Nightmare

Od stregatto14

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"La paura ti culla ben bene tra le sue braccia e quando stai per addormentarti - raramente con un bel sogno... Viac

🍂 Cast 🍂
1. Braccata
3. Qualcosa di nuovo
4. Spring Waltz
5. Non ancora
6. Fuga
7. Tentativo
8. Ancora tu
9. Chi sei?
10. Incubo
11. Realtà
12. Non si può riniziare
13. Non posso andare avanti
14. Risposte
15. Coma
16. Brancolare
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Capitolo 14 pubblicato

2. C'è di peggio

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Od stregatto14

Il buio che mi circondava era così denso e pesante da togliermi il fiato, provocandomi un' insopportabile pressione al petto. Cercai immediatamente di alleviarlo poggiando una mano su di esso e premendo, senza però alcun risultato.

Tentai di riconoscere il luogo dove mi trovavo. Era tutto dannatamente oscuro e risultò solo un buco nell'acqua.

Non ricordavo il posto, non c'ero mai stata, tuttavia un'assurda convinzione mi suggeriva che fossi lì per un motivo, mi trovavo in quell'oscurità perché dovevo esserci.

Tolsi la mano destra dal seno e con quella mi aiutai ad alzarmi.

Stringevo tra le dita della sinistra qualcosa che non riuscii a riconoscere, questo perché lo tenevo così saldamente da non percepirne nemmeno la forma; sentivo solo che faceva male. Non solo a me stessa, dato che il dolore che dalla mano si propagava attraverso le terminazioni nervose in tutto il corpo era insopportabile, ma anche a chiunque altro.

Era semplicemente sbagliato, non ci sarebbe dovuto essere.

Sapevo di doverlo lasciare perché era giusto così, sentivo di doverlo a me stessa e agli altri, ma le mie dita non ne volevano sapere di allentare la presa; piuttosto aumentavano la forza ogni volta che pensavo di doverlo mollare.

Dovevo, ma non volevo.

Secondo dopo secondo mi sentivo sempre peggio, mi sembrava quasi che il mio corpo si scarnificasse dove il dolore passava, a partire dalle mani fino alla punta dei piedi e alla cima della testa. Sapevo che per stare bene non l'avrei dovuto lasciare, per nulla al mondo.

Era parte di me, non avrei potuto vivere senza.

Il dolore che mi consumava rapidamente, qualcosa di irrazionale dentro di me me lo suggeriva, era il prezzo da pagare per essere felice.

Tutto ciò era assurdo, contraddittorio, ma a me stava bene.

Avevo avuto bisogno di un po' di tempo per accettarlo, alla fine non mi ci volle chissà cosa per farmi cambiare idea. Lo accolsi semplicemente con tutte le conseguenze che esso portava e quando ormai rimasi senza un goccio di energia sentii migliaia di lame perforarmi ogni millimetro del corpo.

Mi accasciai a terra priva di vita ma con ancora stretta tra le dita la fonte di tutto questo.

«Hai dormito bene questa notte, Karin?»

Sollevai appena gli occhi dalla tazza piena di tè fumante e misi a fuoco il volto di mia madre, seduta di fronte a me sul tavolo e una semplice smorfia del mio viso le fece capire tutto ciò che c'era da dire.

«Non dirmi che sono ricominciati i tuoi brutti sogni». Sospirò lei esasperata, prendendo il cartone del latte e versandomene nella tazza del tè finché questo non arrivò al bordo.

«Incubi, si chiamano incubi, i brutti sogni non esistono» ribattei inacidita, pensando che non fossi più una bambina a cui veniva detto 'brutti sogni' perché non si spaventasse. «E poi lo sai che il latte alla mattina mi fa venire la nausea».

«Non puoi bere solo una tazza di acqua sporca, dopo non reggi fino a pranzo».

«Sono tesa, vomiterei tutto prima ancora che mi arrivi allo stomaco». Fu la mia ferma risposta, tuttavia portai lo stesso la tazza alle labbra e cominciai ad ingurgitare tutto senza fare altre storie, consapevole che in battaglie come quella mia madre avrebbe comunque avuto la meglio.

Lei mi osservò attentamente mentre svuotavo la tazza e quando buttai giù l'ultimo sorso sospirò pensierosa.

«Dovremmo contattare la psicanalista, prima che la storia degeneri ancora».

Riportai la tazza sul piattino. «Non serve» cercai di rassicurarla, con lo sguardo fisso sul fondo della tazzina in ceramica, dove i granelli di zucchero che non si erano sciolti affogavano in qualche goccia di tè con il latte. «Alla fine, è solo un po' di stress da trasferimento. Passerà».

