Let Me Get Lost In You [TaeKo...

بواسطة Hananami77

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''«Taehyung non può sposare il figlio di Jeon. Ho sentito troppe cose poco rassicuranti sul suo conto, non po... المزيد

Personaggi+Introduzione
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#Special: [Biscotti in incognito]
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[Special 3#] Buon compleanno, hyung!
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~Epilogo~
LMGLIY - FAQ

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10.9K 689 930
بواسطة Hananami77

ADV: questo capitolo tocca tematiche sensibili e sono presenti descrizioni grafiche che potrebbero urtare.







Aveva deciso, per la gioia di Kookie e soddisfazione di Taehyung, di parlare con Jungkook. 

Aveva deciso che era arrivato il momento di parlargli ed affrontare, una volta per tutte, ciò che aveva sancito la loro totale rottura e progressivo allontanamento. Gli avrebbe mostrato le conseguenze della sua codardia ed avrebbe atteso una spiegazione che -sinceramente- non gli interessava molto sentire ma che doveva concedergli.

Alzò gli occhi al cielo al pensiero delle parole di Taehyung mentre, con sguardo concentrato sulle pagine di un libro che stava leggendo, si era ritrovato a commentare il suo mugugnare con «Tutti devono avere la possibilità di spiegare. Solo se ascolti puoi capire se ne valga la pena o meno». 

E quindi aveva deciso di ascoltare.

 Ma prima di parlargli e appianare quella sorta di guerra fredda tra loro, doveva fare una cosa. Una cosa che gli era venuta in mente durante una delle sue tante notti insonni passate a fissare il vuoto con le braccia piegate sotto la testa e le orecchie piene del respirare lento e cadenzato di Taehyung. 

A tenerlo sveglio, i suoi mille pensieri contrastanti.

A Taehyung aveva detto solo una parte di ciò che aveva intenzione di fare o di ciò che la sua mente tentava di collegare con le poche informazioni che aveva a disposizione, ma le loro discussioni gli fornivano -spesso- spunti interessanti su cui riflettere. Erano arrivati, durante una delle loro sussurrate chiacchierate notturne, che fosse stato il re a far uccidere Hoseok per un motivo a loro non troppo noto ma che passava in secondo piano vista la gravità del gesto. Quel confabulare li aveva resi complici e JK si era ritrovato ad ammette che trovava rilassante ritrovarsi, prima di andare a dormire, a dialogare con Taehyung.

Trovava, inoltre, che la sua risata dovuta alla sua scocciatura verso il mondo fosse un buon diluente per quella sensazione di strana oppressione che sembrava gravargli addosso ogni volta che vedeva Taehyung sobbalzare per un gesto improvviso o per un contatto inaspettato.

E trovava piacevole la presenza di Taehyung. Averlo a fianco, avere qualcuno con cui poter mostrare il suo vero essere senza doversi filtrare era rilassante -in un certo senso.

Nonostante non fossero state poi così tante le occasioni per confrontarsi senza nervosismo da parte sua o senza i freni che Taehyung si imponeva per non scatenargli scatti di rabbia improvvisa—aveva giurato a sè stesso che non avrebbe mai più scaricato la rabbia su Taehyung, neanche se questo gliene avesse mai dato motivo perchè...non lo sapeva, ma era così.

Detestava vederlo trattenersi, detestava vederlo rimuginare così tanto sulle cose da dire da -a volte- rimanersene in silenzio per un minuto buono al fine di dosare le parole perchè c'era lui. Lo aveva visto, JK, parlare e sorridere a Jungkook con una naturalezza invidiabile, di quelle che lui non aveva mai avuto con nessuno -neanche con Woosung, a dirla tutta.

Sì, con quest'ultimo si rivolgeva in modo più spontaneo e quasi naturale ma non poteva considerare i loro incontri confronti. Erano più una sorta di incontri carnali che contenevano parole, ma non ricordava di essere mai sceso troppo nel dettaglio della sua vita o nella vita di Woosung. JK non aveva mai trovato risposta al suo dilemma sul perchè alle persone piacesse così tanto dialogare e riempire di parole vuote e voci fastidiose silenzi ben più esplicativi e sensati.

Lui non ne aveva mai sentito il bisogno...fino a quel momento.

Perchè un qualcosa era cambiato in lui. Da che non aveva sentito la necessità di voler parlare con qualcuno, a che quel qualcuno compariva nella sua vita e lo spingeva a rivalutarla completamente.  

E quei pensieri gli vorticavano senza sosta nella mente, rimbalzando da una parte all'altra della sua coscienza sin dal momento in cui aveva appreso perchè avessero chiesto il suo aiuto. Era strano che qualcuno gli chiedesse qualcosa prima di prendere, non funzionava così nel mondo in cui era cresciuto.

Di solito si prendeva e basta, non c'era spazio per la volontà altrui, c'era solo spazio per sè stessi. E lui non doveva solo fare spazio alla sua persona, doveva fare in modo che anche Jungkook e Kookie ne avessero, che anche loro potessero avere occasione di mostrarsi e di vivere. 

Sospirò e scosse velocemente la testa; il suono venne accompagnato solamente dal piccolo tintinnio dei suoi orecchini e dal fruscio del colletto della camicia che gli strofinava sulla pelle del collo. Non tornava in quell'ala del palazzo da fin troppo tempo, e non era nemmeno sicuro di sapere il motivo per cui, inconsapevolmente, aveva evitato accuratamente di tornarci. 

Ricordava di aver detto a Yoongi di portare ciò che aveva raccolto dalla tenda dove era stato tenuto Taehyung quel piccolo oggetto che gli aveva stuzzicato un ricordo -che però non era nitido abbastanza da poter essere interpretato. Ma sapeva per certo che fosse di più di una mera coincidenza, quindi lo aveva affidato a Yoongi prima di sentire di star per abbandonare la coscienza sul suo corpo in favore della dissociazione con Jungkook.

Fece una smorfia per quanto poco gli andasse di tornare in quella stanza che lo aveva ospitato veramente poche volte nell'ultimo anno e che, invece, lo aveva visto suo ospite fin troppe volte nell'arco della sua vita. Era stato però il primo luogo che gli era venuto in mente dove farglielo nascondere e doveva recuperarlo per poterne parlare con Taehyung. 

