Capitolo 1 - L'antro della cenocroca

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Eravamo in viaggio da un paio di giorni, diretti al luogo indicato sulla mappa di Cil più vicino al nostro paese. Per giungervi era necessario percorrere una lunga e accidentata strada sui pendii del Monte Calcagno, tracciata da chissà quale antico popolo che aveva solcato quelle alture.

«Dovremmo esserci quasi!» disse l'Alchimista, quando già le mie gambe si lamentavano e avevamo superato molte spelonche. Proprio in quel momento però delle gocce presero a bagnare la nostra pelle, e in breve si mutarono in una gran tempesta.

«Per di qua, per di qua!» gridò Cil, «Si vede una stamberga, subito sotto il pendio! Vi troveremo riparo.»

Così, correndo tra il fango e i sassi aguzzi, raggiungemmo col fiatone un'abitazione di pietra. Riparatici sotto una tettoia, notammo due stivalacci fuori dalla porta e altri inequivocabili segni ch'essa fosse abitata.

«Bussiamo,» suggerii, «la Legge dell'Ospitalità varrà anche lontano dalla città.»

E tosto Bastonazz seguì il mio consiglio e batté con veemenza il pugno sul legno. S'udì solo la pioggia scrosciare d'intorno, e null'altro. Ci guardammo tra di noi. Bastonazz riprovò. Allora la porta s'aprì lentamente, e n'emerse un ometto tarchiato, brutto come non ne avevo mai visto uno, con gli occhi spenti e le labbra umide di bava.

«Che volete?» domandò con voce rauca.

«C'è gran tempesta, come vedete, Messere. Chiediamo di poter riparare qui, finché smetta» rispose Cil con tono cordiale.

«A fare in culo voialtri e la tempesta» rispose il brutto, quindi sputò per terra dinnanzi ai nostri piedi e tossì in un modo che sarebbe disdicevole descrivere, il qual ricordava, più che un colpo di tosse, una lunga sequela di rutti.

«Messere, noi...» stava per replicare Cil sdegnato, quando dall'interno s'avvertì una voce femminile, rauca anch'essa, ma meglio disposta:

«Bicce, non trattar male i lor Signori! Venite pure a ristorarvi, ché le tempeste durano a lungo fra queste montagne.»

Aveva parlato una vecchia tutta torta, anch'ella brutta, coi capelli sottili come spaghi e le mani nodose. L'ometto si fece allora discosto e ci lasciò entrare, emettendo un altro orribile colpo di tosse ricolmo di disprezzo.

La stamberga era piccola e sporca, con un rozzo fuoco acceso nell'angolo e un tavolaccio con due panche, dove fummo fatti accomodare. La vecchia mise sul tavolo del pane raffermo e uno stufato bigio, che, quantunque non solleticasse l'appetito, vinse la nostra gran fame. Più di tutti mangiò Bastonazz, che per portare a spasso la sua mole aveva sempre bisogno di mettere qualcosa sotto i denti.

«Vi siamo molto grati» dissi rivolto alla vecchia, che ci aveva fissati per tutto il tempo mentre mangiavamo.

Ella non rispose nulla, mentre Bicce emise ancora quei suoi cavernosi rutti, e prese a grattarsi il mento.

«Non siete i primi a venire» esordì dopo il silenzio la padrona di casa, «e non sarete gli ultimi. Noi sappiamo perché siete qui: voi ambite a conquistare la Meridiana degli Dei.»

Subito l'Alchimista rizzò le orecchie, e si rivolse a lei con interesse:

«Una Meridiana dite? Non sappiamo niente di una Meridiana... parlate di un oggetto magico?»

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