La luce calda del tramonto

By ZannaHarris

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Capitolo I, sezione 1

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By ZannaHarris

"La luce calda del tramonto" trilogia del Sogno Americano

VOLUME PRIMO

CREPUSCOLO

"Dalla tua bocca usciranno le parole dei tulipani

e saranno i petali a tramutare i pensieri in gesti,

i battiti in brividi,

steli verso sera.

Ma non a cambiar l'intento, agile, fresco come di vento.

Non correrà il tempo, si placherà l'aria.

E staremo in quel silenzio bianco come un lenzuolo, stracciato ancora dalla nostra assenza.

Petali...

Dove l'eterno ha avuto luogo."

WALT WHITMAN

PARTE PRIMA

I TRAMONTI DELL'OVEST

"Se non avessi visto il sole

avrei potuto sopportare l'ombra,

ma la luce ha reso il mio deserto

ancora più selvaggio."

EMILY DICKINSON

****

Da maggio a settembre ero una libellula solitaria che volteggiava tra i raggi del sole, toccando per brevissimi istanti l'acqua sotto di me. Ero inafferrabile, sfuggevole, ma felice di ingannare la gravità e di salutare la prima luce di luglio con la mia livrea.

Ero la prima rondine e l'ultimo gelsomino. Ero la brezza che soffia al tramonto estivo. Impossibile da trattenere come l'Oceano Pacifico, l'audacia dei miei giovani anni.

Un tempo sono stata molte cose, un tempo sono stata come te. Un tempo sono stata quel che gli altri credevano che io fossi, ciò che più faceva loro comodo.

Oggi sono solo una donna come tante, nata il giorno 10 di un caldo e assolato martedì aprilino, e ciò che sta per aprirsi davanti ai tuoi occhi è stata l'estate della mia vita, la mia estate del 1945.

Avevo diciassette anni e ricordo tutto, come se a dividermi da quei momenti ci fosse solo una luna.

****

CAPITOLO I

Pasadena, California

10 giugno 1945

Quando conobbi il capitano Jones, alla fine di quello stesso giorno, compresi il reale significato della parola "chimera": un'illusione, un'utopia, un sogno. Ma pensando anche al mostro col corpo di leone, la testa di capra che gli sbucava dalla schiena e il serpente che si ritrovava per coda, mi resi conto che nient'altro al mondo avrebbe potuto descriverlo meglio; qualcosa di tanto affascinante quanto temibile. Del resto l'umanità intera poteva definirsi un'unica, grande chimera, perché come dimostravano gli accadimenti di quell'ultimo decennio, persino le più belle utopie di un popolo potevano tramutarsi nell'incubo senza fine di un altro.

Ma adesso andrò con ordine, per quanto trovi assurdo il fatto che certe questioni partano sempre da un punto ben definito. Un punto e a capo.

Come per ogni inizio che si rispetti, potrei parlare del sole californiano che anche quel giorno dominava il cielo terso dell'estate, che splendeva come sempre di una luce immortale e senza rivali sulla San Gabriel Valley. Potrei tessere la bellezza delle agili rondinelle che volteggiavano sopra di me, cantando le melodie dell'ultima caccia nell'umido tepore della sera, e non mancherei di descrivere anche la mia immensa gioia nel ricordare di aver appena dato inizio alle vacanze dopo il diploma. Però, esattamente come per ogni principio degno di essere definito tale, inizierò col raccontare questa storia partendo da una grossa disgrazia: mia sorella Mary esisteva ancora.

Nonostante quel giorno fosse cominciato nel migliore dei modi, quella megera aveva trovato comunque la maniera per farmi maledire tutto il Creato. Nulla di nuovo, tuttavia, lei era sempre stata così, possedeva una naturale inclinazione alla perfidia. A mio parere era stata adottata e i nostri genitori non ci avevano mai detto la verità. Ma perché nessuno mi prendeva sul serio quando lo dicevo ad alta voce? Era così evidente!

Mary Chloé Harris era, sfortunatamente per me, più grande di soli due anni e pretendeva che io la trattassi come un'adulta. Anche se, come testimoniava l'evento di quel pomeriggio di metà giugno, dimostrava di averne ancora cinque. Mia sorella si era sempre sentita un pelo - per usare un eufemismo - al di sopra di noialtri. La sua prosopopea era battuta solo da quella del pavone maschio nella stagione degli amori, ed era costantemente fomentata dal suo secondo nome, francese per origine, ma americano per vezzo. I miei genitori le avevano dato quel secondo, spocchioso nome perché desideravano per lei qualcosa di particolare e ricercato, uno che non si confondesse in mezzo a tutti gli altri negli appelli, ma che al contempo suonasse bene al fianco di "Mary"; dato che Antoinette sarebbe stato troppo ambiguo, i signori Harris pensarono bene di segnarla all'anagrafe con Chloé. E guai a toccarle l'accento su quella "e" troppo europea.

