Blind - Libro 1 [#Wattys2020]

By FrancescoRichiardone

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Trama: in un futuro post apocalittico ambientato in una società distopica, ogni anno vengono prelevati, trami... More

Citazione
Prologo
Capitolo 1
Capitolo 2
Capitolo 3
Capitolo 4
Capitolo 5
Flashback POV Isabelle
Flashback POV Reece
Capitolo 6
Flashback POV Isabelle
Capitolo 7
Capitolo 8
Flash POV Reece
Capitolo 9
Capitolo 10
Flashback POV Isabelle
Capitolo 11
Capitolo 12
Flashback POV Isabelle
Flashback POV Reece
Avviso

Capitolo 13

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By FrancescoRichiardone

Dopo l'ultima conversazione che abbiamo avuto io e Jace, impieghiamo almeno venti minuti prima di potere vedere la luce del sole, nonostante sia quasi completamente nascosto dietro le montagne. Quando guardo l'orizzonte, mi tornano in mente quelle sere d'autunno trascorse con Katy fuori dal perimetro dipartimentale, sull'erba umida; la luce scendeva obliqua e rossastra giù nelle valli fra le montagne, riverberandosi nelle acque appena increspate di un lago, nei quali si sprigionavano un tale incanto, una tale magia, un tale senso d'infinita beatitudine, che sembrava impossibile dovessero essere appesi al breve arco di cielo che il disco solare doveva ancora percorrere, prima di scomparire dietro le sagome scure delle vette.

L'aria fredda e limpida sembra accogliere questo meraviglioso spettacolo con reverente solennità, avvolgendomi e fasciandomi in una atmosfera incantata, simile a un cristallo di rocca dagli splendidi riflessi opalescenti.

Il giorno sta per concludersi, con struggente malinconia. Il sole, però, scende vittorioso verso la fine della sua corsa circonfuso di gloria, mandando in ogni direzione lame di luce che, per un momento, accecano la vista e guizzano dardeggianti per un'ultima volta, prima di spegnersi e scomparire bruscamente nell'oscurità della sera che avanza.

Sono istanti senza tempo, fuori dal tempo; è come se quest'ultimo si sia fermato e noi siamo rimasti così, sospesi nel vuoto, senza ieri e senza domani, senza giorno e senza notte, lontani da tutto e da tutti, in un qui che è già un altrove e che, non appena tentiamo di stringerlo in mano, fugge via inesorabilmente, come la sabbia fra le dita d'un bambino.

L'anima gusta quelle emozioni con intensità voluttuosa, le assorbe avidamente sino in fondo e le fa proprie, trasformandole, nello scrigno della memoria, in sostanza eterna e incorruttibile, che nulla potrà mai più cancellare.

Comincio a sentire le gambe pesanti ma faccio finta di niente. Mi giro verso Jace, anche lui con lo sguardo fisso verso l'orizzonte, chiedendomi dove dobbiamo andare. Penso che entrambi noi non abbiamo idea di quello che dobbiamo fare. Così, dopo ancora qualche minuto di contemplazione, che sfrutto soprattutto per riposarmi, ci rimettiamo in marcia, percorrendo il versante occidentale dello Scafell, con un torrente che ci fa da guida. Il corso d'acqua viene giù a balzi, cadendo in una serie di rapide schiumanti, tra grandi massi da cui, da piccolo e in una situazione diversa, mi sarei sporto per osservare i riflessi argentati del fondo. Guardando verso valle, il torrente rallenta e si dirama, come se da giovane che è diventi adulto, tagliando isolotti colonizzati dalle betulle. Oltre ancora, un intrico di legname forma uno sbarramento. In quel punto scende un canalone, e immagino che sia stata la slavina, d'inverno, a tirar giù tronchi e rami che ora marciscono nell'acqua.

Dopo essere saliti di almeno duecento metri, imbocchiamo una mulattiera, la quale taglia il fianco della montagna senza farci guadagnare quota. Le fiamme d'oro e di bronzo dei larici illuminano il verde cupo degli abeti mentre camminiamo. Continuiamo a tenere lo stesso ritmo per un'ora, quando, oltre i tronchi degli alberi, notiamo una distesa di prato magnifica, con ciuffi di genziane e di stelle alpine dai lunghi steli.

«Abbiamo raggiunto il versante opposto», dice Jace, dopo aver fatto qualche passo verso quella zona ampia e spoglia.