Magari poteva spiegargli dove lo avesse trovato e perchè lo avesse dentro lo stivale. 

La porta scura si stagliò di fronte a lui in tutta la sua tetra maestranza, la sua lucentezza risultava così disturbante da riflettere il piccolo riverbero di luce delle lampade a parete i cui bagliori creavano linee astratte che non lo lasciarono indifferente.

Un senso di strisciante oppressione gli si attecchì alla bocca dello stomaco; una sorta di brivido freddo si diramò da questo grumo nervoso e si espanse in ogni estremità fino a che non sentì le dita essere preda di un lieve e fastidioso formicolio. Le mosse velocemente e piegò il capo di lato, la lingua schioccò contro il palato e cercò di scrollarsi di dosso quel turbamento che non gli apparteneva. 

Sperava -anzi, doveva- placare con nervosa e stressante costanza emozioni e sensazioni fin troppo strane e sopraffacenti. Alcune risultavano positive e piacevoli abbastanza da assecondarle, che lo portavano -per esempio- a sentire il bisogno di carezzare i capelli di Taehyung mentre questo dormiva tranquillo al suo fianco, ma altre...

Altre non lo erano affatto

Però erano facili da accantonare, in particolare perchè ci pensava la sorpresa di nuove, piccole sfaccettature del carattere pacato, costante, irritante, testardo ed equilibrato di Taehyung a placarle. 

Non era male, dopotutto.

Come non era male svegliarsi abbracciato a Taehyung con il volto premuto contro la sua nuca ed una gamba tra le sue, per esempio. Al mattino si concedeva sempre qualche minuto di libertà prima di allontanarsi a velocità allo svanire del torpore del sonno ringraziando ogni Dio esistente di averlo fatto svegliare prima di Taehyung. 

Però, quel caldo confortante che neanche le coperte fornivano e che invece era dato dalle loro mani strette in una sorta di saldo abbraccio incosciente lo lasciava sempre sorpreso, quasi affascinato da quella sensazione da convincerlo a rimanere qualche attimo in più del necessario in balia del suo torpore.

Non amava particolarmente il contatto fisico nonostante non avesse alcun tipo di problema ad essere toccato da estranei -a differenza di Jungkook- ma c'era un qualcosa nel tocco di Taehyung che era diverso. In che misura non lo sapeva ancora, ma spesso si infastidiva di quei pensieri che gli pizzicavano la mente come un tarlo. 

A volte, per potersi dare del contegno, si rivolgeva con tono volontariamente scostante verso un ignaro Taehyung, che però era così tanto abituato al suo essere lunatico da non prestargli troppa attenzione.

Sbuffò e grugnì, passandosi una mano tra i capelli. Si sentiva un idiota a raccogliere i pensieri mentre se ne stava piantato davanti quella cazzo di porta di quella stanza che li aveva ospitati la sera della loro prima notte di nozze -la stessa dove si portava le sue sveltine reali o le sue conquiste di una sera alle serate di gala, per altro. 

Era stata usata con persone di nessuna importanza nè valore, eppure...l'aveva usata con Taehyung.

Se aveva trovato divertente l'idea di portare la piccola cotta di Jungkook in quella stanza, non era sicuro che continuasse a trovarvi lo stesso divertimento nè che volesse riprovare quello stesso divertimento che, fino ad un anno prima, lo inebriava come forse solo l'alcol riusciva.

Quel ricordo sembrò quasi prendere forma e posarsi con pesantezza sul suo petto; una presenza così ingombrante, così opprimente che lo costrinse a prendere una profonda boccata d'aria a labbra spalancate. I polmoni non sembrava si stessero dilatando a dovere, non sembrava neanche troppo capace di respirare in realtà, ma continuò a ripetere il gesto fino a che il risultato non fu soddisfacente abbastanza da convincerlo che stava bene.

Deglutì un paio di volte per quanto fosse secca la sua gola e se la schiarì rumorosamente.

Perché stava in quel modo?

Allungò una mano verso la maniglia e la guardò a sopracciglia aggrottate per quanto gli tremasse, quindi la scrollò diverse volte con furia e, poco dopo, la schiaffò sulla maniglia con rabbia come si accorse che no -cazzo- non era tornata stabile come sempre.

Spalancò la porta e la prima cosa che i suoi occhi incontrarono fu il letto a baldacchino, le cui colonne tortili in legno di noce -di un'intensa tonalità scura- brillavano sotto gli sbuffi soffusi delle lampade. Si richiuse la porta alle spalle con un calcio e scandagliò l'intero spazio con occhi attenti ed indagatori, un pò come se la stesse vedendo per la prima volta.

Un brivido freddo passò sulla sua schiena e si schiantò come una saetta sulle sue tempie, costringendolo a serrare gli occhi e reggersi contro quella attendendo che il dolore pulsante ed intenso svanisse da solo. Si portò le dita alle tempie e le massaggiò circolarmente come faceva quando era vittima di quelle emicranie dovute al loro alternarsi e scrollò il capo.

Forse erano i colori scuri ad opprimerlo?

Forse era tutto quel nero?

Lenzuola, tendaggi, veli del baldacchino, tappezzeria delle poltrone, tutto colava di quel nero che sembrava stesse strisciando proprio verso di lui e che, come un'ombra, gli stesse risalendo sulle gambe e lo stesse stringendo per ancorarlo al pavimento. Solo alcuni sprazzi argentati coloravano quell'oblio come stelle cadenti dentro il vuoto baratro in cui gli sembrava di stare per cadere.

Strinse i denti ed imprecò a mezza voce, sibilando e muovendo il collo e le spalle per darsi una compostezza tale da arrivare -pericolosamente instabile- verso la cassettiera. Poggiò una mano sulla parete e le dita sbiancarono per la pressone esercitata sul muro; la testa ciondolò verso il basso, le gambe divennero pesanti e si sentì quasi soffocare.

