THE LOVING ONE (BTS FanFictio...

By SilviaVancini

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Jimin ha ventidue anni e sogna di fare il cantante. Quando gli viene proposto di partire in tour coi J-EY, un... More

PRIMA DI COMINCIARE
ALL OUT OF LOVE
HUNGRY HEART
QUATTRO MENO UNO
BAFFI DA LATTE
BUCHI NELL'ACQUA
AREA FUMATORI
MIN YOONGI: L'INNAMORATO INCOMPRESO
UN METRO DI PIZZA
DALL'OBLO' DELLA CUCINA
IL NOME D'ARTE
IL BARBRA'S TALKING SHOW
BIRRA DELLA PACE
ITALIAN TIRAMISU'
LA ROUTINE
A BERE UNA COSA
TRENTOTTO E SETTE
JIMIN MANIA
BUDINO ALLA CREMA
SUPERMERCATO NOTTURNO
PERHAPS PERHAPS PERHAPS
BODY LANGUAGE
I FIDANZATINI D'AMERICA
IN TILT
FILADELFIA
L'ULTIMA DATA
DOLCEVITA GRIGIO
SOLISTA
GLI AMERICAN MUSIC AWARDS
HOUSE PARTY
BANSHEE
NEW LOVER - LATO A
NEW LOVER - LATO B
CLACSON
FRECCIA A DESTRA
CAPODANNO
MEZZANOTTE
EPILOGO
RINGRAZIAMENTI

TENNESSEE

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By SilviaVancini

Eccomi con un nuovo capitolo! Mi dispiace tanto per il ritardo, ma ce l'ho messa tutta per finire il capitolo entro mezzanotte! Mi dispiace anche per l'irregolarità degli aggiornamenti, è un periodo pieno di impegni e i capitoli finali mi richiedono tanta attenzione... In compenso, sono più lunghi del solito! Come questo! Quindi spero mi perdoniate. Buona lettura!

Tornai in Tennessee senza dire niente a nessuno. Prenotai l'aereo due giorni dopo la mia esibizione di "The Boy That Every Girl Wants" e atterrai all'aeroporto di Nashville il pomeriggio successivo.

Erano tutti a lavoro quando arrivai a casa. Mollai le valigie in salotto e andai in cucina a mettere una bottiglia di vino in frigo, dopodiché andai a farmi una lunga doccia. Mi asciugai e mi vestii in fretta, volevo preparare la cena ai miei genitori e tutto doveva essere pronto prima del loro arrivo, ma ero stanco morto. Senza nemmeno asciugarmi i capelli, decisi di stendermi in camera mia per un riposino veloce e finii per addormentarmi.

Mi svegliai di soprassalto quaranta minuti dopo. Dopo essere arrivata a casa e aver riconosciuto le mie valigie, mamma si era precipitata in camera mia e mi era saltata addosso mentre dormivo, abbracciandomi forte.

* * *

Io, mamma e papà eravamo seduti al tavolo della cucina. Maggie non c'era, ma non potevamo incolpare la sua assenza per il silenzio che regnava su quella cena al lume di candela.

La pasta al burro era diventata fredda. Il vino rosso si era scaldato. Io giocavo con il cibo che avevo nel piatto e i miei genitori avevano perso l'appetito solo a guardarmi. Avevano provato a festeggiarmi, si erano proposti di portarmi fuori a cena o di chiamare degli amici a casa nostra, ma io avevo scartato tutte le loro proposte ed ero rimasto zitto per il resto del tempo.

Ero tornato in Tennessee per stare in pace. Non avevo bisogno di dichiararlo ad alta voce, chiunque era abbastanza perspicace per capirlo da solo, ma i miei genitori non riuscivano ad ignorare il mio silenzio. Cercavano di capire quale fosse il mio problema comunicando fra di loro con gesti e occhiate mentre si versavano da bere o fingevano di chiacchierare del più e del meno, come se io fossi cieco.

"Digli qualcosa." comunicavano le sopracciglia di mio padre.

"Parlaci tu." ribadiva mia madre con un cenno del capo.

"Tu sei più brava in queste cose."

"Tu sai arrivare dritto al punto."

"Sono questioni di cuore."

"Appunto. Parlatene fra uomini."

"Io non-"

Quando ne ebbi abbastanza, mi schiarii la gola. Entrambi si voltarono verso di me prima di tornare a bere e a mangiare, fingendo che fosse tutto nella norma, ma nessuno dei due trovò il coraggio di spezzare il mio mutismo.

