Capitolo 3

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Fui quasi costretto a restare a casa, ma in un modo o nell'altro, convinsi mia madre che avevo mangiato troppo dalla cugina Sally la sera precedente e che non avevo nessun tipo di virus o influenza. Avevo dieci dollari con me, pensai che bastassero. Il solito gruppetto di spacconi, di ragazzi ribelli, erano lì, nel vicolo attraverso il quale non ci passava più nessuno tranne se per cercarsi guai o unirsi a loro. Non cercavo guai, non ero uno violento. Avevo solo bisogno di calmare tutti i muscoli troppo tesi da troppi giorni che sembravano non passare mai. Certo, con un grammo di erba sarebbe rallentato ancora di più il tempo, ma almeno sarei riuscito a distrarsi per qualche ora.
«Ma guardate chi si vede!» annunciò uno del gruppo con i capelli biondi con la ricrescita castana che riconobbi quasi all'istante.
«Frankie» ridacchiò un altro, con il labret, gli occhi azzurri e un ciuffo biondo chiaro che chiamandomi con quel nomignolo mi fece rabbrividire. Sembrò averlo fatto apposta.
«Ciao Bob, ciao Mikey» mormorai schiarendomi la gola, come se avessi timore di parlare con loro. Non sapevo molto sui due ragazzi, degli altri tre ne sapevo ancora meno, ma mi bastava sapere che Bob era un rinomato pusher che era già finito nel carcere minorile un paio di volte. Doveva tutto ai suoi genitori che avevano soldi da buttare se non era dentro.
Mikey si avvicinò. «Che ci fai qui, Iero?»
«Pensavo» mi morsi la lingua «avevo intenzione di distrarmi un po', e sapevo già a chi rivolgermi, quindi...»
Bob si girò verso di me, e quasi mi spaventò il suo sguardo glaciale. «Ma hai fatto un piercing?»
Me ne ero scordato. «S-sì.»
«Frankie, sei proprio un cattivo ragazzo!» fece una risata grossa e amara, alla quale si unirono anche gli altri eccetto Mikey. Mikey non rideva mai, era sempre così dannatamente serio. Ma non lo era sempre stato, qualche anno prima lui sorrideva, era felice.
«Allora, quanto vuoi?» tagliò corto Mikey.
«Con dieci dollari quanto posso fare?»
Bob sollevò un sopracciglio. «Vieni da me con dieci dollari?»
Mi spaventai. Sembrò che volesse molto di più, e per qualche istante mi si accaponò la pelle sudando freddo. «Credevo che...»
«Frank, siamo amiconi, non dovresti nemmeno pagarmi» gli scappò un'altra risata rumorosa, e quasi mi associai, ma con la mascella tremante. Bob era strano, forse più di me. Eravamo una gabbia di matti, in quel paese.
«Ti faccio lo sconto della metà se ti unisci a noi anche domani» propose.
«N-non lo so, ho già marinato la scuola oggi, se perdo l'anno...»
«Ma che ti importa, su, bisogna provarle certe cose!»
Se venisse a saperlo mamma, pensai.
Alla fine accettai, dopotutto avevo l'occasione di spendere di meno e avere più tempo per pensare a qualunque cosa che non fosse l'episdodio di ieri sera. Bob tirò fuori un involucro bianco già pronto, evidentemente la teneva per sé. Me la porse. Era lunga sì e no sei centimetri, e io non avevo nemmeno mai fumato una sigaretta in vita mia. Immaginai il meccanismo, lo vedevo sempre fare agli altri. Mi porse anche l'accendino, e l'accesi. Mi sedetti sul marciapiede. Feci un tiro, inspirai, sentii un sapore come tabacco mischiato al senso di colpa. Mi voltai alla mia destra, c'era seduto qualcuno. Non ero ancora fatto, non dopo un tiro, vedevo ancora bene e non mi sentivo strano. Lo guardai e rischiai un altro infarto. La chioma di capelli rossi, stavolta era leggermente più lunga.
«Che stai facendo, Frank?» mi chiese con un tono quasi di rimprovero. Non risposi. Non potevo rispondere, avevo perso la voce per lo spavento. Da dove era arrivato? Perché non lo avevano salutato?
