9 Luglio 2015

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Se nel 1982 Michael Jackson non avesse pubblicato "Thriller" oggi il record per l'album più venduto di tutta la storia della musica spetterebbe agli AC/DC.
Parliamo di "Back in black", un disco che ha venduto circa 50 milioni di copie in tutto il mondo.
Un successo enorme e abbastanza improvviso che, in realtà, arrivò solo dopo la morte dello storico frontman del gruppo: Bon Scott.
Così i fratelli Young, rimasti "in braghe di tela", dovettero arruolare un nuovo cantante.
La scelta ricadde sullo scozzese Brian Johnson, che aveva già conosciuto un discreto successo con la sua prima band: i Geordie.
Ma niente di serio eh...
Il colpaccio di "Back in Black" portò gli AC/DC nell'Olimpo del rock, dal quale non si sono più spostati.
Da lì in poi si sono susseguiti dieci album pressoché identici e tour sempre più faraonici.
Dopotutto, se funziona perché cambiare?
Ed effettivamente ha sempre funzionato.

Ne sono la prova i 100mila spettatori che li videro all'autodromo Enzo e Dino Ferrari di Imola, seppur senza Malcom Young che, all'epoca, soffriva di sclerosi multipla (sarebbe morto due anni più tardi).
L'altro grande assente era il batterista Phil Rudd, nei guai con la legge per aver ingaggiato un sicario.
Non si scherza con gli australiani.
Al loro posto vennero chiamati il batterista Chris Slade (ex-membro della band tra il 1989 e il 1994) e il nipote di Angus, Stevie Young.
Onestamente credo che quel giorno a nessuno importasse così tanto se mancasse Phil Rudd.
Erano, palesemente, tutti lì per Angus.
Se metti Angus Young su un palco lo sa già che il pubblico darà di matto.
Servono a poco le gigantesche bambole gonfiabili di "Whole lotta Rosie", perché la vera essenza dello show sta tutta nel vedere un ometto alto un metro e cinquantacinque saltare da un lato all'altro del palco con la sua uniforme da scolaretto.
E, a vederlo bene, sembra davvero un bambino appena uscito da scuola (ma solo se dovessimo basarci sulla sua statura).

Uno studente che la scuola l'ha sempre odiata.
Pensate che il suo maestro di musica diceva che il piccolo Angus "non aveva minimamente il senso del ritmo".
Chissà cosa deve aver pensato quel maestro quando, anni dopo nel 1991, uno dei suoi peggiori alunni faceva saltare un milione di persone a Mosca a ritmo della sua Gibson SG.

Quel pomeriggio di attesa, ad Imola, sembrò interminabile.
Di certo il caldo non aiutava.
Soprattutto non aiutava gli stronzi come me che, invece di godersi il concerto dalla collinetta dell'autodromo, decisero di andare proprio in mezzo alla fiumana di persone.
Feci conoscenza con un signore sulla sessantina che mi raccontò di essere stato per anni il massaggiatore di Gianna Nannini.
Per ingannare quelle estenuanti e torride ore ci scambiammo un po' di aneddoti sui concerti che avevamo rispettivamente visto.
Io, che speravo di poter fare un po' lo sburoun (come si dice in Romagna) rimasi sbalordito quando mi elencò un palmarès da fare invidia: David Bowie, Prince, Pink Floyd e ogni altro ben di Dio.
Ok vecchio, hai vinto tu.

Mi scatto l'ennesimo selfie col palco sullo sfondo, giusto per potermi gongolare almeno con i miei amici di Facebook.

Il sole se ne va solamente per lasciare tutta la scena agli AC/DC, sparendo solamente quando gli australiani attaccano con il pezzo che dà il titolo al loro ultimo lavoro discografico: "Rock or bust", che suona un po' come "o è rock o è una merda".
Mi fido sulla parola.
Basta vedere come si dimenano tutti quelli vicini a me alla prima schitarrata di Angus.

Questo è rock and roll nella sua forma più pura: chitarre distorte, un tizio che urla e canzoni che parlano di belle gnocche.
Stasera nessuno vuole il pippone ambientalista della star di Hollywood o l'introspettivo e paranoico cantautore proletario.