Chloé, come una casa di moda francese. Chloé, come un bacio a labbra chiuse. Chloé, come una nota delicata di un violino o il profumo di un lillà appena sbocciato.

Mary Chloé Harris non era mai stata nulla di tutto ciò.

Per quel pomeriggio mi ero aspettata una sviolinata simile da parte sua, già quando partii la mattina verso gli alberi immaginai cosa avrei trovato al mio rientro. Tanto per cambiare, la cara Chloé aveva detto a nostra madre che mi ero recata da sola nel bosco, cavalcando il vecchio Napoleon e allontanandomi più del dovuto. A rigor di adulta logica, una ragazzina di soli diciassette anni (oh, misericordia, e per di più di buona famiglia!) non poteva assolutamente permettersi di scorrazzare libera in sella a un mustang di quasi uno short ton, «Dio solo sa cosa le potrebbe capitare!» e inoltre: «Non sta bene!», come spesso affermava mia madre quando mi sorprendeva ad alzarmi la gonna sopra le ginocchia, per poter correre meglio quando giocavo con mio fratello Thomas. E così anche quella volta mi rifilò la stessa identica frase, dopo avermi fatto l'ennesima strigliata di capo sul portico davanti casa. Ah, quanta pazienza dovevo portare con lei! E avrei dovuto portarne per molto tempo ancora, dal momento che sposarmi non era assolutamente la mia priorità.

«Cynthia Veronika Harris!» tuonò furibonda.

Odiavo quando mi chiamava in quel modo: due parole terminanti con una "a" aperta erano troppe da sopportare in un solo nome; lo odiavo, al contrario di Mary, e mia madre fece finta di non saperlo anche quella volta. Ora che aveva catturato la mia attenzione, era libera di farmi innervosire ancora di più.

"Farmi innervosire" quel giorno pareva fosse diventato il passatempo più divertente per tutti. Non mi sarei stupita se, aprendo l'enciclopedia, avessi trovato "mia madre" o "donne conformiste" come sinonimo di "esaurimento nervoso".

«Quante volte devo ripeterti», vociò gonfiando il petto, «che non devi andare da sola in giro così! Neanche un'amazzone...» riprese fiato. «Potresti ferirti con un ramo, o cadere da cavallo ed essere calpestata in pieno volto! Rimarresti sfigurata a vita, Cindy, e nessun uomo si sognerebbe mai di prendere in moglie una ragazza sfregiata! Vuoi restare zitella per sempre, forse?» proferì quella domanda con l'ultima goccia di fiato, terminando in bellezza.

A quell'ultima frase alzai gli occhi al cielo, annoiata a morte da quella tiritera. Ormai era diventata un disco rotto che ripeteva sempre la solita strofa del pentagramma, peccato non fosse una dolce sinfonia.

Ahimè, indipendentemente dal tempo che sarebbe dovuto trascorrere, la mia pazienza aveva comunque un limite.

«Mamma, devi smetterla di preoccuparti così!» ribadii per l'ennesima volta. «Non sono più una bambina! So badare benissimo a me stessa e poi Napoleon è un cavallo affidabile», forse anche più affidabile di qualsiasi altro essere umano, avrei aggiunto. «Non mi importa di cosa blatera la gente. Quella avrebbe da ridire sempre e comunque, anche se andassi a offrirmi come infermiera volontaria in un ospedale da campo.»

Mia madre strabuzzò gli occhi. «A fare cosa, Cindy Harris? Oh, buon Dio!»

«Ad assistere i nostri soldati, a medicare ferite, a dar loro conforto... Credo ci siano un mucchio di cose da fare quando c'è una guerra di mezzo», ma non lo avrei mai fatto in ogni caso, volevo solo allarmarla un po', per il semplice gusto di godermi la sua reazione.

Mia madre si appoggiò alla colonna di legno, sventolandosi con un fazzolettino bianco. «Gesù, cosa ho sbagliato con lei... Cosa?»