Mia madre non disse nulla, si limitò a scrutarmi da dietro la caraffa di succo d'arancia disposta sistematicamente in modo che non mi guardasse diretta negli occhi, poi finì di bere il suo caffè e lasciò la cucina borbottando un «Okay» poco convinto.

Alla fine non è che credessi anche io alla mia versione della storia, solo mi ero stufata degli anni passati dagli strizzacervelli che non facevano altro che imbottirmi di pillole dicendo che ero stressata, non dovevo vedere film horror, dovevo dormire di più e cercare di avere lo stesso dei rapporti sociali con i miei coetanei.

Tante belle parole quanto però ovvie e banali; alla fine non arrivavano mai al dunque e mi rifilavano un nuovo farmaco che comunque non avrebbe avuto effetto.

Lasciai la cucina dove mia sorella, ancora nel mondo dei sogni, stava finendo di fare colazione, salii in camera e nel giro di venti minuti ero pronta per uscire di casa.

Solito trucco, soliti capelli sciolti, maglione scuro e jeans grigi.

Su ordine di mia madre tirai qualche colpo secco alla porta della stanza di mio fratello, che già di mattina presto suonava il suo basso elettrico con il volume al massimo, ma tanto sapevo che non mi avrebbe ascoltata o non avrebbe sentito comunque la mia vana protesta, quindi lo lasciai nel suo brodo e scesi le scale.

Arrivata alla porta d'ingresso salutai con un 'ciao' generale e, raggomitolata nel mio montgomery grigio, uscii finalmente di casa.

L'aria gelida di novembre mi travolse con violenza, obbligandomi a nascondere il mio viso fin sopra il naso nella sciarpa.

Alzai gli occhi verso il cielo e grossi nuvoloni grigi occuparono subito la mia visuale. Quasi sicuramente a breve avrebbe cominciato a piovere.

Cominciai ad incamminarmi verso la fermata dell'autobus, che raggiunsi neanche centro metri più avanti.

Trovai un po' di spazio su una panchina di pietra circondata da grossi vasi di fiori dall'aspetto curato ma ormai leggermente sciupati dal freddo. Mi sedetti, aspettando l'arrivo dell'autobus.

Forse una delle parti più seccanti di Winchester era l'inesistenza della metro, che invece ero abituata a prendere ogni giorno.

Dopotutto, non era molto grande come città. Mentre lo pensavo staccai un fiorellino bianco sciupato dal vaso e cominciai a privarlo uno a uno di tutti i suoi petali.

Prima però che potessi ridurlo a una spoglia corolla di un giallo spento l'autobus che avrei dovuto prendere fece capolino da dietro l'angolo.

Il bus rallentò e si fermò, piazzandomi esattamente davanti agli occhi la porta centrale.

Il mio sguardo notò subito il rassicurante spazietto in cui avrei potuto resistere per quella manciata di chilometri che mi separavano dalla scuola.

Feci in tempo a mettere il piede oltre alla porta e ad appoggiare lo zaino a terra, che un'improvvisa forza dalla spalla sinistra si propagò per tutto il corpo e prima che potessi accorgermene mi ritrovai con il sedere nell'aiuola.

Lo spazietto che mi ero ritagliata era stato occupato in tempo zero dalla figura sottile e slanciata di un ragazzo dai capelli corvini scompigliati dal vento che, dopo aver recuperato velocemente il fiato, corto a causa della corsa, mi rivolse pure un'occhiataccia di sfida e commiserazione, scoprendo da sopra la sciarpa un paio di occhi più scuri della notte da cui io rimasi immediatamente stregata.

D'un tratto, però, la magia del momento si ruppe bruscamente, riportandomi alla realtà.

Le porte si chiusero davanti ai miei occhi e l'autobus partì, lasciandomi senza parole e come una cretina con il sedere tra la terra e i fiori morti.

Una volta, quando ero alle elementari, ricordavo di essere finita in una situazione poco più che assurda.

Non avevo uno straccio di amico, cosa tuttavia non molto diversa dalla mia condizione attuale, eppure il caso volle che fossi notata dal bambino più bello della classe.

Alto, biondo e con quell'aria di trasgressione che faceva sempre impazzire le bambine a quell'età, inutile dire che era sempre circondato da una muraglia umana di ammiratrici, tanto che, se anche avessi voluto, non avremmo mai avuto modo di parlare.

Questo fino alla quarta elementare.

Un giorno, durante la ricreazione, mi rivolse la parola e io feci il grandissimo sbaglio di rispondergli.

Non mi aveva detto nulla di particolare, voleva solo che mi aggiungessi al suo gruppo per una ricerca di geografia perché pensava che, sotto sotto, fossi simpatica.