«Che stai facendo, Frank?»
La voce era un'altra. Alzai la testa e c'era Mikey davanti a me che mi guardava torvo. Lanciai un'occhiata accanto a me e il posto era di nuovo vuoto.
«N-niente credevo... credevo ci fosse mia madre» mentii. Non potevo di certo dire di essermi immaginato Gerard Way accanto a me che mi rimproverava.
«Dai, su, che è la migliore che abbia rullato in tutta la mattinata!» mi incoraggiò Bob, che maneggiava un altro involucro scoperto, pieno di materiale verde scuro, marrone e qualcosa di nero. Tornai alla mia canna. La guardai per un paio di secondi, e poi la portai di nuovo alla bocca. Inspirai, espirai. Inspirai, espirai. Lo stesso meccanismo finché non arrivai verso la fine, agli ultimi tiri, dove la cenere era vicina al filtro e mi bruciava le labbra. Era più amaro, si sentiva di più. Il battito cardiaco aveva iniziato ad aumentare, sentivo sempre meno la voglia di muovermi e di alzarmi. Un'immagine distorta davanti a me sembrava sorridermi. Guardai Mikey accasciarsi accanto a me, con le palpebre socchiuse. Aveva messo le cuffie, si stava completamente rilassando. Provai ad imitarlo, poggiando la testa sul muro rivolta verso l'alto ad osservare il cielo chiaro che si muoveva danzando davanti a me. Sembrava che il tempo volasse, e invece quando - con grande sforzo e fatica - presi il cellulare per controllare l'orario notai che erano passati solo cinque minuti. Cinque minuti.
Bob e gli altri tre sghignazzavano tra di loro e ridevano come mai avevo sentito Bob ridere. Invece Mikey si era dissociato dal gruppo, e immaginai fosse sempre così. Non avevo mai avuto la possibilità di conoscere bene Mikey, e a dirla tutta non consocevo nemmeno il suo cognome. Sapevo solo che i suoi genitori e quelli di Bob erano amici ed erano schifosamente ricchi.
Avevo sonno, ma non dormivo. Ogni tanto tremavo, ogni tanto muovevo la testa a destra e a sinsitra. Con le mani infilate nelle tasche, non avevo voglia di tirarle fuori, come non avevo voglia di alzarmi o di parlare o di vivere. Non riuscivo a ridere. Capivo cosa facevo, non lucidamente, non completamente, ma mi sentivo estremamente pesante con la testa leggera, come se improvvisamente potessi pensare qualunque cosa senza darci peso.
Pensai a Gerard Way, alla sera prima, a pochi minuti prima che mi aveva rimproverato. Non era esattamente un rimprovero, ma suonava così.
Una risata potente mi distolse dai pensieri. «Ehi, Frankie! Che te ne pare?»
Scossi le spalle, senza sapere cosa dire. O forse volevo parlare ma non ne avevo voglia. Bob rise ancora più forte, chissà come dovevo essere conciato. Notai che Mikey si era tolto le cuffie e si era alzato barcollando e con parecchi sforzi. Bob era troppo impegnato con gli altri due a sbellicarsi dal ridere per qualunque cosa.
E Gerard Way era di nuovo accanto a me. Forse stavolta era davvero un'allucinazione, magari nell'involucro ci avevano aggiunto anche qualcos'altro.
«Non abbiamo finito quella conversazione su Zafòn quella volta, comunque» mi sorrise. Non avevo la forza di alzarmi e andarmene, neanche di sentirmi spaventato. Ero così rilassato che anche uno spettro, cosa che probabilmente era, mi faceva paura. Non riuscivo nemmeno a credere di essere pazzo. Per una volta mi convinsi che non lo ero.
«Marina è da leggere» commentai, a bassa voce, per timore che mi sentissero gli altri tre, ma facevano talmente tanto baccano che nemmeno mi badavano.
«Già letto, e posso assicurarti che il finale mi ha scioccato. Come in tutti i suoi romanzi.»
Annuii. «Sai, non me l'aspettavo che facesse quella fine.»
«Cosa ti aspetti dalla vita, Frank?»
«Non si può aspettare niente dalla vita, soprattutto se non ti da l'opportunità di aspettarti qualcosa.»