«Da cosa lo intuisci?».

«Guarda là». Con l'indice indica un punto lontano da noi. «E' il Dipartimento Gamma».

Io annuisco, anche se poco curante di quello che ha detto. Qualcos'altro ha attirato la mia attenzione nel momento esatto in cui ho alzato lo sguardo verso il paesaggio davanti a noi.

«Jace, vedi anche tu quello che vedo io?», gli chiedo con un tono che fa intendere che non mi stia riferendo per niente al Dipartimento Gamma.

«Non mi è mai capitato di vederlo. Ne ho soltanto sentito parlare», mi risponde. Dalla sua voce si distingue una nota di stupore misto a paura.

«Credi che sia quello il Confine?», continuo.

«Sì».

Rimaniamo in silenzio, a osservare una realtà di cui finora ne avevamo soltanto sentito parlare oppure letto nei libri.

Una barriera di nebbia fitta prende possesso di tutto il territorio oltre il Dipartimento Gamma, appropriandosi di qualunque cosa e incutendo paura agli occhi di chiunque. Probabilmente, se andassimo più in alto, fino in cima, noteremmo come il Confine disegni una perfetta circonferenza attorno alla Capitale e alle zone periferiche.

La prima volta che ne ho sentito parlare è stata per bocca di mia madre quando ero ancora un bambino, dopo tante sere ad avere insistito perché mi dicesse cosa c'era oltre al nostro piccolo mondo. Il nulla. Semplicemente il nulla. Non avrebbe voluto distruggere la mia fantasia già a quell'età. Lei pensa che i bambini abbiano bisogno di stabilire i confini di una nuova umanità, di disegnare modelli alternativi di mondi possibili, di formulare nuove utopie, o, quanto meno, di ricavarsi una piccola compagine di senso con i loro coetanei all'interno di un mondo devastato a causa della dabbenaggine e della scarsissima lungimiranza degli adulti; adulti spesso ripiegati esclusivamente sul soddisfacimento dei propri immediati bisogni personali. Quando, al tempo, ha provato a spiegarmi il perché non volesse dirmelo, io, da curioso che ero, l'ho ignorata, preso dalla necessità di esplorare l'ignoto, di cedere alla curiosità del proibito.

Una volta iniziata la scuola di secondo grado, ho cominciato a raccogliere ulteriori informazioni al riguardo. E ho avuto modo di farmi un'idea diversa da quello che ci impartivano i nostri professori - tutti attinti dalle graduatorie di merito e ad esaurimento, esclusivamente gestite dalla Capitale -, che provavano a omologarci, a uniformarci a un modello sociale e culturale dominante dalla quale mi sono sempre dissociato. Sostenevano che il Confine non è altro che l'espressione teocratica del potere della famiglia Reale dei Walker, la cui idea essenziale è la giustizia, basata quindi sui limiti della legalità. In altre parole, la restrizione territoriale è manifestazione della volontà divina e sovrana, una figura allegorica per esprimere il dovere dei cittadini dei Dipartimenti a portare rispetto verso la Capitale. Se si compiono atti illeciti, si supera il confine tra l'essere umano e l'essere un individuo non appartenente a una società. Storpiavano addirittura i messaggi etici e morali impartiti da alcuni filosofi, come la politicità di cui parlava Socrate, a loro esclusivo vantaggio e interesse. Dicevano che l'uomo è un essere sociale e che dunque si identifica e si concretizza nell'arte del saper vivere con gli altri. In caso contrario, quando non riesce ad attenersi alle norme sociali, non viene più riconosciuto come tale. Di conseguenza, viene allontanato, portato oltre il Confine. Non sono rari i casi di "trasgressori" che sono stati scortati in elicottero militare e abbandonati nel deserto della nebbia, a chissà quanti chilometri dal Confine. Inutile dire che non sono mai più tornati.

