Something unreal

Od Heeerry89

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Lo riconobbe subito. Spalle strette e culo imperiale, serio e convinto sulle sue gambe da calciatore mentre a... Více

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Od Heeerry89


Prologo

"I feel it in my fingertips I feel it in my bones
The hair is standing on my skin I know that I am home
Pulling back the curtains And the truth shall be revealed
I'm praying for, I'm waiting for Something unreal.

Every bone I break If it's love or hate I wanna feel
(Something unreal) Every time I bruise If it's win or lose
I wanna feel (Something unreal)"

The Script



Chissà perché hanno tutti bisogno di sentire.

Le emozioni, i sentimenti, il brivido, l'adrenalina.

Chissà se hanno mai sentito abbastanza dolore da desiderare di essere annichiliti, finiti. Morti.
Un poeta inglese si sveglia una mattina e dice che è meglio aver amato e perso che non aver amato mai. E tutti gli credono. Fanculo Tennyson. Fanculo tutti i creduloni.

Se avessero perso veramente non si sentirebbero dei vincitori.

A questo pensava Harry, in macchina, mentre andava al supermercato.
A questo e all'imbecille schizofrenico davanti a lui che guidava come un settantenne con la cataratta, pur avendo il culo su un X5 BMW. Che cazzo ve le comprate a fare le macchine se poi non le sapete guidare pensò, mentre lo superava ignorando la linea continua tra le carreggiate.
Era rimasto nel Kent per l'autunno, stava ristrutturando la sua nuova casa a Londra e non voleva tornare a stare dai suoi genitori. Doveva dipingere e quale posto migliore di un cottage con vista sul mare, lontano dal rumore, dalla gente e dalle distrazioni della grande metropoli?

E il mare era sempre stato un ottimo suggeritore.
Doveva essere il blu. Quel blu instabile e irascibile.
Che però lo rendeva vulnerabile e vivo come mai.

Rimanere nel Kent quando tutti erano andati via era un'idea che ricalcava un sogno di bambino. Da piccolo subiva il tornare in città dopo le vacanze come una privazione, e lo sentiva come un lutto. A Londra gli mancava l'aria e viveva l'inverno come una punizione, cercando di trattenere il respiro finché non fosse tornata l'estate. Crescendo la situazione non era cambiata. Anzi. Le amicizie del Kent divennero più importanti e significative. E non solo.
Eppure la sua vita continuava a trascinarlo lontano.
Ma da quando era lì sentiva le presenze della sua infanzia e della sua adolescenza nell'insistenza delle foglie sul pavimento del patio, nell'odore di pioggia mischiato alla salsedine, nel rumore del mare che gli cullava il sonno prima di dormire e nel cielo bianco delle mattine d'autunno.

Nulla di tutto questo era un ricordo d'infanzia.
Ma l'immaginazione era stata la sua salvezza.

Aveva già posato tutto sul nastro della cassa quando si era ricordato della lampadina fulminata in bagno e insomma, non voleva sprecare l'immaginazione pisciando al buio.
Luce calda o fredda. Questo era il suo dilemma quando avvertì l'ombra o la presenza di qualcuno muoversi in modo sgraziato di fronte a lui, alla fine del suo corridoio.

Lo riconobbe subito.
Forse ancora prima di alzare lo sguardo su un rumore così goffo e inspiegabile.
Spalle strette e culo imperiale, serio e convinto sulle sue gambe da calciatore mentre assecondava la sua spudorata e inossidabile ottusità, cercando di prendere un pacco di cereali dallo scaffale più alto senza i giusti centimetri per arrivarci, colpa di uno spiccato talento nello sfidare le leggi della fisica. Non a caso era stato eroe del torneo di beach football della contea, per un goal su punizione da posizione impossibile, quei goal che per farli prima dei piedi serve l'immaginazione. Anche Louis Tomlinson aveva un certo talento per l'immaginazione.
Harry non lo vedeva da nove anni. Quasi. Otto anni. Dieci mesi. Dodici giorni.
E quel giorno, dopo un ragionevole momento di annichilimento, decise di parlargli.