Se prima il peso che sentiva sul petto era parso gestibile, in quel momento si era come centuplicato e stava iniziando a schiacciarlo. Impose alle sue spalle di non piegarsi, al suo corpo di non crollare e rialzò il volto diretto al primo cassetto dell'arredo. Lo aprì di scatto ed iniziò a frugarvi dentro con mani instabili, spostando tutto confusamente e gettando a terra alcuni capi di cui non riconosceva nemmeno la sagoma. L'oggetto della sua ricerca si stagliò come una luce in un tunnel e lo afferrò velocemente, nascondendolo nella tasca -che tastò un paio di volte per assicurarsi che fosse al suo posto.

Deglutì a vuoto, percependo la sua incapacità di respirare correttamente, iniziò a prendere corti e fugaci respiri che non saziavano il suo bisogno di aria ma che erano sempre meglio di non respirare.

Perchè sapeva che se avesse smesso di prendere quelle piccole boccate d'aria, allora sarebbe annegato in quella bolla che lo stava inglobando, poco per volta, in un mortale e tristemente familiare abbraccio. Tossì e si diede dei colpi sul petto come se avesse qualcosa incastrato in gola e gli occhi si allargarono appena, perdendo subito dopo il focus sul tappeto pregiato che adornava il pavimento -anch'esso lucido e simile ad una marea che lambiva le sue membra prima di inghiottirlo.

Si poggiò con la spalla al muro e strizzò gli occhi, portando una mano su questi per cercare di ancorarsi a quel minimo di razionalità e controllo che gli stava rimanendo; la fronte si velò di sudore, rapide goccioline scivolarono sulle sue tempie e dai suoi capelli, tracciando sentieri lucidi fino al colletto della camicia. 

Un rantolo non troppo rassicurante gli scivolò dalle labbra ed il suono del suo cuore -assordante e rumorosamente palpitante- attutì l'ansimare pesante e affaticato che, invece, riempiva la stanza.

I suoi polmoni ingabbiati smisero di dilatarsi a dovere ed il respiro si perse in una sorta di veloce crepitio agonizzante.

«Fermati, per favore. JK, non farlo, non farlo—ti prego».

Una voce nitida, chiara, spaventata e quasi supplicante echeggiò nelle sue orecchie come se glielo stesse mormorando direttamente sul viso; un tono vago ma conosciuto, una cadenza familiare, delle parole troppo simili per essere frutto di una semplice immaginazione.

Sbattè velocemente le palpebre e sentì le gambi instabili, così tanto che si addossò interamente contro il muro e reclinò il capo contro questo. Un tremore che sembrava essergli partito dall'anima, tanto lo sentì radicato e profondo, lo colpì e le gambe gli cedettero di botto; per questo, si ritrovò a scivolare contro la parete fino a trovarsi seduto con la testa tra le ginocchia, ad occhi chiusi e labbra spalancate per cercare di prendere immense boccate d'aria inesistente.

Provò a respirare, ma non ci riuscì. 

Qualcosa gli stava ostruendo la gola e il suo primo impulso fu quello di portarsi le mani che, dannazione, tremavano troppo violentemente sui bottoni del colletto per cercare di allentare quella stretta asfissiante. 

Le dita scivolarono e persero la presa diverse volte sul tessuto fino a che non riuscì a sbottonarsela con un rantolo spezzato e un respiro troncato sul nascere. Alcune cuciture saltarono mentre si allargava i lembi della camicia per liberare la sua gola ed il suo petto da quella morsa troppo stretta che gli stava quasi facendo male. 

«No, JK. No, per favore—».

Di nuovo, come se qualcuno gli avesse appena dato una pugnalata alle tempie, quella frase -più nitida della prima- echeggiò nella sua memoria accompagnata da un tono roco e conosciuto a cui si associò un volto distorto dalla paura e dal terrore.

Quegli occhi cerulei che avrebbe saputo riconoscere ovunque erano sgranati, le sue labbra erano smorfie impaurite, i suoi lineamenti erano tesi e spaventati.

Da lui. 

Perchè c'era solo lui in quella stanza.

«JK —ti prego, smettila».

Lo stava implorando di smetterla, lo stava supplicando di finirla, di lasciarlo, di non deturpare la sua normale compostezza con quello. No.

No, non poteva essere lui quello a stravolgere la sua espressione contenta per sostituirla con una maschera spezzata e distrutta come la sua. 

No.

No, doveva salvarlo.

Doveva salvarlo da lui.

No, non doveva succedere anche a lui. 

No.

«Smettila» sibilò con voce spezzata e tirata. Il suono era stato simile ad una sorta di velata minaccia mista ad una disperazione che adesso lo aveva portato a respirare affannosamente e a scuotersi la camicia per poter prendere aria.

Cercò di dire altro ma ciò che riuscì ad articolare fu un farfugliare indistinto e completamente sconnesso che si perse tra un ansimo e l'altro. Un nervoso ed una rabbia verso sè stesso gli incendiarono le vene perchè, dannazione, stava succedendo ciò che non doveva succedere. Stava annegando nei suoi stessi abissi e stava perdendo il controllo.

Il controllo, l'unica cosa che gli garantiva l'integrità -fisica e morale- gli stava scivolando via dalle dita come se non gli fosse mai appartenuto. Lo stava abbandonando, anche lui, per andare via e lasciarlo da solo in quella sorta di limbo la cui via d'uscita non era ancora stata trovata.

Cercò di mettere a fuoco qualcosa, di trovare un appiglio non solamente fisico su cui fare affidamento per potersi riprendere ma riuscì a distinguere nitidamente solamente il letto. 

Quell'enorme, gigantesco letto che lo fece colpire da un'altra tempesta di emozioni, stavolta così negative e potenti da mozzargli il fiato e atterrirlo perchè una scena gli si presentò davanti agli occhi più vivida che mai.

Un suono indistinguibile, soffocato e agonizzante gli uscì dalle labbra e si appiattì contro il muro come un'altra scena- vivida come se l'avesse appena vissuta, reale come se lui fosse ancora lì a toccarlo e a stringerlo- si presentò al suo cospetto.

Le immagini si sovrapposero e le voci si mischiarono, agghiacciandolo tanto da sentire le orecchie fischiare e il cuore esplodergli in brandelli sanguinolenti e dolorosi.

August.

Lui.

Taehyung.

Di nuovo lui.

E poi, ancora. 

August lo cercava.

Lui dava la caccia a Taehyung.