Siamo venuti qui solamente per divertirci.

Siamo venuti in tanti.

E facciamo casino

Ovviamente, come ad una messa non possono mancare l'Ave Maria o il Padre Nostro, a un concerto degli AC/DC non possono mancare le canzoni dell'album che li ha consacrati per sempre.
Da "Back in black" vengono suonate prima la canzone eponima, poi "Shoot to thrill" e "You shook me all night long".
Quest'ultima l'ho sbraitata dall'inizio alla fine come un malato di Tourette.
Vi sfido a cantare nella stessa tonalità in cui canta Brian Johnson.
In più stavo muovendo i piedi in contemporanea a quelli di Angus Young.
Sono sicuro che qualcuno aspettasse solo di vedermi uscire la schiuma dalla bocca prima di chiamare un esorcista.
L'intro di "Hells bells" mi ripaga di tutta la fatica, il caldo e la sete patiti quel giorno, sotto il cocente sole di luglio.
Quei lugubri rintocchi di campana mettono davvero i brividi (e pensate che "Back in black" si apre con quelli proprio per onorare la memoria del defunto Bon Scott, non certo famoso per essere un angioletto).
Seguono, poi, tutti i grandi classici della band, come l'elettrica "Thunderstruck" che, con quell'intro di chitarra, verrebbe riconosciuta pure da vostra nonna con l'acufene, oppure "Dirty deeds done dirt cheap", ripescata dal 1976, quando c'era ancora Scott alla voce.

Capisco che sono arrivate le ultime canzoni e, vedendo la malparata, è meglio che me ne torni da mio padre, rimasto al sicuro sulla collinetta.
Di scene ai concerti ne ho viste tante, ma un oceano di persone così grande mai.
Giuro.
Ancora non so come abbia fatto ad attraversarlo incolume.
Ovviamente non senza problemi.
Nel labirinto umano mi è capitato di pestare zaini, borse, telefoni e (ne sono fermamente sicuro) ho fratturato le dita dei piedi di qualcuno.
È una scalata interminabile, ma mi rendo conto dell'effettiva impresa solamente quando arrivo in cima alla collina, fermandomi ad ammirare 200mila corna rosse che si illuminano a ritmo di musica.

Ora sul palco sono rimasti solo Angus e la sua Gibson.
Young si lancia in un assolo mostruoso mentre corre, scalcia e salta come un cavallo impazzito, anzi come un canguro (essendo australiano).
Quando Angus suona si muove contorcendosi peggio di una vecchia lucertola.

Parte "Highway to hell" e si scatena il delirio.

C'è un pogo generale che nemmeno a Tomorrowland.

Mi chiedo fino a che distanza si possa essere sentito un concerto così.
O quanto sia la sua potenza sulla scala Richter.

Brian Johnson regge perfettamente fino all'ultimo, perfino nel pezzo che (in origine) non era lui a cantare.
Stevie tiene alto il nome della famiglia Young, rendendo giustizia alla fama dello zio: ovvero la chitarra ritmica (per me) più iconica di sempre.
L'eroe invisibile della band si chiama Cliff Williams e suona il basso: le canzoni degli AC/DC non sono particolarmente difficili, si sa, ma basta un millesimo di secondo per andare fuori tempo e rovinare tutto.
Ma questo a Cliff Williams non è mai successo.
I colpi di cannone di "For those about to rock (we salute you)" chiudono i giochi e gli AC/DC salutano l'Italia per sempre, almeno per ora.

La morte di Malcolm nel novembre 2017 e il ritiro di Williams sembravano aver messo la parola fine ad una delle band più amate e seguite del rock, fino a che, nel 2020, con l'uscita di "Power up" Angus Young si dimostra possibilista sull'eventuale ritorno della band dal vivo.
Ritorno che, puntualmente, arriva nel 2023.

Chissà se Gnan tornerà di nuovo a vedere Young...

Ah sì, mi sa proprio di sì.

Ultima curiosità: nel 1976 gli AC/DC hanno dato alle stampe un album chiamato "High voltage".
Volete sapere dove mi arrampicai quel giorno per vedere meglio il concerto?

Su una centralina elettrica.

Sipario.

Alto voltaggio. Where stories live. Discover now