L'uomo, il Tempo ed un bicchi...

By ClausFloyd

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I sette custodi dello spazio-tempo, sono i protagonisti di una leggenda che venne narrata una volta sola, di... More

Capitolo I
Capitolo II
Capitolo III
Capitolo IV
Capitolo V
Capitolo VI
Capitolo VII
Capitolo VIII
Capitolo X
Capitolo XI

Capitolo IX

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By ClausFloyd

Stava ancora ripensando alle parole del Cuoco mentre, contrito, assisteva alla sepoltura di Bob. Nella grande cattedrale di Rocciaviva era riunito tutto il villaggio, ciascuno di loro doveva molto al vecchio sovrano, tutti lo amavano come un padre. Beh, per alcuni di loro era davvero un padre. Rivolse lo sguardo verso una Lady Cloe distrutta dal dolore che cercava di nascondere coi capelli corvini gli occhi gonfi di pianto e le profonde occhiaie. Quasi immediatamente cercò il neo sposo che, ovviamente, mancava. Già da subito gli era sembrato un personaggio di raro viscidume, ed ora che ne conosceva la vera identità ed i malvagi scopi, capiva di non essersi sbagliato poi così tanto. Le si avvicinò, non riusciva a staccarle gli occhi di dosso: fasciata in un morbido abito porpora dalla generosa scollatura che metteva in risalto la pelle pallida, resa ancora più bianca dallo stress del lutto. le pose delicatamente una mano sulla spalla sussurrandole le sue condoglianze. Non resse, aveva bisogno di sfogarsi, facendosi piccola piccola si strinse contro il petto di C., strofinando il viso sul maglione di lana abbandonandosi alle lacrime. Il giovane, colto alla sprovvista, non poté fare altro che stringerla tra le braccia e cercare di confortarla, oltre che tentare, piuttosto goffamente e con scarso successo, di mascherare un’erezione decisamente poco adatta al clima di quel pomeriggio.

Lei se ne accorse, sollevò lo sguardo abbozzando un timido sorriso. Paonazzo e con il disagio nel cuore, cercò di ricambiare senza sembrare stupido. Non sembrare stupido non era il suo forte quando si sentiva in imbarazzo, infatti sembrò decisamente stupido.

Le piaceva. Le piacevano i suoi curiosi abiti, i suoi buffi modi di fare ed il bizzarro modo di esprimersi. Era amore? Chi poteva dirlo. Del resto era sposata da poco più di un giorno. Già, era sposata. Era la fortunata mogliettina del demonio in persona. Lo aveva capito dal primo momento in cui i loro occhi si erano incontrati. C’era del marcio nell’anima di quel misterioso cavaliere altezzoso; ma, lette le sue credenziali, Bob se n’era invaghito e, in fretta e furia, aveva organizzato le nozze, cominciando a speculare su quanto sarebbero stati belli i suoi nipotini. Lei non voleva giacere con quell’essere né tantomeno portarne il seme in grembo. Invano tentò di resistergli, di proteggere il suo frutto delicato dalle rapaci grinfie del coniuge che, con la forza, si prese ciò che gli spettava di diritto, per poi abbandonarla nel letto nuda e violata. Come se non fosse stato già abbastanza, la notizia, nel cuore della notte, che il suo amato padre era deceduto in circostanze misteriose. In un momento di così profonda disperazione, persino la spalla del suo disgustoso nuovo consorte sarebbe stata ben accetta per abbandonarsi alle lacrime, ma del viscido sposo non c’era traccia. Suo padre, l’unico uomo per cui avesse mai provato un po’ di rispetto, se n’era andato, abbandonandola in un’infelice matrimonio di convenienza. Ma ora lei era pronta. Era pronta ad accantonare tutte quelle lezioni sulla morale, tutto il catechismo e le prediche per abbandonarsi ai piaceri della carne e all’adulterio, era pronta prendere in mano la sua vita ed essere finalmente felice. Era pronta. Con rinnovato vigore, si strinse ancora di più a quel giovane che più di tutti era riuscito ad esserle di conforto. Desiderava ardentemente baciarlo, desiderava sentire le loro labbra incontrarsi, desiderava sentire le loro lingue sfidarsi a duello, desiderava lasciarsi cadere nel vortice della perdizione e non uscirne più. Qualcosa si era risvegliato in lei, qualcosa che non aveva mai provato prima, come una sorta di calore che, dal basso ventre si faceva strada fino al cuore. Non poteva più aspettare. Non voleva più aspettare. Mai più.

