimenti ci avrebbero scoperti.

Sarebbe stato utile essere ricoperto di specchi quando i piatti volavano.

Vedo, non vedoWhere stories live. Discover now