Era da mesi che non vedevo i miei genitori di persona. Ci sentivamo al telefono ogni settimana e le nostre chat erano fitte di messaggi, ma quando eravamo a distanza non parlavamo mai di cose serie. Nello specifico, non parlavamo mai della mia vita privata. Si sentivano così mortificati per quello che mi era successo con Yoongi che avevano smesso di farmi domande di ogni genere, si limitavano ad ignorare il grande elefante rosa nella stanza. Come, d'altronde, facevo anche io.

Continuammo a non dirci una parola per molto tempo. Mio padre mi chiese di passargli il sale ed io glielo allungai, mamma mi versò dell'acqua ed io bevvi soltanto vino.

Il mio piatto era ancora pieno di cibo quando i miei genitori finirono di mangiare. Loro fecero per pulirsi la bocca ed io li imitai immediatamente, alzandomi a tavola e iniziando a raccogliere i piatti sporchi. Ancora intento a masticare, papà iniziò a gesticolare mentre mi seguiva con lo sguardo. Deglutì prima di parlare.

"Resta seduto, Jimin."

"Non sono un ospite."

"Siediti. Non hai ancora finito di mangiare."

"Porto in tavola il dolce?"

"Siediti."

Mi voltai verso mio padre con tutte le stoviglie fra le braccia. Ero rimasto interdetto dalla serietà di quell'ultimo ordine e mi stupii ancora di più quando vidi come mi stava guardando. Papà mi fissava con gli occhi fermi di chi vuole essere ascoltato ed io non volli disobbedirgli. Appoggiai la pila di piatti sul tavolo e mi rimisi a sedere.

Ero nervoso. Un paio di anni prima mi sarei scusato con i miei genitori ancora prima di sapere perché mi volevano parlare, ma in quel momento ero irritato da morire. Sapevo già cosa dovevano dirmi, per cui avrebbero fatto meglio a sputare il rospo in fretta. E dovevano smetterla di trattarmi con i guanti.

"Allora?" chiesi. "Cosa c'è?"

Guardai prima mia madre, poi mio padre. Loro due si scambiarono uno sguardo e mio padre scrollò le spalle prima di abbassare la testa e prendere la sua forchetta in mano. Iniziò a tamburellarla contro la superficie del tavolo, un tic nervoso di cui forse non si rendeva nemmeno conto, e mia madre capì da sé che le stava lasciando le briglie del discorso. Agitata, tornò a girarsi verso di me. La luce artificiale della cucina la faceva sembrare un ricordo lontano.

"Dobbiamo parlarti, Jimin."

"Questo lo avevo capito."

"È da mesi che ci ripromettiamo di farti questo discorso, ma-"

Mio padre lanciò la forchetta. Questa cadde a terra con un rumore d'acciaio ed io e mia madre saltammo sulle sedie, spaventati.

"Si può sapere perché ti sei messo con quello stronzo?"

"Robert!" protestò mia madre. Colpì mio padre al braccio, ma lui era talmente gonfio di rabbia da non sentire niente. La sua faccia non era mai stata così rossa.

"Niente Robert, voglio saperlo! Questa storia non avrà senso finché non capisco come a mio figlio possa anche solo piacere una persona del genere."

"Jimin non ha colpe!"

"Non ha toccato cibo, te ne sei accorta?"

"Credi di essergli di aiuto così?"

"Basta." supplicai. Entrambi si zittirono e si voltarono verso di me, per cui mi ripetei. "Basta. Papà ha ragione, meritate delle risposte. Sedetevi e parliamo."

Non avevo mai dato ordini ai miei genitori. Mamma mi obbedì senza commentare e tornò a mettersi seduta composta, timorosa delle cose che avrebbe sentito, mentre papà allacciò le braccia al petto e si sedette con le gambe larghe. Era il padre più dolce e comprensivo del mondo, ma in quel momento era il poliziotto cattivo della situazione. Non gli piaceva la calma distaccata con cui li avevo interrotti.

"Quindi?" mi chiese lui.

"Cosa volete sapere, esattamente? I gossip? Quanto siamo andati in fondo, quante volte abbiamo fatto sesso? Tre, se vi interessa. Durante la stessa notte."

"Ti ho già fatto la mia domanda."

"Oh, giusto. Perché mi sono messo con Min Yoongi: la domanda da un milione di dollari. Non lo so nemmeno io, ti piace come risposta? Non c'è un motivo, avevo soltanto voglia di rovinarmi la vita e di farmi sputtanare davanti a tutti."