August lo strattonava per i polsi.

Lui strattonava Taehyung.

August lo feriva.

Lui feriva Taehyung.

August godeva nel vederlo dimenarsi e piangere.

Lui—

«No», mimò con la labbra violacee e tremanti. La gola si serrò, le mani strinsero convulsamente il tappeto sotto di lui, le sopracciglia si arcuarono e la testa sembrò quasi iniziare a muoversi da sola, oscillando in diniego come se non stesse davvero rivivendo quelle cose.

No, non era lui.

Non poteva essere lui. 

«Fermati, per favore. JK —non farlo, non farlo— ti prego».

«Fermati—fermati, Mr Soyun. Non farmelo di nuovo, ti prego!».

«No, JK. No— per favore».

«Basta, smettila!»

«JK, ti prego, smettila!»

«Mr Soyun, non farlo...lasciami!».

In una sorta di macabra sequenza fotografica, scene, immagini, momenti, parole, frasi, lacrime, disperazione e orrore si accorparono insieme e iniziarono a susseguirsi a ritmo incessante, lasciandolo agonizzare nel proprio sgomento e nel suo stesso disprezzo. Di nuovo, mani, urla, atti che non voleva ricordare, eventi che voleva rimuovere, gesti che non avrebbe mai voluto compiere, ferite che non avrebbe mai voluto lasciare, cicatrici che non credeva fossero ancora sanguinanti— lo distrussero. 

Una nausea improvvisa lo colpì con prepotenza, le budella gli si attorcigliarono come anguille dentro lo stomaco, agitandosi e costringendolo ad uscire dal quell'incubo per provare ad issarsi.

Come lo fece, le gambe gli cedettero e ricadde sulle ginocchia; il tonfo baritono della sua caduta rimbalzò sulla moquette e riecheggiò attorno a lui, e quindi non gli rimase altro che strascinarsi facendo leva sulle braccia e dandosi la spinta con le gambe per raggiungere il bagno -poco lontano. 

Il suo corpo non stava reagendo come doveva, come gli aveva imposto, come era giusto.

Era fuori controllo, stava metabolizzando da solo tutto quello che gli era successo, non stava controllando cosa pensare, come agire, cosa fare...era solo vittima di una corrente troppo forte da domare e quasi invincibile.

E gli stava servendo, quella sorta di autodistruzione che si era imposto, perchè se lo meritava.

Perchè lui era un mostro.

Avevano avuto ragione in passato. 

Lui era un mostro, un degenerato, un abominio.

La bile gli risalì alla gola, l'acidità gli corrose la carotide ed infettò le papille gustative e con un ultimo slancio di forza -l'ultimo brandello che era riuscito a salvare dalla sua distruzione- si aggrappò al water appena un tempo perchè un conato lo scuotesse. 

Le budella gli si attorcigliarono, si strinsero, si dimenarono e lo fecero rimettere; il suo corpo, insieme al suo animo e alla sua mente, urlava disperato, dilaniato e distrutto in brandelli irrecuperabili di attimi di vita persi e di azioni brucianti.

Era stato un mostro.

Era diventato come lui.

Come quell'uomo che lo aveva ferito, che lo aveva toccato come non doveva, che lo aveva lasciato spesso agonizzante tra le sue lenzuola sfatte. Lui era diventato un mostro di egual misura e spessore ed aveva agito in quel modo contro una persona innocente, una persona che non aveva alcuna colpa, che non era stata altro che una vittima.

Taehyung aveva passato ingiustamente ciò che nessuno avrebbe dovuto mai vivere, aveva trascorso le giornate a ricucire le sue ferite per sperare che smettessero di purgare, e l'idea che fosse stato in grado di deturpare così tanto qualcuno lo portò a rimettere ancora.

Tossì convulsamente ed artigliò saldamente il water. Lo schifo, lo sdegno, il ribrezzo nei confronti di sè stesso era asfissiante e dilaniante perchè era stato cieco.

Non aveva guardato oltre il suo naso, non aveva considerato che l'altro fosse qualcosa di più di un pezzo di carne con gli occhi, che non era giusto infliggere quella sorta di dolorosa realtà a qualcun altro per sentirsi meno soli.

Il petto gli bruciava, la gola era in fiamme, gli occhi erano strizzati e suoni riprovevoli facevano da colonna sonora ai suoi pensieri incessanti. Gli giravano confusamente attorno, lo perseguitavano come il peggiore dei mostri- anche se lui era l'unico mostro in carne ed ossa.

Quando lo stomaco si svuotò completamente e gli rimasero solamente i riflessi faringei, JK crollò di lato sul pavimento e si poggiò agli avambracci. Le spalle gli tremarono, si scossero come foglie frustate dal vento e tirò rabbiosamente un pugno al pavimento uno, due, mille volte fino a sentire l'arto bruciare.

Seppellì il volto tra le braccia e la trattenne stretta per quanto gli pulsasse. 

Non voleva essere di nuovo così fragile, non voleva essere ciò che era.

«Smettila!» si urlò, dandosi un pugno sulla tempia per bloccare la sua mente.

«Sei proprio mansueto stasera».

«JK, ti prego—smettila».

«Basta!» gridò di nuovo, stringendo i capelli tra le dita pallide e sudate. Le ciocche corvine spuntarono a ciuffi e le tirò, strattonandole con forza perchè sperava che così facendo, anche i suoi pensieri venissero sradicati via e le voci messe a tacere.

In ginocchio sul pavimento, sentì il mondo crollargli addosso; tutto ciò su cui aveva lavorato -da solo- per anni ed anni era stato annientato in un'unica volta e le macerie che componevano i suoi invisibili e spessi muri sembravano giacergli addosso e schiacciarlo. 

Una tremendamente familiare sensazione di bagnato si posò sulle sue guance e lo fece bloccare sul posto; il cuore rampante pompava dolorosamente dentro il suo petto, così violento che un dolore sordo gli si propagò sul costato e gli serpeggiò tra i nervi intaccando la sua precaria stabilità.

Ma non poteva lasciare che i suoi occhi osassero così tanto.

No, non poteva.

