THE LOVING ONE (BTS FanFictio...

By SilviaVancini

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Jimin ha ventidue anni e sogna di fare il cantante. Quando gli viene proposto di partire in tour coi J-EY, un... More

PRIMA DI COMINCIARE
ALL OUT OF LOVE
QUATTRO MENO UNO
BAFFI DA LATTE
BUCHI NELL'ACQUA
AREA FUMATORI
MIN YOONGI: L'INNAMORATO INCOMPRESO
UN METRO DI PIZZA
DALL'OBLO' DELLA CUCINA
IL NOME D'ARTE
IL BARBRA'S TALKING SHOW
BIRRA DELLA PACE
ITALIAN TIRAMISU'
LA ROUTINE
A BERE UNA COSA
TRENTOTTO E SETTE
JIMIN MANIA
BUDINO ALLA CREMA
SUPERMERCATO NOTTURNO
PERHAPS PERHAPS PERHAPS
BODY LANGUAGE
I FIDANZATINI D'AMERICA
IN TILT
FILADELFIA
L'ULTIMA DATA
DOLCEVITA GRIGIO
SOLISTA
GLI AMERICAN MUSIC AWARDS
HOUSE PARTY
BANSHEE
TENNESSEE
NEW LOVER - LATO A
NEW LOVER - LATO B
CLACSON
FRECCIA A DESTRA
CAPODANNO
MEZZANOTTE
EPILOGO
RINGRAZIAMENTI

HUNGRY HEART

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By SilviaVancini

"Com'ero quando mi hai conosciuto? Come parlavo, cosa ascoltavo, che espressione avevo quando nessuno mi stava guardando? Com'era il mondo prima di Yoongi?"

Non avevo posto una domanda semplice a Gary.

Un mondo senza Yoongi non poteva essere esistito, perché io non me la ricordavo nemmeno l'ultima volta che ero stato più di un'ora senza pensare a lui. Di sicuro non era successo negli ultimi mesi, quando ho dovuto ripetere il suo nome all'infinito tra interviste, spiegazioni e pianti giornalieri, e di sicuro non quando stavamo insieme, perché vivevo di lui.

Pensavo a lui addirittura prima di incontrarlo. Non conoscevo il suo nome, non lo avevo mai visto in faccia, non sapevo della sua esistenza, eppure lo aspettavo. Lo aspettavo nello stesso modo in cui d'inverno si aspetta la primavera.

Avevo sempre desiderato innamorarmi. Me lo ricordo ancora oggi quel formicolio del cuore, quel bisogno urgente di uscire e di incontrare gente. Assomigliava tantissimo alla mia voglia di fare musica.

Fare il cantante non era mai davvero stata un'opzione per me. Alle medie presi lezioni di chitarra, alle superiori fondai una band, ma non mi ero mai illuso di poterne fare un lavoro.

Se mi chiedevano cosa volevo fare da grande io dicevo: "Cantare!"

Se mi chiedevano cosa avrei fatto da grande io dicevo: "Mandare avanti l'officina di papà!"

Non ero pessimista, dicevo solo le cose come stavano.

Adoravo lavorare in officina. Mi piaceva interagire con la gente, capire i problemi dell'auto (che spesso erano quelli della gente) e risolverli dopo essermi scervellato con mio padre. Detestavo quando c'era così tanto lavoro da non potersi concentrare su nulla e amavo quando si avvicinava l'orario di chiusura. Specialmente d'estate.

L'officina era in paese, ma papà aveva fatto del capannone di famiglia una succursale. Ci portavamo i lavori più urgenti e ci restavamo anche oltre l'orario di lavoro. O almeno, io ci stavo oltre l'orario di lavoro. Papà preferiva andarsi a lavare mentre io non aspettavo altro che di avere l'officina tutta per me.

O meglio. Tutta per noi. Perché l'officina, di notte, si trasformava nella sala prove della mia band.