La serie di eventi che seguì fu quello che generalmente ci si aspetta da situazioni di questo genere, quindi mi dispiace dover frenare la vostra libido, ma questa parte della storia si interrompe qui. Oh, su, non fate così. No, non vi lascerò sbirciare i capezzoli di lady Cloe solo perché mi fate gli occhi dolci.

9.2

Il tramonto era già passato da un pezzo ed un vento gelido sparava con violenza gli aghi di pino che si erano raccolti per terra. Nonostante l’oscurità, un uomo avanzava coprendosi la faccia con il bavero del lungo cappotto e tentando di tenere il cappello ben saldo sulla testa. Salì malamente i pochi scalini di una chiesa sconsacrata, mancandone qualcuno per via del buio e degli occhiali da sole neri che si ostinava ad indossare. Aprì una delle porticine laterali, entrò e si diresse a grandi passi verso l’altare. Faceva un freddo becco in quella chiesa e sentiva intorno a lui il vento che fischiava attraverso i vecchi muri di pietra. Proprio sotto al grande crocifisso di legno, un uomo dai folti capelli bianchi e dal fisico asciutto stava in piedi con una mano infilata nella tasca di un costoso abito nero, mentre con l’altra reggeva un pesante tomo ingiallito al quale riservava tutta la sua attenzione. Appena si rese conto di non essere solo, sorrise in direzione del giovane, depositò la voluminosa Bibbia, ed allargò le braccia in segno di saluto.

- Pomezio, giovane amico mio, cosa ti porta da me a quest’ora?- disse il vecchio dispensando vigorose pacche sulla schiena del giovane.

- Signore, ho le foto che mi aveva chiesto- rispose il giovane sparpagliando un cospicuo numero di fotografie sul ripiano di marmo dell’altare. Il vecchio ci si gettò sopra come un rapace, studiandole una ad una con maniacale scrupolosità, in cerca di qualche indizio. Ad un certo punto strabuzzò gli occhi, prese il cappotto da un pesante candelabro d’oro, si infilò il cappello ed uscì nella tormenta per poi infilarsi nel furgone nero. Qualcosa, però, gli sfuggiva. Dovette pensarci qualche minuto prima di scendere dal furgone, rientrare nella chiesa ed ordinare a Pomezio di seguirlo.

9.3

Qualcuno aprì le tende di scatto lasciando entrare nella stanza lunghe lame di Sole che ferirono gli occhi ancora chiusi di C. che, con ringhi e mugugni, cercò di girarsi dall’altra parte e continuare a dormire. Quando qualcosa gli piovve sgraziatamente sulla faccia, non poté più ignorare l’invito a svegliarsi. Il qualcosa si rivelò essere i suoi vestiti. Finalmente si decise ad aprire gli occhi. Cloe non c’era, ovviamente, in compenso tutto attorno al letto un gruppo di soldati lo guardava di traverso. In mezzo a loro ce n’era uno più grosso, con il mantello più pulito e lo sguardo più torvo, doveva decisamente essere il capo. –vestiti- gli ordinò in modo brusco. Era decisamente il capo. Un po’ per il tono minaccioso, un po’ per la stazza del soldato ma soprattutto per la grossa spada che gli penzolava al fianco, C. obbedì senza fiatare. Scivolò giù dal letto nudo come un verme e si infilò i vestiti ciancicati, controllando che i suoi effetti fossero ancora al sicuro nelle tasche dei jeans. Due corpulente guardie dall’armatura scintillante lo presero per i gomiti strattonandolo malamente per i corridoi del castello. Camminarono per una ventina di minuti finché giunsero davanti ad una porticina sudicia. Quando quella si aprì su una stretta scaletta umida e puzzolente, gli ci volle poco per capire che i soldati non lo stavano gentilmente accompagnando a casa. Venne gettato nella più piccola, sudicia e maleodorante cella di tutto il castello. Si guardò attorno e nella penombra scorse un mucchietto di paglia come letto ed una scodella. Sconsolato si lasciò cadere sul pavimento polveroso, maledicendo il giorno in cui si era trovato su quel dannato treno.