Mamma mi guardava come se stesse per mettersi a piangere. Papà si rifiutava di reagire alle mie provocazioni. Soffrivo nel vederli così, sentivo già i sensi di colpa attanagliarsi allo stomaco, ma in quel momento ci godevo ad essere cattivo. Sapevo benissimo a chi apparteneva quell'umorismo distorto che stavo prendendo in prestito e non potevo fare a meno di usarlo.

"Non fare così, Jimin." mi disse papà. "Stiamo davvero cercando di capire cos'è successo. Non trattarci come se fossimo contro di te."

"Cosa volete capire? Cosa c'è da capire?"

In quel momento era impossibile ragionare con me. Capendolo, papà ingoiò il rospo e tenne per sé tutte quelle parole durissime che avrebbe potuto usare per farmi tacere una volta per tutte. Prese la bottiglia di vino che c'era in tavola e si riempì il bicchiere, ma non fece in tempo a bere che io gli sfilai il bicchiere da sotto al naso e bevvi al posto suo. Trangugiai il vino senza mai staccarmi per prendere fiato e rimisi il bicchiere in tavola soltanto quando lo ebbi svuotato. Feci per allungarmi verso la bottiglia, ma papà la allontanò.

"Non ce l'hai con questa persona, Jimin?"

La sua era una domanda molto semplice. Pacata. Lasciò trasparire una nota di tristezza che spazzò via tutta l'insolenza che era rimasta nella mia voce, ma io non potevo rimanere senza rabbia. Se mi si toglieva quella, non avevo altro.

"Certo." dissi, inespressivo. "Certo che ce l'ho con Yoongi, ma cosa posso farci? Mi sono innamorato di lui. Pensavo ricambiasse i miei sentimenti e invece mi sbagliavo. Fine della storia."

"Ma stai andando avanti con la tua vita? Ti vedi con qualcuno?"

"Non è così semplice."

"Certo che lo è."

"Come posso frequentare qualcuno quando non faccio altro che pensare a quell'estate? È impossibile. E sarebbe anche ingiusto. Sia nei miei confronti che in quelli dell'altra persona."

"Devi solo distrarti un po'..."

Era stata mia madre a fare quest'ultimo commento. Sapevo che aveva a cuore il mio bene e che voleva essermi d'aiuto, ma mi sentii punto sul vivo.

"Distrarmi un po'?" le chiesi. "Distrarmi?"

Mi alzai in piedi. Presi la pila di piatti sporchi che avevo lasciato a tavola e la spostai sul lavandino della cucina, dopodiché iniziai a riempire la lavastoviglie. Ripresi a parlare senza fermarmi, dando la schiena ai miei genitori.

"Avete idea di cosa voglia dire essere disprezzati dalla persona che si ama? Sapete come ci si sente ad essere traditi davanti a tutto il mondo, umiliati da quell'unica persona a cui vi siete affidati pensando che avrebbe avuto cura di voi? Ve lo dico io, ci si sente uno schifo. Non ci si riprende. Non ci si distrae. Ci sono giorni in cui voglio così tanto essere amato che sto male. Ho ventitré anni e sono già marcio."

Tirai fuori il pattume e buttai tutta la pasta che era avanzata dal mio piatto. Mia madre protestò, ma ormai il cibo era andato sprecato. Misi il mio piatto in lavastoviglie e la chiusi, poi mi pulii le mani contro uno strofinaccio e uscii dalla cucina. Papà mi chiamò un paio di volte, ma io andai dritto per la mia strada e non mi fermai finché non mi chiusi in camera mia. I miei genitori restarono da soli e non dissero una parola finché non andarono a dormire.

Il mattino dopo non li vidi nemmeno. Non so che ore fossero quando mi svegliai, la sera prima mi ero dimenticato di chiudere gli scuri ed ero stato svegliato dalla luce, ma rimasi a letto finché non sentii i miei genitori uscire di casa per andare a lavoro. Feci colazione. Accesi la televisione e la spensi subito. Dato che fuori c'era un gran sole, andai a vestirmi e uscii a fare una corsa.

Era da tanto che non vagavo per i dintorni di casa mia. Quella zona del Tennessee era tutta campagna, non dovevo nemmeno preoccuparmi di essere riconosciuto perché in giro non c'era nessuno, ma presi sottogamba quel caldo che mi aveva invitato ad uscire di casa: dopo neanche mezz'ora di jogging, finii per accasciarmi contro una delle tante staccionate che separavano un terreno dall'altro, sfinito.