«Deduco che tu abbia già scartato l'opzione chiedere uno sgabello», gli disse avvicinandosi. Louis si fermò, senza girarsi, si prese un minuto per consumare e trattenere l'emozione.
Harry Styles.
In nessuna vita avrebbe potuto dimenticare quella voce, quel timbro cupo, sabbiato, che aveva sentito crescere e sporcarsi, insieme alla capacità di amare. Ma non si lasciò sopraffare dalla sorpresa e recuperò il suo autocontrollo, aveva la sua battuta da dire, Harry se l'aspettava e mai l'avrebbe deluso. Mai più.

Rise, senza girarsi. E gli rispose: «Hai mai visto un cowboy chiedere uno sgabello?», e saltò ancora per dimostrare tutta la sua perseveranza. O cocciutaggine, a seconda dei punti di vista.
Harry alzò un sopracciglio, o almeno Louis era sicuro che l'avesse fatto, e rispose: «non ho mai visto un cowboy nano». E prima che Louis potesse replicare era già accanto a lui e gli porgeva la scatola di cereali. E lo guardava sereno e compiaciuto come chi è capace con un solo sguardo di raccontare una tenerezza traboccante con una sensualità involontaria. O forse Louis riusciva a riconoscere negli zigomi pronunciati e leggermente barbuti dell'uomo che aveva davanti, i tratti delicati del ragazzino che lo aveva incantato anni prima. O forse, era l'impressione che le sue braccia avrebbero potuto tirar su tutto lo scaffale dei cereali.Fece un sospiro. Avrebbe dovuto trattenerlo, per pudore, ma gli venne fuori come fiato grosso alla fine di una corsa lunga e faticosa. Gli venne fuori come sollievo.

Harry Styles.

Non lo vedeva da circa nove anni. E non era passato un giorno senza che avesse ripensato a lui.
Non era passato giorno in cui non si fosse chiesto dove fosse, se stesse bene, come fosse la sua vita. E poi scacciava quel pensiero, perché la risposta, qualsiasi risposta, gli faceva paura. E ora era lì, e istintivamente sentì la sua mano propendersi verso il suo fianco, come se il suo corpo avesse una volontà propria, un rigurgito d'abitudine a cui non era in grado di opporsi.
E così lo fece. E per ingannare il suo stesso istinto allungò il braccio e afferrò il pacco di cereali.

Ma Harry non lo lasciò andare.

Rimasero lì zitti, con una scatola di cereali divisa tra le mani. Raccontandosi con gli occhi tutto quello che le parole non sarebbero state in grado di spiegare. Tutto quello che gli anni e la distanza avevano provato a cancellare.

Finì in uno «scusate», pronunciato da una signora che cercava del muesli e Harry mollò la presa e si allontanò. E Louis gli sorrise e con un cenno della testa lo invitò a seguirlo. Ed Harry lo fece.
In quel momento si ricordò delle sue cose abbandonate sul nastro e si affrettò a pagare.
Riempì le buste lentamente aspettando Louis e quando lui ebbe pagato la sua preziosa scatola di cereali, afferrò un paio delle buste di Harry e si avviarono all'uscita.

Louis era rimasto il folletto leggero che camminava saltellando, Harry lo ricordava perfettamente, per anni aveva vissuto con terrore che finisse sotto una macchina mentre si distraeva girandosi per parlare con qualcuno. Louis guardava sempre le persone negli occhi.
Quasi sempre.
Quella mattina, accompagnando Harry alla macchina, iniziò a camminare al contrario pur di non perdersi nulla della risposta, dopo avergli chiesto entusiasta: «Cosa ci fai tu qui?»
«Sto ristrutturando casa mia a Londra ma devo lavorare e questo mi sembrava un posto abbastanza comodo.»
Louis lo fece a stento finire di rispondere e gli fece un'altra domanda, una domanda che Harry era sicuro che gli avrebbe rivolto: «e come sei arrivato in paese da casa tua?»
Sapeva benissimo cosa volesse sapere ma decise di giocare un po' col suo topolino e gli rispose semplicemente «in macchina».
Gli occhi di Louis di accesero di un'emozione incerta, a metà tra entusiasmo e apprensione, e incalzò: «da solo?»
«No», rispose l'altro con disinvoltura, «con Danny».