Vivere in Tennessee è una fortuna quando si ha una band particolarmente incline al vecchio rock. Il vicinato non esiste e fra una casa e l'altra ci sono campi su campi, staccionate su staccionate, per cui il volume della musica non è mai un problema. Dovevamo stare attenti a non toccare niente, questo è vero, dovevamo suonare con un'auto perennemente fra le scatole e l'odore della benzina nei polmoni, ma quando eravamo da soli con i nostri strumenti non ci frenava più nessuno.

Io mi scatenavo. Non mi limitavo a cantare, ballavo come un pazzo ogni volta che un assolo di chitarra mi permetteva di staccarmi dal microfono e non ci provavo nemmeno a conservare un po' di dignità: ero ancora più scalmanato quando cantavo una delle mie canzoni preferite, come ricordo essere successo in una serata in particolare. Al tempo mi era sembrata speciale per motivi diversi, ma fu soltanto dopo molti mesi che la etichettati come l'ultimissima serata da adolescente della mia vita.

"Got a wife and kids in Baltimore, Jack
I went out for a ride and I never went back" intonai nel microfono. Il ritmo era incalzante, l'allegria della tastiera mi spronava a fare il pagliaccio. La ragazza al basso riusciva a malapena a suonare da quanto la stavo facendo ridere.

"Like a river that don't know where it's flowing
I took a wrong turn and I just kept going

Everybody's got a hungry heart

Everybody's got a hungry heart"

C'era sintonia, stavamo andando benissimo. Eravamo tutti giovanissimi, ma come squadra eravamo collaudati da anni, ormai.

"Lay down your money and you play your part

Everybody's got a hu- hu- hungry heart!"

"Jimin!"

"I met her in a Kingstown bar"

"Jimiiin!"

"We fell in love I knew it had to end

We took what we had and we ripped it apart"

La corrente saltò. Le chitarre elettriche smisero di far tremare il Tennessee, la tastiera venne zittita e la mia voce si ridusse a un ronzio senza l'aiuto del microfono. Riuscii comunque a cantare un: "Now here I am down in Kingstown again" prima di rendermi conto che si era tutto fermato. Aprii gli occhi che avevo chiuso dalla concentrazione.

"Papà!" esclamai. Il mio voleva essere un rimprovero, ma la voce mi uscì molto più gioiosa di quanto avessi voluto.

Papà era in piedi di fianco alla presa principale del capannone e guardava me e i miei amici sventolando le spine dei nostri strumenti musicali, beffardo.

"Basta suonare, ragazzi. Venite a mangiare qualcosa, è tardi."

"Ci mancano pochi pezzi per completare la scaletta per domani, papà. Dacci un quarto d'ora."

"È da giorni che provate, Jimin. So che ci tenete a rendere tutto perfetto, ma Maggie continuerà a volervi bene anche se sbaglierete una nota. Ecco, magari non sbagliate proprio la marcia nuziale, ma per il resto potete dormire sonni tranquilli. Coraggio, abbiamo ordinato la pizza."

La pizza smosse anche gli animi più decisi. Spegnendo le luci del capannone, io, papà e la band attraversammo il giardino con aria spensierata.

Dire che in casa nostra c'era un gran fermento era dir poco. Io e papà non facemmo nemmeno in tempo ad entrare che fummo investiti da un'orda di damigelle. Ovunque posassi gli occhi trovavo gambe, calze velate, regali, bigodini, pizzi, vestiti. Il vociare delle ragazze rendeva impossibile qualsiasi conversazione e io dovevo saltare per intravedere mia madre, intenta a scattare fotografie a tutte loro. Non ero mai stato particolarmente alto, ma in mia difesa indossavano tutte i tacchi.

"Jimin!" sentii esclamare per la seconda volta nella stessa serata. Mi voltai e vidi mia sorella.

Maggie era la mia persona preferita da quando ero alle elementari. Era sempre stata la mia sorellona e con l'avvicinarsi del matrimonio sembrava farsi ogni giorno più adulta. Tutti dicevano che eravamo due gocce d'acqua per via degli stessi capelli castani e gli stessi occhi grandi, ma lei era bellissima e poco più alta di me.