La ignorai totalmente.

«Io sono libera di decidere cosa fare della mia vita!» dissi. «E certo, se questo significherà essere rifiutata da ogni uomo del Paese, ben venga! A quel punto preferirei restare sola a vita!» pronunciai quelle ultime parole, spalancando la porta di casa come un tornado e spazzando via ogni suo dubbio sulla mia cocciutaggine.

Mia madre rimase ancora lì fuori, probabilmente a cercare nella sua mente - fatta di convenevoli e di troppe regole da seguire - come confutare le mie parole. Sembrava Scarlett O'Hara un po' attempata e ancora più melensa, e a pensarci bene aveva anche il medesimo sguardo arcigno. Ma c'era l'imbarazzo della scelta su cosa rimproverarmi, dal momento che secondo lei non ero altro che «Un maschio mancato!». Alla fine dalla bocca non le uscì nient'altro che l'ennesima punizione. Di tutta risposta la mia reazione fu la stessa di Rhett Butler, con l'unica differenza che non ebbi nessuna nebbia in cui svanire trionfalmente e verso un destino misterioso. Già, in effetti che fine aveva fatto Rhett senza Scarlett? Me lo chiedevo ancora.

Sbattei la porta dietro di me, senza ritegno per le buone maniere, e con quel gesto improvviso, ma non singolare da parte mia, attirai l'attenzione di mio padre che stava discorrendo con un uomo girato di spalle.

Lì per lì non mi sembrò inusuale, vedevo di continuo militari entrare e uscire da casa mia, soprattutto in quegli ultimi tempi, e non c'avrei badato molto, ma quel tipo non l'avevo mai visto prima. Inevitabilmente ridestò la mia attenzione non appena si voltò a guardarmi.

L'ospite sfoggiava l'uniforme di servizio N°1, dalla quale capii subito si trattasse di un ufficiale, e sotto il braccio destro stringeva un crusher cap con il distintivo placcato in oro a forma d'aquila con le ali spiegate proprio sopra la visiera. Conoscevo bene le insegne che portava, erano inconfondibili anche per me che odiavo lo stampo delle milizie.

Un giovane aviatore delle USAAF ancora in servizio era proprio una novità in casa Harris: prima di allora avevo avuto modo di conoscere ufficiali che, per motivi di età, avevano smesso di combattere in prima linea da almeno vent'anni. Lui, invece, era abbastanza giovane da non rientrare nella stretta cerchia degli amici di famiglia. O almeno così sembrava.

Mi fermai un momento e dimenticai mia madre per inquadrarlo meglio, dato che la curiosità apparve reciproca.

Era un uomo imponente, anche piuttosto belloccio, tuttavia era troppo serioso per i miei gusti. Aveva capelli chiari impomatati e pettinati da un lato, il taglio militare era rigoroso e perfetto, come tutto il resto di lui. La giubba verdastra, più scura dei pantaloni, non faceva altro che mettere in risalto le sue spalle larghe. Alla fin fine era un po' come tutti gli uomini che si vedevano in giro, di quelli tornati dal fronte. A primo acchito sembrava non avesse nulla di particolare, somigliava a tanti altri che avevo incrociato di sfuggita per strada prima che iniziasse la guerra (durante la guerra non c'erano stati molti uomini per strada), ma dovevo ammettere che era davvero ben piazzato.

Anche se il suo viso non mi diceva nulla di nuovo, non avevo mai visto nessuno come lui. Non era stata la bellezza a colpirmi, ma l'atteggiamento spudorato e sicuro di sé nel fronteggiare il mio sguardo senza cedere... Continuava a fissarmi da sopra la sua spalla ornata della toppa con la stella alata della 4th Air Force. Era appena voltato a mezza e senza aprire bocca o battere ciglio non trasmetteva alcuna espressività, come una statua di cera piazzata lì di proposito per incutere soggezione. Io però non mi lasciai sopraffare.

Il viso liscio e squadrato incorniciava due incredibili occhi azzurri, che quasi parevano cozzare con i suoi lineamenti decisi. Non lo capivo, ma non riuscivo nemmeno a distogliere l'attenzione. C'era qualcosa dentro quello sguardo che non voleva darmi tregua, ma comunque non ne restai ammaliata. Era proprio l'uomo che era stato addestrato a diventare: un fantoccio privo di emozioni. Mi ricordava uno di quei soldatini di latta fatti con lo stampino con cui mio fratello giocava da piccolo.