Io non avevo fatto nulla di male, il mio unico peccato capitale punito con la rovina della mia infanzia era stato quello di accettare ringraziandolo per la sua gentilezza.

Probabilmente se avessi rifiutato cacciandolo a calci avrei avuto lo stesso risultato.

Da quella stessa notte Luke, come si chiamava il bambino, per un paio di settimane fu perseguitato dagli incubi, sempre i soliti e ricorrenti, di cui io ero la protagonista.

Alcune volte lo uccidevo, altre ero io a morire, altre ancora un'ombra che mi portavo appresso lo seguiva fino al mattino. Non aveva reagito subito male, aveva cominciato a raccontarli scherzandoci sopra per i primi giorni, ma quando questi peggiorarono di colpo riversò la colpa su di me, accusandomi di portare sfortuna.

Era un bambino popolare, le ragazzine pendevano letteralmente dalle sue labbra.

In breve tempo, prima l'intera classe e poi la scuola, aveva sentito che Karin Price, la bambina dagli occhi strani che stava sempre da sola, portava sfortuna.

Inutile dire che rimasi più sola di quanto già fossi.

Le voci ovviamente si modificavano di racconto in racconto e le interpretazioni della mia sfortuna ormai erano tantissime, alimentate poi dal fatto che dopo che Luke mi aveva allontanata i suoi incubi erano finiti.

Quella di Velia ad esempio, la nuova fidanzatina di Luke e la bambina che mi avrebbe fatta finire appunto in una situazione assurda, era che fossi stata maledetta da una strega.

Convinta della sua versione della storia e di essere la paladina della giustizia scelta dal destino che avrebbe liberato il mondo dal male, in quel caso io, si informò bene su come bloccare gli spiriti cattivi e una mattina mi ritrovai la camera del dormitorio piena di sale e simboli esoterici disegnati sulle pareti.

Spiegare alla psicanalista che l'artefice di quel disastro non ero io risultò un grande buco nell'acqua.

Le mie sedute aumentarono, i miei furono costretti a pagare i danni riportati alla stanza e la voce si sparse per la scuola, facendomi apparire una matta agli occhi di tutti.

Essere sdraiata in un'aiuola, con la giacca piena di foglie secche e terra sotto lo sguardo di appena una decina di passanti era denigrante, fastidioso e notevolmente imbarazzante, ma nulla poteva essere così insopportabile come lo era stato il periodo della mia infanzia.

Per questo non mi sarei sentita nemmeno male, ero solo in un'aiuola dopotutto, se in quel momento non mi fossi accorta che lo zaino era rimasto sul bus.

Imprecai a bassa voce, rimproverandomi di non aver reagito subito e non essere risalita sul mezzo.

Imprecai ancora mentre cercavo di uscire faticosamente dall'aiuola e lo rifeci nuovamente, quell'ultima volta quasi urlando vicina all'esasperazione dopo aver preso coscienza delle condizioni della mia giacca.

Pulendomi distrattamente il fondoschiena dalla terra ripensai a cosa mi avesse impedito, in un ultimo disperato tentativo, di rimettermi in piedi e irrompere di nuovo nella corriera, fregandomene altamente dei modi cortesi, di non spingere le persone e altre cagate varie che mi avevano fatto ritrovare per strada.

La colpa era stata del ragazzo, di quel dannato ritardatario che mi aveva spinta fuori. Mi ero fermata un secondo di più a fissarlo e in cambio avevo ottenuto tutto questo.

Per un maledetto, misero secondo.

Se avessi reagito in tempo il mio zaino sarebbe stato ancora sulle mie spalle.

Per quanto potessi cercare di rimanere indifferente, quel ragazzo rimaneva comunque maledettamente bello: pregavo solo il cielo di non rivederlo mai più.

In ogni caso, non avevo nulla. Niente soldi, nessun biglietto per l'autobus, zero documenti, tutto era dove sarebbe dovuto essere, ovvero nel portafoglio, ergo nello zaino in un autobus ormai chissà dove.

L'unica cosa che mi rimaneva era la via dove si trovava la mia scuola, scritta su un biglietto fortunatamente rimasto nella tasca posteriore dei miei jeans, così che potessi scendere alla giusta fermata.

Non volendo avere problemi con la legge sin dal primo giorno o beccare una ramanzina da mia madre feci l'unica cosa che mi rimaneva da fare: correre.

Di sicuro ciò che stavo facendo non poteva essere considerata una scelta geniale visto che andavo completamente allo sbando con il solo nome della via e della scuola, ma tanto valeva provarci.

Non avevo nulla da perdere.