Sembrò riflettere, io invece avrei preferito essere abbastanza lucido da sapere almeno cosa dicevo. Parlavo a vanvera, con uno spettro poi, davanti ad altre tre persone che se se ne fossero accorti mi avrebbero preso per pazzo, ma io non ero pazzo, lo sapevo, ne ero certo ormai. Gerard Way non era un'illusione della mia mente, non poteva esserlo.
«Vorrei darti qualcosa per cui valesse la pena aspettare l'indomani, Frank» ammise, a testa bassa. Arrossii. Feci un sorriso troppo largo. Era così bello in quel momento, innocuo, gentile, e soprattutto non ci stavo capendo niente. Quindi, che importava? Era vicino, ci parlavo.
«Vuoi tormentarmi l'anima?»
Rise, e mi trascinò con sé a ridere. «Tu credi che io non sia reale.»
«No» scossi la testa, come per evidenziare la negazione «io spero che tu lo sia.»
«E se non lo fossi?»
Aprii la bocca per rispondere, ma effettivamente non sapevo cosa dire. E se fosse stato frutto della mia mente? E se fosse stato un'allucinazione, o un fantasma? E se i fantasmi fossero esistiti davvero? Chi era Gerard Way, cos'avrei potuto fare e credere? Di certo non ero matto. Lo vedevo bene. A volte me lo immaginavo, ma non ero matto. Ci stavo parlando, ci stavo conversando.
«Se tu non fossi reale» feci una pausa, per esprimere al meglio quella marea di cose che stavo pensando «non vedo perché dovrebbe essere reale tutto il resto.»
Gli scappò un'altra risata, mettendo in mostra i denti piccoli. I suoi occhi quando ridevano erano adorabili, lui era adorabile. Avrei dato l'anima pur di avere la forza e la voglia di sfiorarlo, ma ero in condizioni pessime, e sarebbe andata avanti così almeno un'altra ora.
«Sei divertente, Frank.»
«Tu non sei morto, vero?»
Inclinò la testa in avanti, per guardarmi meglio. Mi vergognai dell'aspetto da strafatto che sicuramente avevo, ma da un lato ringraziai di avermi tenuto fermo e calmo all'incontro. «Io sono qualunque cosa che la tua mente voglia credere.»
«Tipo il mio angelo custode?»
Sorrise. Alzai la testa davanti a me, e mi si raggelò il sangue. Bob e gli altri tre mi fissavano chissà da quanto tempo. Non dissero nulla, e non dissi nulla nemmeno io. Temetti che Gerard se ne fosse andato per evitare qualche guaio, e invece era ancora lì, accanto a me, serio. Guardava i tre davanti a me. Non riuscii a guardarli negli occhi per l'imbarazzo. Magari avevano origliato e avevano pensato che fossi gay, ma non ero gay, o forse sì, o forse mi ero invaghito di un ragazzo con il quale stavo parlando.
E se fosse stato lui il problema?
Magari avrebbe potuto dire alla polizia di questo posto, di loro, e finire di nuovo dietro le sbarre. Magari sarebbe toccato anche a me. Chissà mamma se ne fosse venuta a conoscenza, che delusione. Ero una delusione di figlio.
Con una forza che mi sembrò sovrumana mi alzai dal marciapiede senza reggermi bene in piedi, e mantenendomi al muro camminai lungo il vicolo, dove verso l'uscita vidi Mikey.
«Ti senti bene, Iero?» domandò con disinteresse.
Annuii muovendo pesantemente la testa. Tirai fuori i dieci dollari. «Questi sono di Bob. Alla prossima, Mikey.»
Non ricambiò il saluto. Semplicemente camminai barcollando da una parte all'altra senza sapere dove andare. Non c'era Gerard con me, forse era rimasto nel vicolo, magari conosceva Mikey e gli altri e si era fermato a fare due chiacchere. Non andai a casa, mamma si sarebbe accorta di tutto. A fatica presi il cellulare, erano le nove e mezza, ed era prestissimo. Avrei dovuto ronzare per la città per altre sei ore, come minimo. Fortuna che l'effetto nel giro di un'ora sarebbe in parte svanito e mi sarei sentito meglio.

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