Strinse i denti e sì issò reggendosi al water, scaricando con mani instabili e scivolose; a spalle ricurve, ciondolò mollemente verso il lavandino lì dove uno specchio pendeva dal soffitto e rifletteva la sua miserabile figura.

Si poggiò al lavandino, le dita strinsero la ceramica lucida ed i polpastrelli sbiancarono del tutto; un gemito strozzato, un singulto accennato e soffocato dal morso al labbro inferiore che si era appena dato fu tutto quello che seguì quel suo rantolare. JK strizzò gli occhi e scosse con furia e tenacia la testa perchè quello non era lui. 

Non era lui, non era lui quella persona. 

E come un vessatore senza scrupoli, così la sua mente decise di infliggergli -ancora una volta- una sferzata che lo portò a disintegrarsi. Arrancava nel vuoto dei suoi pensieri e si affannava per trovarvi una via d'uscita ma niente era così preponderante nella sua abbietta vita da riuscire a farlo ritrovare. 

Si era perso, e non aveva più un motivo per ritrovarsi. 

«Tu sei tutto ciò che io voglio tu sia. Se ti dico di essere nulla, tu sei nulla. Se ti chiedo di essere un cane, tu agirai come un cane, e se ti chiedo di inginocchiarti, tu ti inginocchi».

L'ombra di quella che doveva essere la sua voce- ma che sembrava quella di uno sconosciuto torturatore di persone innocenti. Lo rendeva il mostro che era e quelle parole gli vennero sibilate nell'orecchio con cattiveria.

Quella era la sua voce, ed aveva dato vita a quelle parole altrettanto mostruose.

«Succhia».

«Ingoia».

«Sei proprio una brava puttana».

«Sei proprio un bravo principino».

«Da bravo, ingoia».

«La tua boccuccia è nata per succhiarmelo».

«Il bianco ti dona».

«Il bianco è come oro su di te».

JK gridò.

Il suo urlo fu una sorta di agonizzante richiesta di aiuto che non veniva colta da nessuno, che nessuno poteva cogliere perchè lui era solamente una mostruosa creazione di una mente fragile e annientata dalla cattiveria e dalle sevizie. E come tutte le agonie, logoravano fin dentro l'anima per cibarsene e consumarla fino a farla sparire, fino a rendere tutti mere ombre della propria persona. 

Il tempo non gli aveva risanato alcuna ferita, non aveva richiuso nessuno squarcio e non gli aveva bloccato alcun sanguinamento; il tempo, nella sua forma più astratta e vuota, gli aveva solo insegnato come sopravvivere nonostante il dolore, nonostante si sanguinasse, come resistere pur volendo lottare.

O come vivere pur volendo morire.

Serrò gli occhi e si scompigliò i capelli.

«Non so se riuscirò mai a perdonarti».

Quanto potevano fare male quelle parole? Quanto potevano dare il colpo di grazia alla sua esistenza? 

Ma come poteva biasimarlo?

Taehyung non poteva perdonarlo.

Come poteva dimenticare cosa gli era successo? Cosa lui gli aveva inflitto? Come si poteva perdonare un mostro come lui, stargli vicino ed accettarlo?

E allora, se l'unica persona che era rimasta nonostante tutto aveva detto di non poterlo perdonare, che senso aveva tutto ciò che stava facendo? Chi altro si meritava il suo tutto se non l'unica persona a cui non aveva dato niente?

Alzò il viso di scatto ed il suo riflesso lo guardò di rimando; nelle iridi lucide, un profondo senso di odio e disgusto.

JK si odiò.

Odiò vedere i suoi occhi azzurri carichi di lacrime, i suoi capelli lunghi spettinati in quel modo; odiò vedere i suoi zigomi pronunciati bagnati di rivoli trasparenti che continuavano a crollare come la pioggia durante un burrascoso temporale notturno.

Era un temporale che non si voleva arrestare perchè le lacrime silenziose nascondevano il dolore più profondo.

«Non piangere! Non piangere, cazzo!» esclamò con disappunto, arcuando le sopracciglia come vide che quelle infime bastarde goccioline trasparenti non la smettevano di colare sul suo viso chiazzato di rosso. 

«Non piangere, codardo!» si urlò allora. Lo schiocco dello schiaffo che si tirò con potenza sulla sua guancia destra non fu sufficiente a placare il suo singhiozzo nè terrorizzò sufficientemente sè stesso da poter vedere quelle fottute lacrime andarsene.

Erano ancora lì, a scendere dai suoi occhi.

«Smettila di piangere, inutile essere! Smettila di piangere! Solo i deboli piangono!» gridò di nuovo, dandosi un altro schiaffo.

«Perché cazzo piangi? Che debole sei?» sbraitò incollerito, non capacitandosi della sua debolezza.

Strinse convulsamente il lavandino tra le dita e un lampo d'ira lo incendiò.

Tirò un pugno contro lo specchio con tutta la forza che possedeva, il rumore cristallino ed acuto della sua crepatura seguì al suo urlo di frustrazione, rabbia, dolore, angoscia e sofferenza, il sangue iniziò a macchiare di sbuffi vermigli quei frammenti luminosi e le crepe -così dannatamente simili alle sue- si diradarono velocemente verso gli estremi.

E come lui aveva provato a ricomporsi, anche le schegge luminose provavano ancora a brillare e adempiere al loro ruolo, rimandandogli l'immagine della sua figura spezzata. E in quel momento -proprio quella- era la sua reale forma.

Sentiva la pelle ferita bruciare, il sangue colava dai suoi superficiali tagli in altre lacrime, stavolta scarlatte.

Era la giusta punizione per ciò che aveva fatto, per ciò che aveva permesso a sè stesso di diventare.

Ritirò la mano e guardò le sue nocche ferite. 

Non era abbastanza. 

Non era abbastanza, non era grave come ciò che aveva fatto, ed un impulso di pulirsi, di purificarsi da quella sporcizia che gli aveva permeato la pelle lo portò a fissarle per intensi attimi.

Quelle mani le odiava; le guardava come se non gli appartenessero, le guardò e vi rivide tutto ciò che aveva fatto a Taehyung. 

Lui.

Tutto era mosso da lui, tutto aveva iniziato ad avere senso ed equilibrio anche grazie a lui e cosa aveva fatto? Lo aveva schiacciato.