-Non essere così duro con te stesso-

Con un sobbalzo si volse –Oh, sei tu- disse con un sospiro di sollievo –che vuoi?-

-mi trovavo nei paraggi , ho sentito qualcuno che piangeva e ho voluto dare un’occhiata-

-simpatico, comunque non stavo piangendo-

-bene, per quanto mi piacerebbe stare qui tutto il giorno a discutere di quanto tu sia macho e contare le bestemmie incise sulle pietre, abbiamo una fuga da pianificare-

-a meno che tu non sia in grado di uccidere tutte quelle guardie, direi che c’è ben poco da pianificare-

Il Cuoco detestava quando le sue entrate in scena ad effetto venivano spente da così poco entusiasmo

-si da il caso che io sia in grado, ma non è questo il punto. Non dovrai uscire dalla porta, ma da li- disse indicando una grossa pietra alla base del muro pericolosamente vicina ad una chiazza di vomito rinsecchita lasciata come ricordo da qualche detenuto del passato.

-sposta quella mattonella, infilati nel tunnel. In poco tempo dovresti essere fuori dalle mura, una volta uscito nasconditi, verrò io a cercarti quando verrà il momento-

-l’ultima volta che mi hai detto di infilarmi in un tunnel mi sono ritrovato qui, direi che peggio di così non potrebbe essere- disse C. mentre si infilava nel pertugio

-non ci giurerei- sussurrò il Cuoco mentre il giovane richiudeva il passaggio alle sue spalle.

Aveva perso il conto di quante ragnatele avesse sputacchiato da quando si era messo a strisciare nello scuro cunicolo. Odiava i ragni. Lo stretto tunnel finiva in una stanza dalle modeste dimensioni, con le pareti in pietra decorata dalle quali , ad intervalli regolari, penzolavano delle lampade ad olio curiosamente accese. Nel cento esatto di quella camera deserta, c’era una cassa. Beh, più che una cassa era un baule rosso, ma non c’è bisogno di essere pignoli. Aspettandosi qualche trappola alla Indiana Jones, si avvicinò con circospezione al contenitore. Non successe nulla. Nessuna freccia venne fuori dalle fottute pareti e nessuna palla di roccia piovve dal soffitto. Come inizio non era niente male. Esaminò il baule con inesperta attenzione. Non era grandissimo, gli arrivava appena a metà coscia. Nessun lucchetto, nessuna serratura, nessun arcano puzzle da risolvere. Si mise in ginocchio e lentamente sollevò il coperchio; ciò che vide lo lasciò senza fiato. Una sostanza violacea e lattiginosa vorticava pigramente in uno spazio immenso, avvolgendo come fumo impalpabile un voluminoso fagotto di stoffa verde. Estasiato da quella visone allungò le mani cercando di afferrarlo. Dovette infilare il braccio fino alla spalla prima di riuscire a raggiungerlo. Senza preoccuparsi di richiudere la cassa, depose il pacchetto per terra e cominciò a srotolare la pesante stoffa. Sorrise compiaciuto quando davanti ai suoi occhi si ritrovò due spade. Una era lunga, a due mani, con un delizioso fodero rosso; l’elsa era in acciaio, sulla guardia si rincorrevano delicati intarsi a formare un qualche tipo di bizzarro uccello. Il pomello catturò gran parte della sua attenzione. Al centro due leoni si guardavano negli occhi e sul bordo una parola in particolare allargò il suo sorriso: Excalibur. Strano, pensò, era quasi certo  che Excalibur non fosse così lunga. L’altra spada era, invece, deliziosamente fuori luogo. Era una delicata sciabola, ma non una qualunque, era la sciabola da ufficiale dell’esercito italiano. Curioso, erano esattamente le due armi che stavano appese in camera sua. Solo che queste erano affilate come rasoi. Si allacciò la prima dietro la schiena, la seconda alla cintura ed uscì, facendosi largo nella neve.

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