Le labbra serrate e il piglio di sufficienza che aveva assunto mi irritarono ancora di più. "Che uomo presuntuoso e arrogante saresti mai?" mi chiesi. Cosa aveva da guardare in quel modo? Nei pochi secondi che erano trascorsi da quando si era voltato a fissarmi, io sentii di aver già capito che la sua presenza, in casa mia, non avrebbe portato nulla di positivo.

«Buona sera, signorina», fu tutto ciò che uscì dalla sua bocca. Un freddo e apatico saluto di circostanza.

Il mio litigio con la mamma aveva interrotto il dialogo fra mio padre e l'ufficiale, probabilmente l'ennesimo scambio di informazioni sulla questione del "controllo".

Non si era discusso d'altro in casa mia in quelle ultime settimane, ora che la Germania praticamente non esisteva più. Come il resto dell'Europa dopo sei anni di battaglie, a dire il vero. Proprio cinque giorni prima mio padre ci aveva detto che la Germania era stata smilitarizzata e che, insieme a inglesi, francesi e sovietici, avevamo abolito qualsiasi forma di governo per sventare possibili "ricadute". «Ora abbiamo un quarto di un'altra Nazione da gestire, oltre alla nostra», aveva aggiunto, dopo averci letto ad alta voce la prima pagina del "Los Angeles Times" del 5 giugno. Aveva usato il plurale, ma io non mi ero sentita assolutamente coinvolta in quella "gestione" di cui parlavano tutti, né riuscivo a immaginarmi con cemento e mattoni in spalla per fare il mio dovere e "ricostruire": io non dovevo alcun favore alla Germania, e nemmeno mio padre.

"Controllo", "ricadute", "gestione", "ricostruire"... Erano tutte parole che avevo sentito almeno un migliaio di volte, da quando avevamo vinto la guerra in Europa, ma alle quali non avevo ancora trovato nessun valore concreto.

Mio padre, notando la mia insistente presenza, si sporse di lato con un'aria interrogativa. Io non ricambiai quel saluto e mi limitai a lanciare un'occhiataccia fulminante a entrambi, prima di correre al piano di sopra pestando rumorosamente i piedi sulle scale. La mia mente offuscata dall'orgoglio ferito era ormai diventata indifferente a tutto il resto.

Papà, nonostante la sua austera presenza, era molto diverso da mamma e - grazie a Dio! - non si faceva tanti problemi per ogni mia marachella. Malgrado fosse diventato già un uomo sulla cinquantina, la sua verve e attenzione avrebbero potuto tradire la scoperta di un elisir di lunga vita. Lui era un reduce della Grande Guerra, era considerato un veterano per l'America e un fuggiasco politico per il suo Paese, ma a causa della «Tormentosa cicatrice di guerra», come la chiamava lui, la sua mobilità era alquanto precaria. «Se potessi,» diceva, «tornerei di nuovo a impugnare un fucile sul fronte», e invece nell'ultimo trentennio si era dedicato a gestire più che ad agire.

Mio padre era anche il mio eroe, l'unica giubba verde che potevo sopportare in giro per casa.

Nonostante la sua indole guerrigliera, però, sceglieva sempre di non immischiarsi nelle questioni femminili. «Le donne,» diceva, «certe volte sono peggio di una granata, meglio non star loro attorno una volta innescate: potrebbero esplodere da un momento all'altro e fare una strage». Ed era talmente profetico che ogni volta aveva ragione. Inutile aggiungere che però era quasi sempre dalla mia parte; quasi, perché a volte ne combinavo davvero di tutti i colori, e allora non sarebbe potuto sopraggiungere nulla per salvarmi da una punizione coi fiocchi. Né mio padre, né il Presidente e né Cristo in persona se fosse sceso in terra in mio favore.

Il signor Harris, anche in quel caso, non disse nulla di significativo, almeno non con me presente. Lui mi conosceva bene: non ero una granata, ma una mina antiuomo, nel vero senso del termine.

«Mia figlia, la più piccola... Fa disperare sua madre peggio del nostro cane, povera donna!»

«Bel caratterino, però.»

«Oh, beh, è pur sempre mia figlia, da qualcuno dovrà pur aver preso.»

«Spero soltanto che non le spunti anche la barba, signore, o sarebbe una tragedia!» gli sentii dire, origliando dalla cima delle scalinate, per poi udire le loro risate.