Maggie mi raggiunse e mi sovrastò con un abbraccio. Indossava una vestaglia che le arrivava fino ai piedi e profumava della crema per il corpo che si spalmava mentre guardavamo i film alla televisione.

"Dio sia lodato, sei qui. Mi devi aiutare."

"Che succede?"

Come se le avessi richiamate con quelle parole, le mie prozie comparvero da un corridoio. Erano almeno in tre e tenevano sollevato un velo da sposa, tutte in fila. Dallo sguardo esasperato di Maggie capii che la stavano perseguitando da un po'.

"Su, Maggie, non fare storie!" gracchiò una di loro. "Devi provare anche il velo della bis-bis-bisnonna per dire che non ti piace! È tradizione!"

Maggie si voltò, esasperata. "Quel velo è un reperto archeologico!"

"Margaret Smith!"

Maggie tornò a voltarsi verso di me, stringendomi la mano.

"Intrattenile, Jimin, ti prego. Io e le ragazze dobbiamo andare."

"Dove andate?"

"Al mio addio al nubilato. Ci stanno facendo fare tardi."

"Avevo capito che facevi una cosa tranquilla. Qui in casa."

Maggie sorrise, maligna. Si sfilò la vestaglia e rivelò un vestitino che doveva essere appartenuto alla mamma. Mi schioccò un bacio sulla guancia e prese la mano di una damigella per trascinarla verso la porta.

Fu come se le avesse prese per mano tutte: le damigelle si mobilitarono in massa e non ci fu modo di fermarle. Per quanto le mie prozie sventolassero il velo e chiamassero il nome della loro nipotina, nel giro di pochi secondi la casa fu vuota. I miei compagni di band si erano già rifugiati in cucina.

Mamma fu la prima a ridere. Scattò una foto dell'espressione delusa delle prozie e io mi voltai a guardare. I loro occhi caddero su di me.

"Ciao, zie."

"Fatti passare quella faccia da furbacchione, giovanotto. Se tua sorella non collabora ci dovrai aiutare tu."

"Eh?"

Fu così che mi ritrovai con un velo da sposa in testa. Me ne stavo seduto in cucina con la chitarra in braccio e le prozie che si affannavano su di me, mentre i miei compagni di band mi guardavano e se la ridevano mentre sbocconcellavano della pizza già fredda, appoggiati al bancone.

Insieme a noi c'era anche uno dei miei zii, lo zio Tom. Aveva tutta l'aria di non volersi trovare lì e, pur di non interagire con noi giovinastri, guardava fuori dalla finestra con le mani allacciate dietro la schiena. Evitavo volentieri anche io una chiacchierata con lui, ma fui costretto a dirgli qualcosa quando lo vidi tirare fuori un sigaro.

"Qui non si fuma, zio Tom."

"Tua madre non c'è"

"Da fastidio a me."

Lui si voltò a guardarmi. Pareva vagamente sorpreso e parecchio scocciato, ma mise comunque via il sigaro e si appoggiò con la schiena alla parete. Io non smisi di pizzicare le corde della mia chitarra, ma i miei amici si erano fatti più silenziosi nel sentire quello scambio. Sapevano che io e lo zio Tom avevamo dei trascorsi.

E infatti...

"Ti vedo sempre uguale, Jimin. Quanti anni hai ora?"

"Ventidue."

"Cerchi ancora di fare il cantante?"

Alzai le spalle. Non mi piaceva il tono in cui l'aveva detto e non avevo voglia di spiegare le mie ragioni a una persona che vedevo una volta all'anno. Mamma mi lanciò uno sguardo di rimprovero, ma ci pensarono i miei amici a spazzare via quella conversazione.

Il cellulare del batterista aveva squillato. Si trattava solo di un messaggio, lui non aveva avuto fretta nel tirarlo fuori dalla tasca dei pantaloni, ma dopo essersi portato lo schermo al viso aveva sgranato gli occhi. La sua reazione non era passata inosservata e qualche altro membro della band si era sporto oltre la sua spalla per vedere di che si trattava. Nel giro di un minuto avevano tutti la stessa espressione e iniziavano a guardare dal cellulare a me, da me al cellulare.

