L'uomo, il Tempo ed un bicchi...

By ClausFloyd

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I sette custodi dello spazio-tempo, sono i protagonisti di una leggenda che venne narrata una volta sola, di... More

Capitolo I
Capitolo II
Capitolo III
Capitolo IV
Capitolo V
Capitolo VI
Capitolo VII
Capitolo IX
Capitolo X
Capitolo XI

Capitolo VIII

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By ClausFloyd

La cerimonia era stata sgradevolmente pomposa. Lo sposo, tutto strizzato in una ridicola calzamaglia dall'improbabile accostamento cromatico, che lo faceva sembrare un ridicolo scarafaggino snob. Lady Fichetta, invece, era deliziosamente avvolta in un raffinato abito bianco dalla generosa scollatura. Più li guardava, più pensava di non aver mai visto una coppia di sposi così male assortita, e più trovava sgradevole Lord Scarafaggio.

Il ricco banchetto aiutò a rendere il tutto un po' più gradevole, e l'alcool ebbe la strada spianata per finire il lavoro in maniera egregia. Come se la festa non lo avesse innervosito abbastanza, per tutta la sera, C., si era sentito fastidiosamente osservato. Gli sembrava sempre di scorgere una lunga ombra in un tanto costoso quanto fuori luogo completo gessato ma, per scortese abitudine delle lunghe ombre vestite con costosi gessati viste con la coda dell'occhio, quella spariva appena cercava di metterla a fuoco.

La mattina seguente venne svegliato dalle campane della chiesa che suonavano a lutto. Non se ne curò più di tanto, visto e considerato che la gente moriva un giorno si e l'altro pure. Uscì in direzione del mercato a procacciare un po' di cibo. Il mercato era fastidiosamente deserto e lui aveva assoluto bisogno di una sostanziosa colazione a base di selvaggina, giusto per smaltire la sbornia in mancanza del  caffè.

Tutto il villaggio era riunito davanti alla chiesa. Decise di indagare, del resto tutto quel casino lo stava tenendo lontano dal suo cibo. Quello che scoprì lo sconvolse. Beh, gran parte era merito di quell'alcool che ancora si stava attardando nelle sue vene, ma la notizia lo aveva sconvolto davvero, giuro.

8.2

Grandi goccioloni di pioggia picchiettavano sui vetri appannati della lunga e lussuosa limo nera, riflettendo la luce giallognola dei lampioni. La strada era deserta, del tutto comprensibile, in fondo era un’ora vergognosamente tarda di una nottataccia da diluvio universale. Adorava quando il tempo atmosferico era in linea con il suo umore. Ma detestava i vetri appannati, gli impedivano di assaporare i piccoli fiumiciattoli che si formavano nei canali di scolo ed i pochi passanti che corricchiavano verso casa con la schiena curva invocando santi dalle fattezze animalesche.

Con una gomitata mandò in frantumi il vetro oscurato. Smithie lo fissò perplesso.

-Volevo guardare fuori- disse col tono di uno che ha appena fatto la cosa più naturale del mondo, sputacchiando un po’ la pioggia che ormai lo aveva inzuppato completamente. Non aveva preso minimamente in considerazione il tastino dell’alzacristallo elettrico, era agitato e nervoso. L’auto si fermò davanti all’enorme cancello del cimitero monumentale, che, nel pieno rispetto delle sue funzioni di cancello di cimitero, si aprì cigolando più del necessario. Con passo deciso, l’Ordine si diresse verso una di quelle imponenti tombe di famiglia. Aprì il cancelletto, ritrovandosi in una grande stanza contenente sette tombe. Sei erano piene e, accanto a ciascuna di esse stavano diversi scrigni di varie dimensioni. Uno di quelli catturò la sua attenzione. Lo aprì. Era vuoto. Merda.

8.3

Dalla solita finestra della solita torre ovest, la solita misteriosa figura osservava la folla riunita nella piazza della chiesa. Conosceva ciascuno di loro, poteva elencarli uno per uno a memoria e fare l’appello per scoprire che c’erano proprio tutti. Beh, quasi tutti. Uno solo mancava alla conta. In quel momento si rese conto che qualcuno stava guardando verso di lui. Si allontanò dalla finestra sorridendo, nella speranza che quello, preso dalla curiosità, lo raggiungesse.

Quattro pesanti colpi alla porta gli permisero di calmare la propria ansia. Il pesce aveva abboccato, alla fine.

Quando la porticina della stanza all’ultimo piano si aprì, C. rimase un secondo immobile. Tra la grande quantità di vino che ancora gli mordeva la corteccia frontale e lo shock di poco prima, non credeva che quella giornata potesse avere ancora qualcosa in serbo per lui. Evidentemente la giornata non era dello stesso parere, dimostrando di avere ancora un sacco di assi nelle maniche e di volerseli bruciare tutti assieme. La giornata non era molto brava a poker.

Con il sorriso più ebete che la sua non-bocca riuscisse ad articolare, il Cuoco rimase pazientemente in attesa che il suo pupillo facesse qualcosa di più che starsene li impalato a sbavare con lo sguardo perso nel vuoto.

Dovette ripetergli due o tre volte di accomodarsi, prima di riuscire a sottrarlo alla catalessi. Con la calma di un’infermiera di ospizio, condusse uno scosso C. fino alla piccola sedia davanti al camino, per poi mettersi ad armeggiare col grosso ceppo che si abbrustoliva con nonchalance.

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