Non stavo per svenire. Non stavo per svenire. Se lo ripetevo tante volte forse non sarebbe successo davvero. Dovevo solo riprendermi. Casa mia era troppo lontana per tornare indietro e con me non avevo nemmeno un goccio d'acqua, per cui potevo soltanto mettermi buono e aspettare di stare meglio. Mi sedetti sull'erba. Mi sdraiai e chiusi gli occhi, respirando a pieni polmoni.

Mi ero appisolato da un pezzo quando sentii qualcosa solleticarmi il viso. Aprii gli occhi e per poco non urlai quando mi ritrovai due bambine a un palmo dal naso. Erano tutte chine su di me, mi stavano punzecchiando con un bastoncino per controllare se fossi vivo o morto, e saltarono indietro dallo spavento quando mi videro aprire gli occhi di scatto. Si misero ad urlare e, senza sapere dove andare, scapparono via. Frastornato, mi alzai a sedere e le guardai.

Le due bambine stavano correndo incontro a un giovane uomo. Quest'ultimo le avvistò da lontano e iniziò a correre per incontrarle a metà strada, ma già mentre si avvicinava iniziò a rimproverarle per essere sparite di colpo dalla sua visuale. Loro non si curarono minimamente dei suoi rimproveri e, ancora spaventatissime, andarono a nascondersi fra le sue gambe. Cambiando completamente tono della voce, lui si chinò alla loro altezza e chiese cosa ci fosse che non andava. Le due bambine indicarono me.

Fu piuttosto imbarazzante. Il giovane uomo si voltò verso la direzione indicata e quando mi trovò rimase piuttosto interdetto. Per un attimo osservò la mia tenuta sportiva, la faccia gonfia di sonno e i miei capelli decolorati, poi abbassò le sguardo sulle bambine. Stava cercando di capire chi fossi io e cosa fosse successo con le bambine senza giungere a conclusioni affrettate, ma non era semplice farsi un'idea. Soprattutto perché continuavo a fissarlo in silenzio, seduto fra l'erba alta con la stessa aria smarrita di Ulisse che approda sull'isola dei Feaci. O con l'aria di un pedofilo seriale che aspetta le sue vittime nascosto nell'erba alta.

Ma avevo un'espressione troppo stanca per essere un serpente. La mia fronte era lucida di sudore e il mio colorito era troppo pallido per essere quello naturale della mia carnagione. Inoltre, cosa che mi venne riferita molti mesi dopo, quel giovane uomo mi trovò immediatamente di una bellezza troppo genuina per essere intimorito da me.

"Scusa!" mi urlò da lontano, accarezzando le schiene delle due bambine. "Ti hanno dato fastidio?"

"Non c'è problema!" risposi io. Volevo urlare a mia volta, ma non riuscivo a tirare fuori la voce. "Non c'è problema!"

Niente, non mi sentiva. Deciso a capire la mia risposta, il nuovo arrivato si liberò gentilmente dalla presa delle bambine e iniziò a incamminarsi verso di me. Io mi agitai. Mi volli alzare in piedi, ma lo feci troppo in fretta e la pressione bassa mi fece girare la testa. Non stavo per svenire, non stavo per svenire, non stavo per svenire, ma ad un tratto mi ritrovai con la mano del giovane uomo attorno al polso. Non lo avevo nemmeno visto arrivare così vicino.

"Tutto a posto?" mi chiese. "Hai avuto un colpo di sole?"

"No, sto bene."

"Non si direbbe."

Non sapevo cosa rispondere. Mi ripresi il polso e lui, come se si fosse accorto solo in quel momento di avermi afferrato per istinto, fece un passo indietro. A disagio, gesticolò verso le bambine e mi diede la schiena senza aggiungere altro. Le raggiunse e le prese per mano, portandole via con sé.

"Andiamo, bambine. La nonna ci aspetta per fare merenda."

Rallegrate al solo pensiero, le bambine misero il turbo e iniziarono a tirarlo in avanti per arrivare ancora più in fretta a destinazione. Lui si voltò un paio di volte a guardarmi e, quando finalmente sparii dalla sua visuale, io potei rilassarmi.

Tornai a sedermi sull'erba e mi lasciai cadere all'indietro, a peso morto. Abbassai le palpebre pur di non vedere come mi si appannava la vista ad ogni movimento che facevo, ma dopo qualche secondo sentii un rumore di passi farsi sempre più vicino. Feci appena in tempo ad alzarmi sui gomiti, venni sollevato da terra come se non pesassi nulla e mi ritrovai in braccio allo stesso sconosciuto di prima.