"Che c'è?" chiesi, dopo un po'. Con le zie che mi sistemavano il velo in testa non potevo muovermi.

"Jimin, ci devi andare." disse il batterista, deciso.

"Ma dove?"

"Non puoi lasciarti scappare questa occasione, Jimin." intervenne la bassista. "Non pensare a noi, devi andare e provarci lo stesso. Le nostre strade dovevano dividersi, prima o poi."

"Ma dove devo andare, ragazzi? Di cosa state parlando?"

Il batterista voltò il cellulare verso di me. Si dovette avvicinare quando vide che non potevo alzarmi, ma quando il cellulare fu abbastanza vicino da permettermi di leggere, sgranai gli occhi come avevano fatto tutti loro. Balzai in piedi e una delle prozie si punse un dito.

"La Gibbs Records cerca un cantante solista."

Una delle ragazze cacciò l'urletto eccitato che aveva trattenuto fino a quel momento.

"La Gibbs Records cerca un cantante solista!" ripetei io.

Ormai ero partito. Mi fiondai sui miei amici e scorsi insieme a loro il bando di partecipazione, più eccitato che mai. Ingrandivamo ogni dettaglio, discutevamo già della mia performance, ci stringevamo le mani. Loro erano felici per me e io non misi mai in dubbio la loro genuinità. Come aveva detto uno di loro prima, non saremmo durati ancora tanto: eravamo solo una band di paese, le scuole superiori ci avevano uniti, ma la vita stava già provvedendo a separarci con studi e carriere. L'unico a restare in Tennessee sarei stato io, probabilmente.

Entrando in cucina con una cesta di bomboniere, papà sorrise nel vedere tanto fermento. Si rivolse alla mamma.

"Che succede?"

"Papà!" esclamai io. Mi liberai dai miei amici e corsi da lui sventolando il cellulare. "Papà, la Gibbs Records fa delle audizioni! Per cantanti solisti, a Filadelfia!"

"Ma è fantastico! Voglio accompagnarti io, quando si tengono? Potrei chiudere l'officina oppure sento se c'è qualcuno che può sostituirci..."

Voltai il cellulare verso di me e scorsi velocemente il documento per cercare la data in cui si sarebbe tenuto il tutto.

"Si terrà il ventuno ottobre. Un lunedì."

Il sorriso sul viso dei miei genitori si smorzò. Il mio fece lo stesso di riflesso, ma non capivo cosa ci fosse che non andava

"Il ventuno ottobre? Jimin, ma è dopodomani."

"Dopodomani?"

"Già."
Corsi al calendario della cucina e mi misi a scorrere i giorni con il dito. Dopo essere partito da quello che stavo vivendo quel giorno stesso, mi fermai appena dopo due caselle. Aprii la bocca, ma non parlai subito.

"È davvero dopodomani."

Un mio amico salto su.

"Beh, qual è il problema?"
"Domani c'è il matrimonio di Maggie e le audizioni sono al mattino presto. Ci vogliono delle ore per arrivare a Filadelfia, anche con l'aereo."

Mamma divenne silenziosa. Guardò papà, ma lui era troppo impegnato a guardare me e la mia espressione che calava sempre più nella delusione. Non volevano impormi niente perché ero grande e vaccinato, ma appunto perché ero grande e vaccinato sapevo che non c'era nemmeno bisogno di discuterne. Sapevo quali erano le mie priorità.

"Maggie si sposa una volta sola mentre per me ci saranno altre occasioni. Non ci vado."

"Ci dispiace tanto, Jimin..."

"Non preoccupatevi. Potete aiutare le zie con il velo? Io devo andare in camera a prendere una cosa."

"Certo."

Lasciai la cucina e salii le scale che portavano alla zona notte. Me ne stetti per un po' sul pianerottolo, fermo immobile a fissare il vuoto, poi tornai dai miei amici. 

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