Erano uomini, a quelli bastava davvero poco per divertirsi. La risata del pilota però sovrastava quella di mio padre, tanto fosse profonda la sua voce. Ma come si permetteva di prendersi gioco di me? Neanche mi conosceva!

Mi rintanai in camera mia, l'unico posto in cui avrei potuto raggiungere la serenità che sentivo di meritarmi, e dopo poco vidi Samson varcare la soglia per raggiungermi con le orecchie basse e passo ciondolante.

Il nostro amato Samson, un cucciolo di alsaziano troppo cresciuto, era l'unica creatura di stirpe germanica che mio padre ammetteva in casa - l'avergli dato un nome di origine ebraica era stata una scelta volutamente satirica - ed era, di fatti, l'unico maschio incapace di scatenare la mia collera.

«Vieni qui, bello!» lo invitai a saltare sul letto e quando lui ubbidì al richiamo un'altra regola di mia madre venne infranta.

Secondo il suo modo di vedere il mondo, i cani non avrebbero mai dovuti poggiare le zampe sui letti, sulle poltrone, sul tavolo, sui divani, sulle sedie, e più in generale su qualsiasi cosa concernesse un uso da bipedi. Ormai io avevo perso il conto di tutti quei divieti, erano diventati troppi e dispotici, quindi poco m'importavano. E poi Samson era il mio migliore amico e, checché se ne dicesse, era il mio quarto fratello.

Ritrovai la pace interiore guardando il soffitto immacolato sopra di me, quello che condividevo con l'altra mia sorella, Alexandra, la più grande di tutti e quattro.

Lei era diversa da Mary, molto più matura e gentile, e spesso trovavo in nella sua figura una fidata consigliera. Molte volte pensavo addirittura che l'avrei preferita come madre, ma mi accontentavo comunque del suo ruolo di sorella maggiore che si faceva rispettare con la gentilezza sicura e schietta di una Harris. Purtroppo però, dacché Alexandra aveva raggiunto l'età giusta, avrebbe dovuto iniziare a pensare di mettere su famiglia con un uomo benestante e che, eventualmente, l'amasse anche.

Che tristezza, il classico buon partito. Un destino a cui io non sarei mai voluta andare incontro.

Con tutte le probabilità, quell'uomo al piano di sotto era un candidato alla sua mano e, d'altronde, mi sarei stupita del contrario: mia sorella Alexandra era bella come il sole, il suo secondo nome era Iris, come il fiore che cresce sulle sponde del Nilo, come il nome della dea messaggera dell'Olimpo. Era dolce e sicura di sé, carismatica come poche donne, mentre io, beh, io non ero esattamente così attraente e ricca di fascino. In realtà non ero neanche una persona sgradevole, nell'ultimo anno avevo collezionato anche io una buona scorta di corteggiatori, ma mia sorella... lei aveva qualcosa negli occhi che trasmetteva calore, sicurezza, e con un semplice sorriso era capace di far sentire al sicuro chiunque. «Da grande», le dicevo sempre, «vorrei tanto diventare come te». Ma lei mi abbracciava e mi sussurrava: «Quando sarai grande, sarai tu la donna più bella del mondo». Io però non le credevo mai, piuttosto contavo sul fatto che, una volta sistemata con una famiglia tutta sua abbandonandomi al mio destino, sarei impazzita chiusa in quella casa con la signora Harris e Mary. Avrei avuto solo mio fratello Thomas su cui fare affidamento, ma certe volte non sapevo dire se lui mi amasse quanto o più di Alexandra o mi detestasse a morte come Mary. E chi l'avrebbe mai capito... Quando si trattava di mio fratello, nulla scorreva su una linea retta.

Dopo un po' si udì il famigerato richiamo: «Alex! Cindy! Scendete, la cena è pronta!»

Dallo squittio felice di mia madre capii che qualcosa le aveva fatto riacquistare di nuovo il buonumore.

Mia sorella Alexandra, uscendo dal bagno attiguo alla camera, sembrò sorpresa di trovarmi già lì, sul letto. Aveva un'aria a dir poco stralunata.

«Cosa c'è?» le chiesi, mettendomi a sedere.

«Quindi sei già a casa... Non mi ero accorta fossi tornata», Alexandra si voltò a destra e a sinistra, come ad accertarsi che non ci fosse nessun altro a parte me.

Non capivo perché si stesse comportando in quella maniera strampalata, così, per prenderla in giro, le dissi: «Beh, se avessi altri posti in cui andare...» poi aggiunsi: «Senti un po', chi è quel bellimbusto che se ne sta a parlare con nostro padre in salotto?»