Meritava che gli venisse strappato via tutto, perché lui non meritava niente.

Lui, che credeva di meritare tutto, meritava meno degli altri.

Le sue mani gli fecero schifo, altre lacrime gocciolarono sui suoi palmi e si mischiarono ai sentieri vermigli, e doveva togliere via quelle macchie che deturpavano ancora la sua pelle che non se ne erano mai andate e che lui si era procurato da solo.

Si guardò intorno con fare frenetico, cercando con gli occhi qualcosa che poteva adempiere a quello che stava pensando.

Afferrò il bicchiere in vetro e lo lanciò per terra, chinandosi su un ginocchio per raccogliere, con occhi concentrati ma completamente persi, le schegge ed i frammenti taglienti. Li strinse tra le mani e si rialzò, iniziando a strofinare i palmi tra loro stando attento affinchè ogni singolo frammento vi si strofinasse con dolorosa perfezione.

Quelle schegge iniziarono lentamente e grossolanamente a lacerargli la pelle; le sentì affondare nella sua carne, mischiarsi alle sue ferite e allargare i tagli che si stava procurando, donandogli un nuovo senso di equilibrio che si espanse alla vista del quantitativo di sangue che aveva iniziato a colare sul pavimento. Suoni agghiaccianti seguirono un veloce e continuo tintinno di sangue che, goccia dopo goccia, picchiettava sulle piastrelle, il suo respiro esagitato non era nulla rispetto allo sdegno.

Bruciavano, facevano male, sentiva le mani chiedere pietà, il calore invadergli le dita ma non aveva intenzione di fermarsi.

Doveva togliere quella sporcizia.

Doveva mandarla via.

Doveva cacciarla.

Doveva scrollarla.

Doveva—

«JK..?!».

Gelò.

Non se l'era immaginato, vero?

Non aveva immaginato qualcuno che chiamava il suo nome in un sussurro sconvolto, vero?

Le spalle gli tremarono, le mani strinsero più forte i cocci fino a sentirli prendere posto dentro la carne e si voltò con estrema lentezza verso quella voce.

Ad occhi spalancati e allarmati, Taehyung era fermo sulla soglia della porta del bagno che osservava la scena senza capirne la dinamica. Era stato avvertito da alcune donne della servitù che avevano sentito urlare e, nel momento stesso in cui glielo avevano detto, si era precipitato in quella stanza che odiava ma che -inspiegabilmente- stava ospitando JK.

I loro occhi sembrarono incatenarsi e vide le lacrime ancora incastrate tra le ciglia di JK, alcune di queste crollarono sulle sue guance con silenziosa agonia ed il suo respiro si mozzò.

«JK, cosa ti è successo?! C-cosa—» esalò Taehyung osservando lo scempio che era diventato quel bagno e quanto stentasse a riconoscere JK. Preoccupato, il suo primo istinto fu quello di avvicinarglisi per potergli prestare aiuto e capire cosa fosse successo ma si bloccò sul posto come JK fece un passo indietro.

Stava...mettendo distanza tra loro?

«Stammi lontano. Non osare avvicinarti a me». 

Nonostante volesse risultare duro e severo, la voce era arrochita dalle urla e dal pianto, risultando solo l'eco di ciò che era di solito il suo tono. Taehyung deglutì e sentì il cuore perdere un battito; il suo impulso era quello di correre verso di lui e vedere da vicino cosa stesse stringendo JK tra le mani così forte da creare quella pozza di sangue ai suoi piedi e sentiva il colore del suo viso svanire per quanta preoccupazione stesse sentendo dentro.

«No. Non esiste che io ti stia lontano. Soprattutto adesso» gli rispose con tono basso ma perfettamente udibile. Impossibile era nascondere la sua angustia e apprensione verso le condizioni di suo marito.

JK scosse la testa, negando e facendo per allontanarsi di nuovo. Non sapeva neanche lui cosa stesse facendo, non aveva più il controllo sulle sue azioni o sul suo corpo da già troppo tempo.

«Non ti avvicinare, Taehyung. No—non farmelo ripetere» tuonò, imperativo.

Taehyung strinse i denti e aggrottò la fronte. I suoi occhi minacciavano di tradire quanto desiderasse sciogliersi in lacrime ma, se si concentrava su ciò che stava succedendo, le sue emozioni e le sue sensazioni potevano essere messe in secondo piano. 

JK aveva bisogno di qualcuno e lui non si sarebbe voltato dall'altra parte. Tutto, ogni singola cellula del principe stava gridando disperatamente aiuto e non lo avrebbe lasciato in balia di quel qualcosa che lo stava logorando dall'interno.

«M-ma perché...io—JK, per favore, lasciami avvicinare».

Quella quasi supplica venne surclassata da JK, il cui unico pensiero era quello di non doverlo avere vicino.

«Non devi avvicinarti perché è sbagliato!» gli urlò contro, detestando la sua incuria nel non capire.

Perché non capiva?!

Perché diamine non capiva?!

«Perché sono stato proprio come quel mostro! Tu—Io sono un mostro, non puoi volermi stare vicino, non voglio la tua pietà!» gliele avrebbe urlate quelle parole se solo la voce non gli si fosse spezzata e le lacrime rispuntate e crollate dai suoi occhi adesso sciolti in un fiume che non si arrestava.

Taehyung atterrì e schiuse le labbra per lo sbigottimento, attonito da ciò che gli stava sentendo dire. Vide le mani strette ancora da loro tremare violentemente, una sorta di spaurita emozione distorceva i lineamenti di JK, il cui comportamento non risembrava neanche lontanamente quello della persona che lui conosceva.

Non aveva mai visto gli occhi di JK allargati in quel modo, con le pupille così dilatate da divorare l'iride e lasciare che di questa non rimasse altro che un sottile anello; non aveva mai visto le sue spalle scuotersi così tanto, non aveva mai visto le sue mani tremare e -come ricaddero ai lati del suo corpo- notò fossero interamente deturpate da profondi squarci corti e frastagliati da cui spuntava la carne viva e...vetro?

«No. Non me ne vado. Non ho intenzione di andare da nessuna parte o di starti così dannatamente lontano» sussurrò Taehyung. 