Louis sentì il suo corpo gelarsi. E sapeva che fosse una follia. Erano passati quasi nove anni, lui aveva la sua vita e così Harry, era naturale che avesse qualcuno che lo aspettava in macchina. Quello che non era naturale era la delusione che era costretto a contenere. E così accusò il colpo ma, come sempre faceva quando si trovava in difficoltà, deviò l'attenzione buttandola sullo scherzo: «Ah ecco, l'idea di te che guidi era in effetti abbastanza allarmante.»

Harry rise senza scomporsi, tirò fuori le chiavi dalla tasca e sbloccò le sicure dell'auto.
Louis si chiese la necessità di chiuderci dentro Danny ma poi riconobbe la Jeep, o meglio, riconobbe l'adesivo tutt'altro che discreto attaccato sul vetro posteriore, e con tono definitivo disse: «e comunque scusa se te lo dico ma il tuo amico non sa guidare, stamattina mi ha sorpassato come se stesse portando un ferito grave in ospedale.»
A quel punto Harry si fermò ed esclamò: «Eri tu?»
Louis lo guardò con un'espressione a metà tra apprensione e collera e rispose: «Ci puoi scommettere che ero io, esistono dei limiti di velocità, non lo sa il tuo amico?» disse calcando la voce sulla parola amico.
«Anche di lentezza veramente» aggiunse sottovoce Harry, passandogli accanto.
«Come scusa?»
«Nulla, lascia stare e comunque non ha i pollici opponibili».
«Chi?» chiese Louis.
«Danny».
«Come non ha i pollici opponibili?» incalzò Louis con una certa apprensione.
«Louis, ti presento Danny Zuko», disse Harry aprendo il portellone della Jeep.
Dal sedile posteriore spuntarono un tartufo nero tra due orecchie lunghe e tonde, e due occhi eccitati ad accompagnare una coda puntuta e impazzita. Louis mise insieme i pezzi e guardò quello che sembrava essere un segugio con sollievo e leggerezza e fanculo se non riusciva a nascondere nessuna delle due emozioni, che senso aveva ormai?
Era inebriato dalla moltitudine di informazioni appena apprese.
Non c'era nessun fidanzato barra compagno barra marito in macchina con Harry, e presumibilmente nel Kent, altrimenti perché portarsi il cane al supermercato lasciandolo in macchina?
E quel cane si chiamava Danny Zuko. Come aveva potuto chiamare il cane Danny Zuko?
Come non ci aveva pensato lui a chiamare il suo cane Danny Zuko, bé ok chiaramente perché lui non aveva un cane. Louis era confuso ed eccitato ma poi si concentrò su ciò che in quel momento era per lui l'informazione più spiazzante.
Harry guidava.
Lo guardò incredulo. Lo guardava sempre incredulo. Da quando aveva sedici anni l'incredulità davanti a Harry Styles era stata una costante della sua vita. Questo non l'aveva comunque mai trattenuto dal percularlo a dovere ogni volta che ne aveva l'occasione, con quella sua logica calma e ineluttabile, che però non vinceva mai, più per fascinazione che per arrendevolezza.

«Non guardarmi con quello sguardo sorpreso Louis, non ho vinto il Nobel, ho solo preso una patente di guida. A te l'hanno data a sedici anni e questo dimostra che i tipi della motorizzazione non sono proprio dei mostri di acume e discernimento.»
Lo sguardo ridicolmente disorientato e fiero di Louis, sbatteva contro il cinismo di Harry, ma l'aria tra loro era diventata esplosiva, erano cerini accesi accanto a un barile di benzene.
Il viso di Harry si addolcì all'improvviso e aggiunse con orgoglio: «ho fatto cose più interessanti dell'imparare a guidare dall'ultima volta che ci siamo visti e...», forse la frase aveva un'altra conclusione ma Louis voleva dargli un suo contributo personale: «e perché non mi inviti a cena e me le racconti?»

L'imprevedibilità di Louis Tomlinson era sempre stata il punto debole di Harry. Da quando aveva quattordici anni e durante una festa in spiaggia, una bottiglia si puntò verso Louis e lui dovendo scegliere chi baciare, invece di una tra le ragazzine che lo guardavano con aria sognante, indicò un ragazzino distratto seduto dall'altra parte del cerchio. Harry Styles. E non lo conosceva neanche.

L'imprevedibilità di Louis Tomlinson era sempre stata il punto debole di Harry. Nel bene e nel male.

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