Capitolo 3: Croci Bianche

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Il sole aveva riscaldato l'aria in modo anomalo per la stagione. Accaldato in quel bus bluastro, Mark chiuse gli occhi immaginandosi in qualche isola tropicale, magari a sorseggiare un drink analcolico, finendo irrimediabilmente per addormentarsi nella sua stessa illusione.

Lo stridio dei freni lo risvegliò di soprassalto. Il pullman penitenziario si fermò per avere l'autorizzazione a passare dall'altra parte del check-in. Da quella gabbia di acciaio e sedili in pelle, la visuale sull'esterno era attenuata dalla fitta griglia di protezione. Mark si avvicinò al finestrino, curioso nel sapere dove lo stavano portando. In un miraggio in mezzo al deserto. Il pentagono cinto da una doppia recinzione di ferro e filo spinato era di fatto l'unico spiraglio di verde a distanza di miglia in ogni direzione.

Lo sguardo di Mark venne però rapito da un'area più verde delle altre. Un strato finissimo d'erba color smeraldo e fiori di campo bianchi facevano da tappeto a un grande salice piangente, il quale dominava interamente il prato curato. L'incantevole visione era però resa surreale e macabra al tempo stesso dalla presenza di un sconfinata distesa di bianche croci che, conficcate nel terreno, erano sovrastate dall'ombra dal grande albero. Non una foto o nome sopra di esse, ma solo un numero nero tatuato sulla candida lapide le differenziava le una dalle altre. Nessuno poteva più identificare il legittimo proprietario, ormai giustiziato.

«Forza! Scendi!» ordinò una voce autoritaria quando il bus si fermò all'ingresso principale del penitenziario. Barcollando, a causa delle catene ai polsi e alle caviglie, Mark scese dall'impolverato pullman, venendo immediatamente abbagliato dalla forte luce del sole.

«E così sei arrivato, Woody Allen del cazzo!» disse la guardia sbeffeggiandolo della vaga somiglianza che c'era tra lui e il noto attore.

«Veramente io sono molto più giovane di...»

«Silenzio, stronzo!» lo zittì con una manganellata dritta all'addome, facendolo cadere a terra. «Tu parli, quando ti viene detto, capito?»

«S-si... c-capito.» Mark si rialzò a fatica dal suolo impolverato.

«Adesso muoviti, il signor Direttore ti vuole dare il suo personale benvenuto.»

«Eccolo arrivato! Il famoso Mostro del Montana.» urlò sarcasticamente il direttore del penitenziario alla vista di Mark che entrava dalla porta principale, scortato da due file di guardie armate. «Prima di lasciarla nelle mani degli agenti per il "servizio completo", volevo farle fare una breve visita della sua nuova casa per i prossimi anni. Prego, mi segua signor White.»

Il tintinnio delle catene risuonava nell'enorme sala. Da una parte erano incastonate le celle dei detenuti, che marchiate da grandi numeri neri, si innalzavano fino alla sommità della struttura come un grande mosaico. Dall'altro lato, una leggera luce entrava dalle uniche finestre poste vicino al soffitto.

«La vede questa?» chiese il direttore in riferimento a una delle celle, «Questo spazio, di sei piedi per nove, è la sua nuova casa, adesso... ma ci torneremo più tardi.» Fece cenno alle guardie di spingere Mark a muoversi.

Passarono in ogni zona della prigione: la mensa, il cortile, la lavanderia, le cucine. Arrivati nell'ultima parte prevista dal giro, il viso del direttore si fece però più raggiante. «A-ah! Ecco la parte che preferisco del tour, signor White!»

Scortarono Mark in un lungo corridoio con il pavimento traslucido. Su un lato di esso vi erano due celle completamente asettiche se non fosse stato per delle piccole brande presenti al loro interno; mentre, sull'altro lato, vi erano sistemati due tavoli sui quali era presente ogni tipo di letteratura religiosa o Bibbia, messe a disposizione dei condannati. In fondo al corridoio, invece, c'era una porta spalancata, la quale permetteva di intravedere l'inquietante contenuto della stanza.

«Forza! Entra, stronzo!»

Il verde acqua, di cui erano dipinte le pareti interne, snaturava profondamente l'intera stanza, quasi a renderla meno seria. Un grande orologio a lancette era posto sul muro principale, mentre le altre pareti erano state sostituite da grandi vetri a specchio. Microfoni e riflettori erano letteralmente puntati sul vero protagonista dell'intera camera: il bianco lettino con le sue cinghie in pelle catturò all'istante lo sguardo di Mark, il quale, una volta entrato, si bloccò immediatamente.

«Lo tocchi, lo tocchi pure, signor White.» Mark fu spinto fino al lettino. «Per i prossimi anni non dovrà dimenticare mai questa sensazione. Non dovrà scordare cosa l'aspetterà alla fine del suo viaggio

Finito quel sadico tour, Mark venne portato alle docce del penitenziario per iniziare il servizio completo, come lo chiamavano lì dentro. Il puzzo di muffa e urina gli penetrò il naso poco prima che la torbida acqua  cominciasse ad uscire dalla doccia. Il tutto avvenne sotto gli occhi vigili e inquisitori delle guardie carcerarie.

«Ecco la tua cella. 996513. Ricorda questo numero perché è l'ultimo nome che avrai qui dentro.» disse la guardia sbattendo la porta della cella. Quei pochi metri di spazio erano perlopiù occupati dalla branda e dalla tazza del cesso, rendendo contemporaneamente claustrofobica e nauseante la permanenza lì. 

Mark si accasciò sulla brandina, perdendosi nella flebile luce che passava dall'unica apertura della porta. All'improvviso una voce, proveniente dalla cella adiacente, lo chiamò.

«Ehi, amico! Sei quello nuovo, vero?»

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