JK prese un respiro tremulo. «Non ti avvicinare. Non farlo».

«Tu non sei un mostro, JK. Non lo sei». Dicendo quello, Taehyung fece un passo verso di lui e osservò JK allontanarsi fino a che la schiena non gli toccò il muro. Vi poggiò contro i palmi e sobbalzò per il dolore atroce che gli stava risalendo fino alle spalle, ma niente era sufficiente per poter punire quelle sue azioni che non voleva credere di aver davvero commesso.

«Ti ho fatto le stesse cose che lui faceva a me. E lui era un mostro» ragionò come se fosse ovvio, ed anche se il cuore di Taehyung ebbe un altro tuffo e quasi affondò negli abissi della tristezza, negò con un deciso cenno del capo.

Taehyung aveva capito. Aveva finalmente capito cosa stava tormentando così tanto JK da spingerlo a fare quelle cose completamente fuori da ogni logica e a deturparsi in quel modo i palmi delle mani.

Prese un profondo respiro e fece un altro passo verso di lui, non abbassando gli occhi neanche per un istante. «JK, basta. Ne riparleremo, ti giuro che lo faremo, ma non adesso. Adesso—ti prego, lascia solamente che ti aiuti». 

Vedere suo marito cedere, allentare la presa e guardarlo senza sapere cosa fare...gli fece male. I veri mostri contro cui JK aveva lottato avevano perseguitato Jungkook per anni, ma lo stavano ancora logorando.

E lui non poteva permetterlo, non a quel punto della loro vita -e relazione.

JK lo aveva ferito e aveva abusato di lui, non se ne sarebbe mai dimenticato e la gravità dei suoi gesti non sarebbe mai finita nel dimenticatoio perchè impossibile, ma non poteva -non poteva- permettersi il lusso di non considerare tutto nel suo doloroso complesso.

E anche se quelle ferite bruciavano ancora... lui amava quell'uomo.

Lo amava dal profondo del suo cuore e non poteva starsene a guardare, come avevano sempre fatto tutti, mentre JK cadeva a pezzi e considerava sé stesso un mostro. Era stato un bastardo, uno stronzo, un violento buzzurro, ma non era un mostro anche se aveva fatto cose orribili.  Taehyung non poteva permettere che ciò che era stato sradicato via con pazienza da Jungkook affondasse adesso le sue radici in JK, la cui maschera e il cui scudo erano crollati come vittime di un terremoto e che adesso giacevano a brandelli ai loro piedi. 

E adesso stavano mostrando quanto ferito, spaventato e squarciato fosse quell'alter dall'apparenza infrangibile.

Non poteva non considerare i trascorsi che JK aveva, non potevano essere ignorati gli scenari orribili ed agghiaccianti che avevano sempre e solo costellato la sua vita. Non poteva dimenticare che la prima cosa che JK aveva visto non appena venuto al mondo, erano stati occhi cattivi; che la prima cosa che aveva sentito sulla sua pelle erano mani nodose e violente; che la prima voce che avesse udito, gli aveva sussurrato parole oscene e malate.

Taehyung fece scivolare dai suoi occhi le lacrime che non riusciva a trattenere e lasciò che JK le vedesse e sapesse di non essere da solo.

Perchè non lo era.

Non più.

«Non sei un mostro. Non lo sei JK, non sei un problema, non sei niente di tutto ciò che gli altri ti hanno detto in passato. Io non ti considero tale, non potrei mai farlo e non inizierò a farlo adesso. Sei tante cose, ma non di certo ciò che mi stai dicendo...Sei diverso da ciò che dicono, ed io lo so perchè lo vedo».

«Sbagli. Come puoi starci vicino? Come puoi—come hai fatto ad amare qualcuno le cui mani ti hanno fatto quello?».

Il tono contorto da una profonda malinconia e dolore era niente a confronto di quanto tormento si agitava nei suoi occhi scuri e arrossati, ma Taehyung si accorse di quanto poco lucido fosse JK.

E si ricordò.

Si ricordò di cosa gli avesse detto il dottore una di quelle poche volte in cui erano riusciti a dialogare pacificamente senza che uno tentasse di estrapolare informazioni e l'altro di non lasciarsi sfuggire troppi dettagli.

Lo stress mentale dei pazienti la cui psiche era così delicata era deleterio per la loro stabilità e il loro benessere. E di avvenimenti che avevano avuto modo di turbare JK -ma anche Jungkook- ne erano successi fin troppi per pretendere che tutto procedesse nello stesso modo.

La morte di Hoseok era stata la sferzata finale, le cui conseguenze erano state più gravi di quanto ci si aspettasse. Tutto quello che JK stava facendo, ciò che stava dicendo ed il suo stato di completa estraniazione dalla realtà lasciava intendere che il suo fosse un crollo psico emotivo di un certo spessore e di una certa entità. Eppure...

Eppure, solo in quel preciso istante sembrava avesse seriamente realizzato cosa fosse successo la prima notte di nozze di un anno prima.

Era un po' come se JK stesse acquisendo la consapevolezza delle sue azioni solo dopo essere arrivato a toccare il punto più basso e oscuro del baratro.

E Taehyung era disposto a tendergli la mano da afferrare per riemergere.

Ma mentre JK leggeva nei suoi occhi carichi di lacrime inespresse il desiderio di potergli stare vicino, i pensieri del principe stavano velocemente virando verso un altro personaggio a cui doveva le sue più profonde scuse.

Le sue richieste di perdono dovevano essere anche verso Kookie.

Kookie. Kookie, mi dispiace. Perdonami biscotto, ti prego.

L'aveva iniziato a ripetere come un mantra ed anche se le parole sembravano solo echeggiare tra le pareti silenziose ed assordanti della sua mente, sperava che giungessero a Kookie e che questo lo perdonasse.

Kookie lo considerava il suo eroe, l'esempio da seguire, il cavaliere senza macchia delle fiabe, il principe buono che lotta contro i mostri.

Ed invece lui faceva parte dei cattivi.

Hyung?! Hyung! N-non piangere! Perché piangi? I-i mostri s-sono tornati?! esclamò Kookie, in panico.

JK non separò gli occhi da quelli di Taehyung ma quest'ultimo vide le iridi scure diventare nuovamente lucide come specchi.