Non servì a nulla strepitare, dire che stavo bene e che stavo solo riposando, lui mi tenne stretto a sé e fece un giro di centottanta gradi, camminando dietro alle bambine che stavano correndo giù per la collina davanti a noi.

* * *

"Ehiiii."
"Ehiiiiiiiii."

"Vuoi il mio succo di fretta? Vuoi il plumcake della nonna?"

"Questa è Flora, la mia bambola."

"Tu non ce l'hai una casa? Dormi sempre sotto alle stelle?"

Mi trovavo nella casa dello sconosciuto. O meglio, mi trovavo a casa della nonna delle bambine che altro non era che la madre dello sconosciuto. Ero sdraiato su un vecchio divano e se mi guardavo attorno vedevo soltanto una carta da parati floreale, dei mobili di legno e una collezione di centrini da tavola. Oltre che ai faccini delle bambine, ovviamente. Si erano accucciate davanti a me da quando eravamo arrivati e non facevano altro che riempirmi di domande mentre cercavano di coinvolgermi nei loro giochi. Nel momento in cui lo sconosciuto entrò in salotto con un enorme bicchiere d'acqua in mano, una di loro mi stava facendo aria con un quaderno di scuola e l'altra stava ancora cercando di farmi bere il succo dalla sua cannuccia.

"Bambine..." le chiamò lui. Spedì le due a tormentare la nonna e mi porse il bicchiere d'acqua. "Ci ho messo un integratore."

Io annuii. Mi alzai a sedere e gli presi il bicchiere di mano, cercando di bere lentamente.

Lui mi osservò per tutto il tempo. Anzi, mi osservò finché non gli lanciai un'occhiata di rimando, perché poi realizzò quello che stava facendo e distolse lo sguardo. Imbarazzato, mi diede la schiena e si guardò attorno. Cominciò a raccogliere i giocattoli che erano disseminati per tutto il pavimento del salotto per fare un po' di ordine.

Era il mio turno di osservarlo. Scusato dall'enorme bicchiere d'acqua che dovevo scolarmi, ebbi modo di notare che il mio salvatore doveva avere la mia età. O forse qualche anno in più, ma non più di tre. Era abbastanza forte da portarmi in braccio per almeno tre minuti senza dare segno di cedimento, ma aveva anche un viso gentile e i modi di fare di chi è abituato a prendersi cura degli altri. Abitava in Tennessee? Avevamo forse frequentato la stessa scuola?

"Come ti chiami?" gli chiesi. Lui si voltò per assicurarsi che stessi parlando con lui, poi tornò a raccattare i giocattoli. Aveva degli occhi davvero carini.

"Jungkook."

No, il suo nome non mi diceva niente. Era forse il fratello maggiore di qualcuno che conoscevo? A chi poteva assomigliare? Forse il mio amico Logan aveva un cugino con un fratello che si chiamava-

"E tu?" mi chiese Jungkook.

"Io cosa?"

"Hai un nome?"

Aprii la bocca. La richiusi. Bevvi un altro sorso d'acqua per temporeggiare.

Non mi aveva riconosciuto. Jungkook non sapeva chi ero. La cosa non mi dava un dispiacere, anzi, tutto il contrario, ma non sapevo se fosse il caso di mentire o di rivelare che ero Park Jimin, il fidanzato d'America.

Ci stavo mettendo troppo tempo a decidermi. Jungkook si voltò a guardarmi e si aprì in un sorriso stranito quando vide la mia espressione buffa. I suoi occhi erano davvero carini.

"Che c'è, sei davvero senza fissa dimora? Sei piovuto dalle stelle e devi ancora trovare un nome? Che ne dici di E.T.?"

"Sono Jimin." dissi, alla fine. "Il figlio minore dei Park."

"Oh, i Park! Li ho presente, ma non ho ancora avuto occasione di conoscerli. Sai, qui ci abita mia madre, io non..."

Jungkook gesticolò, come se la storia fosse troppo lunga da raccontare. Al posto di parlare di sé, si chinò a frugare sotto una poltrona e tirò fuori una Barbie a cui erano stati tagliati via tutti i capelli.

"E tu? Vivi con i tuoi? Non ti ho mai visto da queste parti."

"Sono qui solo in visita." risposi. "Abito a Filadelfia."

"Filadelfia? E che ci fai laggiù?"

"Il cantante."

"Forte! Canti per un locale? Sei un corista?"

Per poco non risi.

"Sì. Qualcosa del genere."