Senza rallentare la corsa tirai fuori dalla tasca dei miei pantaloni l'indirizzo della scuola e lo lessi velocemente, digitai su Google Maps sul mio cellulare Eden House College, Crawley Street, Winchester. Dopo qualche altro secondo di corsa comparve la strada da percorrere per arrivare a destinazione, nella direzione opposta rispetto a quella che avevo preso. Ormai l'avevo capito, nulla in quella giornata sarebbe andato per il verso giusto.

Invertii la direzione della mia corsa bruscamente e, incoraggiata dagli insulti degli altri pedoni che prendevo dentro ogni tre per due, seguii le indicazioni fino a quando non ritrovai il nome della mia scuola su un cartello stradale riccamente decorato e solo allora mi fermai per recuperare il fiato.

Dovevo essere completamente fuori di testa, mi ero appena sparata non sapevo quanti chilometri di corsa quasi continua per raggiungere, ovviamente in ritardo, una scuola a cui non volevo andare.

Ciò che era stato fatto ormai era fatto, almeno avevo imparato la strada e per non sprecare la fatica che avevo appena usato per arrivare lì mi avvicinai al cancello quasi trascinandomi.

Ovviamente lo trovai chiuso, ma non me ne stupii, dopotutto erano già le nove e mezza e la prima ora era iniziata da un pezzo. Subito spostai la mia attenzione sulle sbarre nere e constatai che, probabilmente con l'ausilio di un po' di burro, sarei potuta passare tra di esse non con troppa difficoltà.

Tanto, la mia dignità l'avevo lasciata per strada.

Cominciai a scivolare lentamente tra quelle che sembravano le sbarre più distanti tra loro, facilitata dal fatto che il mio seno fosse il contrario di abbondante e quando ormai gran parte del mio busto si trovava dall'altra parte l'improvviso cigolare del ferro mi fece sobbalzare.

Il cancello era stato aperto da una figura slanciata e, per mia sfortuna, dannatamente familiare.

Il ragazzo di quella mattina mi lanciò un'occhiataccia, sembrava proprio che non riuscisse a fare a meno di guardarmi male, poi richiuse il cancello dietro di sé.

«Era aperto» commentò, buttando senza pietà sale sulla ferita del mio orgoglio. Aveva in mano qualcosa di scuro, che subito dopo lanciò nella mia direzione e che io presi al volo.

Guardai il mio zaino incredula, ero sicura che non l'avrei più rivisto ed invece era stata proprio la causa di tutti i miei mali a farmelo riavere indietro prima del previsto.

Alzai lo sguardo, convinta di incrociare il suo per poi ringraziarlo, ma lui intanto si era allontanato ed era già arrivato al portone d'ingresso della scuola.

Mi disincastrai velocemente dalle sbarre e corsi anch'io verso l'entrata, ci tenevo almeno a dirgli un grazie visto che me l'aveva riportato, ma rinunciai ad ogni mio proposito dopo che mi resi conto che probabilmente poco gli importava dei ringraziamenti, visto che camminava per la sua strada senza rallentare.

Mi sistemai lo zaino sulla schiena e sospirai. Ero in ritardo, ma non tutto era perduto.

Era il mio primo giorno, nessuno avrebbe mai potuto essere così perfido da far pesare un ritardo ad una ragazza nuova in quella scuola.

La segreteria, o almeno quello che credevo essere tale, sembrava ancora chiusa e non mi restò altra scelta che rimboccarmi le maniche e trovare l'aula da sola.

Mi avvicinai ad una colonna bianca, proprio in mezzo all'atrio, dove le cartine dei vari piani erano state accuratamente plastificate e attaccate in ordine di altezza. Per mia fortuna.

Ricordando cosa ci fosse scritto nella mail di risposta all'iscrizione, cercai con lo sguardo la classe 3EL e la trovai solo una volta arrivata al secondo piano.

L'aula era contrassegnata dal numero 217 ed era in fondo al corridoio, a sinistra. Non che fossi davvero convinta di potere arrivare a tanto, ma mentre imboccavo il corridoio che mi avrebbe condotta alle scale pregai che il mio scarso senso dell'orientamento non mi facesse prolungare il mio già catastrofico ritardo.

Incrociai qualcuno lungo il corridoio, ma non avevo il coraggio di chiedere informazioni.

Dopotutto, quell'istituto era così grande che io potevo essere tranquillamente scambiata per una normale studentessa e la cosa non mi dispiaceva affatto.

Raggiunsi l'aula senza problemi, tuttavia, solo una volta arrivata lì, mi resi realmente conto della situazione in cui mi trovavo.

L'idea di entrare nel bel mezzo di una lezione era fuori discussione, ma non avevo molte altre alternative. Dovevo provare a farmi coraggio ed entrare in quella maledetta porta.

Presi un respiro profondo e mi preparai a bussare.

Pokračovať v čítaní

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