Perdonami Kookie. Io non sono un eroe—sono stato un mostro con Taetae. Ti prego biscotto, non odiarmi.

Kookie emise un verso completamente attonito e desiderò di poter abbracciare il suo hyung e cacciare via quei pensieri stupidi. Lui odiare il suo eroe?! Il suo Jché?!

I-io non p-potrei mai o-odiarti! Kookie s-sa e anche Taetae! Kookie s-starà sempre con Jché. Non è c-colpa tua s-se i mostri s-sono stati cattivi, t-tu non lo sei! I-io so c-cosa è successo, m-ma s-so anche chi sei, h-hyung. E t-ti voglio bene, tanto c-così.

Perdonami Kookie perchè non sono ciò che meriti.

JK deglutì pesantemente e, in automatico, proprio come ogni volta che temeva un qualcosa che non poteva controllare, rimase da solo. Lui e nessun altro.

«JK...quella volta mi hai chiesto di fidarmi. Mi hai detto che non mi avresti fatto del male, che non dovevo avere paura—che potevo stare tranquillo» sussurrò Taehyung, facendolo quasi sobbalzare.

Non era solo.

Non era completamente solo, c'era Taehyung.

E in quel momento, i suoi occhi erano simili ai suoi, solo più blu e profondi-ed anche più puri.

JK aggrottò le sopracciglia e sbattè le palpebre, cercando di rischiarare la vista perché voleva vedere chiaramente quanto avrebbe fatto male sentire che non c'era alcuna speranza che Taehyung lo perdonasse.

«Io l'ho fatto. Io mi sono fidato e mi fido tutt'ora di te, delle tue parole e dei tuoi gesti. Se...quello che stai facendo è perché credi che io non possa perdonarti per ciò che è successo in passato, allora ti prego, fidati di me. Quel quasi io me lo ricordo ancora e Dio solo sa quanto sono stato felice di sentirtelo dire». Le parole di Taehyung grondavano sincerità e anche i suoi occhi, anche nel più profondo degli abissi che erano i suoi occhi, JK vi lesse verità.

Era...contento di lui?

«Permettimi di avvicinarmi. Permettimi di dimostrarti che desidero fare parte della tua vita, almeno un po'».

Taehyung vide la titubanza e l'incertezza sul viso di JK e deglutì sonoramente, facendo un altro passo verso di lui.

«Fidati di te stesso come io mi fido di te».

JK sgranò gli occhi e li abbassò sulle sue mani, guardando Taehyung e queste ultime alternativamente. «Queste mani t—».

«Lo so cosa hanno fatto. Ne riparleremo se dopo tutto questo ti andrà ancora di farlo ma prima— ti prego, non respingermi, lascia solamente che ti aiuti, JK. Non devi per forza essere solo per affrontare qualcosa».

La voce spezzata di Taehyung, insieme alle sue lacrime, fu ciò che lo convinse a riprendersi. Gliene aveva create così tante, lo aveva ferito così tante volte che se quello era ciò che Taehyung desiderava...allora se lo sarebbe fatto andare bene perché forse così avrebbe visto quel solito brillio di sfida e vitalità riprendere ad illuminare il volto di quel principe dal tono soffuso e dalle fattezze delicate.

Ma nel suo annuire a labbra schiuse, una supplica rimase inespressa a cui, forse, non avrebbe mai dato voce. 

Resta.















✁✁✁✁✁✁

NDA: ehm...buona domenica a tutti?

State tutti bene, sì?

Quel "resta" non vi riporta alla mente nulla? *-*

Scusate innanzitutto il ritardissimo della pubblicazione del capitolo. Non è stato semplice, e lo è ancor di meno se ci si mettono anche i turni a lavoro fino alle 7 PERO' ce l'ho fatta e ne sono felice (ಥ﹏ಥ)

Su questo capitolo ho molte cose da dirvi ma cercherò di essere breve (spoiler: non lo sono stata):

JK. Ci ha impiegato 61 capitoli per rendersi conto delle sue azioni e, perdonatemi, la sua reazione è stata grave quanto ciò che è successo a Taehyung. Non sono paragonabili, ma una violenza sessuale è una violenza sessuale che porta molte persone a non avere il coraggio nemmeno di uscire di casa quindi...diciamo che ho voluto che la sua presa di coscienza avvenisse in modo graduale e di pari passo con l'evoluzione anche dei suoi pensieri e sentimenti circa Taehyung stesso. Era necessario fosse così drammatica? Non lo so. JK è un personaggio molto contorto che, come ho detto a qualcuna di voi, ha bisogno di toccare il fondo per poter capire che ha sbagliato.

JK però ha vissuto cose di pari gravità ma di diverso spessore rispetto a Taehyung. Un trauma non esclude nè sminuisce l'altro, ma anche lui ne ha subìte tante ed è materialmente impossibile non tenerne conto. Non giustifico le sue azioni e forse io sono un pò di parte perchè il personaggio l'ho creato io ma: immaginatevi di aprire gli occhi improvvisamente e trovarvi un vecchio che sta abusando di voi. E che questo succeda per anni. E che vi accorgete che voi siete solo una parte di un'altra persona e che siete nati proprio per questo motivo.

Ecco.

Credo che sia abbastanza esplicativo del fatto che, anche se lui è colui che viene definito il memory holder, abuse taker e protector e adesso è anche un persecutor in un certo senso.  

PERO' tengo a precisare una cosa: le persone affette da DID non sono delle persone deboli. Sono dei sistemi che giocano su un equilibrio di una moltitudine di fattori ma non considerateli deboli o fragili o da proteggere o che non sanno darsi un pugno in occhio da soli. Se siete curiosi, nel prossimo capitolo posso lasciarvi dei link per farvi vedere qualche piccola transizione tra un alter e l'altro o qualche piccola testimonianza di qualcuno che ha il DID. 

In soldoni: sono persone meravigliose proprio come sono sicura che lo siete voi tutti.

Spero che il capitolo vi sia piaciuto, se volete farmi sapere cosa ne pensate, se c'è qualcosa che potrebbe essere migliorato o altro, fate as always.

Grazie per aver letto, a presto♡


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