Jungkook annuì fra sé e sé, compiaciuto. Iniziò a raccontarmi cosa faceva per vivere, ma era così preso dallo spiegarmi i dettagli del suo lavoro che calpestò un Lego dimenticato sul tappeto. Imprecò e si prese un piede, saltellando sul posto. Si era tolto le scarpe prima di entrare in casa, per cui il dolore poteva soltanto essere allucinante.

"Accidenti!" borbottò a denti stretti. "Accidenti, accidenti..."

"Aspetta, ti aiuto."

"Non c'è niente da fare, è da amputare ormai."

Risi alla sua battuta. Risi apertamente, non potei farne a meno. Appoggiai il mio bicchiere sul mobile più vicino e feci il giro del salotto per raggiungere Jungkook. Non potevo fare niente per il suo piede, ma perlustrai i dintorni alla ricerca di altri Lego. Dopo qualche minuto una domanda mi sporse spontanea.

"Anche tua moglie è di qui?"

"Mia moglie?"

"La madre delle bambine."

Jungkook restò in silenzio. Lo guardai temendo di aver detto qualcosa di sbagliato, ma lui era semplicemente stupito. Fece per dirmi qualcosa, ma poi il suo sguardo si abbassò sul mio stomaco: per raccogliere i Lego avevo usato la mia maglietta come raccoglitore e me ne stavo bellamente andando in giro con l'ombelico scoperto. I suoi occhi tornarono al mio viso soltanto quando lo interrogai.

"Ho detto qualcosa di sbagliato?"

"Le bimbe non sono mie. Cioè, sono mie, ma non... Sono le mie nipotine. Le figlie di mia sorella. Sono lo zio."

"Oh!" esclamai. "Bene."

"Perché bene?"

Ah. Bella domanda. Le orecchie mi diventarono rosse e sviai il suo sguardo mentre mi davo mentalmente dell'idiota.

"Devo andare." dissi di punto in bianco. Mollai i Lego che avevo raccolto e mi guardai attorno alla ricerca delle poche cose che avevo sparso in giro, cercando di darmi una mossa. "Grazie per l'ospitalità. Grazie per l'acqua. Grazie di tutto."

"Aspetta-"

Ormai avevo infilato la porta di casa. Feci giusto tre passi lungo il vialetto prima di rendermi conto che stava piovendo a dirotto e che io ero già bagnato fradicio. Mi bloccai sul posto.

"Aspetta, Jimin!" mi sentii chiamare da dietro. "Aspetta!"

Jungkook era sullo stipite di casa e stava cercando di infilarsi le scarpe mentre teneva la porta aperta. Mi voltai verso di lui e rimasi sotto alla pioggia con la mia postura rigida, i pugni chiusi e i capelli fradici davanti agli occhi occhi. Dovevo sembrare un pulcino.

Alla fine Jungkook riuscì ad allacciarsi le stringhe, prese un ombrello al volo e mi venne incontro. Pensavo mi avrebbe detto qualcosa di interessante quando ci saremmo trovati sotto lo stesso ombrello, ma la pioggia era così forte e l'ombrello era così piccolo che ci dovemmo stringere più del previsto. Lui fece un passo verso di me ed io, senza pensarci, ne feci uno verso di lui.

Ci trovammo faccia a faccia. I suoi occhi erano ancora più carini visti da vicino e lui non faceva altro che spostare lo sguardo dai miei occhi ai miei capelli, le mie sopracciglia, le mie labbra e ancora i miei occhi. Nell'aria si sentiva soltanto il rumore della pioggia, ma se uno prestava attenzione sentiva anche lo schiamazzare lontano delle bambine.

"Mi piacciono i tuoi orecchini." mi disse Jungkook dal nulla. "Anche le tue scarpe sono forti."

Le mie scarpe?

Guardai in basso e vidi che indossavo un'edizione speciale delle Nike che mi era stata regalata in onore del Pride Month. Mi maledii a vedere quella striscia arcobaleno che spiccava contro la stoffa bianca in modo così esplicito, ma poi notai una cosa: Jungkook indossava le stesse scarpe.

Mi venne da sorridere. Jungkook si lasciò scappare una risatina timida e si attentò a guardarmi negli occhi un'altra volta.

"Vuoi restare? Aspettiamo che finisca la pioggia." mi chiese. Io non dissi nulla, ma dopo qualche secondo mi ritrovai ad annuire. E a sorridere, perché il sorriso di Jungkook era dannatamente contagioso.

Sì. Sì, volevo restare.

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