Una volta non sono riuscito a trattenermi. Mi sono alzato dalla sedia e ho detto al professore che le sue erano soltanto nozioni propagandistiche che influenzavano negativamente sulla psicologia collettiva. L'ho accusato di discriminazione sociale nei confronti di noi persone che abitiamo nelle zone periferiche. Ho anche aggiunto, siccome era uscito fuori l'argomento, che, ventitre anni fa, in occasione della famosa Rivolta dei Ciechi (termine dispregiativo utilizzato dagli abitanti della Capitale per indicare lo stato di povertà e di ignoranza dei rivoltosi, privi di istruzione e quindi non in grado di vedere la realtà), il lavoro nei Campi di Sterminio è stato bloccato non per un atto di pietà, ma per semplice necessità economica, dal momento che il lusso e la vita mondana dei Capitolini sono da sempre stati garantiti dallo sfruttamento degli stessi uomini che stavano uccidendo. Ho concluso dicendogli che per guardare il futuro con fiducia, bisogna rinunciare agli strumenti per saggiare la subordinazione e per addestrare all'obbedienza, e lasciare margini di libertà più ampi ai Dipartimenti. Nessuno dei miei compagni ha avuto il coraggio di aggiungere qualcosa. Il professore, senza scrupoli, mi ha detto che per pura fortuna i miei genitori non sono morti in quella guerra e che le mie erano soltanto parole per deviare le persone dalla retta via. Quello che ho ottenuto è stato un paio di frustate sulle schiena e una sospensione di due settimane. Al rientro, sono stato costretto a rinnegare le mie dichiarazioni, esattamente come fece Galileo Galilei quando fu costretto all'abiura delle sue concezioni astronomiche per accusa di eresia da parte del Sant'Uffizio. Per lo meno, ancora oggi mi è rimasta una punta d'orgoglio per aver difeso i veri valori dell'essere umano.

«Reece, tu sai cos'è l'ostracismo?». Non mi è chiaro il perché della domanda ma, conoscendo Jace, so che la mia risposta servirà per spiegare un qualcosa, per spolverare un aspetto che a me è ancora del tutto ignoto ma che a lui non è sfuggito. Jace è un ragazzo molto perspicace, fin troppo maturo per avere diciassette anni.

«Si. Se non erro, una volta l'anno, ad Atene, durante l'assemblea dell'Ecclesia, i cittadini potevano esprimere la volontà di tenere una votazione per infliggere un ostracismo. Nel caso in cui i cittadini avessero espresso tale volontà, si apriva la votazione, che consisteva nello scrivere il nome della persona che si voleva ostracizzare su un coccio di terracotta - mi sembra - inserendolo poi nelle urne di voto. Raggiunto un certo numero di voti, lo sventurato se ne doveva andare immantinente dall'Attica. Così almeno è come mi ricordo io. Ma perché me lo chiedi?».

Jace fa un respiro profondo e comincia a invadermi il corpo.

«Ho come l'impressione che qualcuno voglia farcela pagare per le nostre aperte manifestazioni contro il regime capitalista. Per loro, io e te siamo individui da tenere "lontano"».

Non capisco come possa essere così freddo di fronte a un possibile scenario di morte.

«Mi stai dicendo che secondo te la Cerimonia è truccata?».

«Ho buone ragioni per pensarlo».

«E non pensi che se avessero voluto allontanarci lo avrebbero già fatto?».

«Questo non è chiaro neanche a me. L'unica idea che mi viene in mente è che loro vogliano "divertirsi". Ho visto tutte quelle telecamere che ci riprendono. Penso che vogliano fornire spettacolo. Far vedere ai Capitolini come noi poveri soccombiamo davanti a loro».

«Quindi escludi l'ipotesi che ci vogliano portare oltre il Confine dove non si può riprendere nulla?», gli domando, mentre mi accorgo di avere le guance calde e bagnate di lacrime che non ho sentito salire agli occhi.

«E' possibile che...», si interrompe di improvviso. Rimane dieci secondi in piedi, senza dire nulla. Gli chiedo se va tutto bene ma lui non mi risponde.

Poi, accade tutto velocemente.

Non ho neanche il tempo di accorgermi che Jace ha perso conoscenza, che lui è già a terra con tutti i muscoli che si contraggono. L'ultima cosa che gli ho sentito dire prima della crisi è stato un urlo di dolore provocato dalla violenta contrazione della muscolatura respiratoria. Provo a non farmi prendere dal panico ma ormai è tutto inutile. Sono traumatizzato. Più lo osservo, più realizzo quanto i suoi sintomi siano gravi: morso laterale della lingua, apnea con cianosi del volto, midriasi, disturbo del ritmo cardiaco e ipersecrezione salivare.

In poco tempo mi rendo conto di non sapere cosa fare.

Non posso aiutarlo.

Non posso fare nulla per lui.

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