Lei sembrava avere una risposta pronta, ma appena fece per aprire bocca fummo costrette a rimandare quel pettegolezzo, dal momento che Thomas era salito per ribadire l'ordine di nostra madre. Feci subito mente locale e cercai di collegare mia sorella a quell'uomo al piano di sotto. Ebbi il presentimento che, di qualunque legame si trattasse, non sarebbe stato semplice da spiegare, in alcun caso.

Per capirci meglio non mi restò altro da fare che uscire dalla stanza e tornare da basso.

«Stasera abbiamo un ospite con noi», esordì entusiasta nostra madre, non appena discesi l'ultimo scalino. «Il capitano Jones, un eroe del nostro Paese!»

Ed ecco il motivo di tanta eccitazione.

Quando lei ci accolse con quella presentazione stucchevole nella sala da pranzo, io capii che la serata non sarebbe trascorsa velocemente, mio malgrado. Le parole della mamma erano state gonfiate con tanta di quell'aria, che a un certo punto mi era sembrato di sentire un palloncino scoppiarmi nelle orecchie.

«Signora, la prego,» si intromise il soggetto di cotanti plausi, «mi chiami soltanto Peter.»

"Allora ce l'hai un nome!", mi dissi, cercando di trattenermi dall'urlarglielo in faccia.

Lui si stava sfiorando distrattamente i polsini della giacca. «Non sono diverso dai miei compagni d'arme. Ci siamo battuti per il Paese in egual modo», disse, tirando un po' su le gambe del pantalone per prendere posto a tavola. «Se così non fosse stato, non avremmo vinto.»

"Oh, che finta modestia! Sai dove potresti ficcartelo quello stupido berretto?"

«Certo, ma non è da tutti andare contro uno squadrone volante di nemici, da solo, per difendere quello che restava di Pearl Harbor!» Madame Butterfly continuava con i suoi elogi sdolcinati e melodrammatici. Ma cosa credeva? Di far colpo? Sembrava una di quelle ragazzine che correvano dietro a uomini che neanche le consideravano donne fatte.

«Ho soltanto svolto il mio dovere, ecco tutto. E non ero davvero solo, anche altri uomini della US Navy hanno fatto la differenza», chiarì l'altro umilmente. «Ma la ringrazio, è un onore essere qui, seduto al tavolo di un vero eroe di guerra», e così dicendo guardò nostro padre.

Quella conversazione mi stava facendo venire il voltastomaco, tant'è che poi diedi appena qualche morso al succulento filetto alla Wellington che avevo nel piatto e attesi impazientemente l'arrivo del dolce. Odiavo ascoltare la gente mentre usava convenevoli e recitava pantomime, aspettando gli applausi e i complimenti del pubblico.

Se avessi avuto l'opportunità, chissà quante gliene avrei dette a quel damerino che si aggraziava mia madre e mio padre solo per ottenere qualcosa in cambio; in quel caso doveva trattarsi di mia sorella maggiore, ne ero certa. Ah, gli uomini! Sempre così sicuri di sé e dei loro discutibili mezzi di conquista.

«A proposito di persone care, capitano,» incalzò mia madre, «scommetto che ha fatto stare tremendamente in pena la sua fidanzata.»

Forse mi stavo sbagliando, la morigerata signora Harris non avrebbe mai fatto un'affermazione del genere a un futuro cognato; di fatti un possibile marito, come primo requisito fondamentale, non avrebbe dovuto avere già una fidanzata. Allora la domanda sul perché fosse lì sorse spontanea: era per lavoro o per interessi personali? A ogni modo, sperai vivamente rispondesse qualcosa come: «Sì, infatti, mia moglie e i miei quattro figli sono stati molto in pensiero, ma poi sono tornato da loro e tutto si è sistemato. Sono felicemente sposato, signora Harris, grazie per l'interessamento». Comunque la sua presenza mi stava già innervosendo troppo e non vedevo l'ora che se ne andasse via, a costo di sbatterlo fuori a calci io stessa. Sì, certo, interessante, è stato un piacere, a mai più rivederci! E poi dritto fuori dalla porta.

«Probabilmente se avessi avuto una donna da cui fare ritorno dopo ogni missione, l'avrei trovata morta di crepacuore già alla prima. Su questo non ho molti dubbi», rispose con un sorriso affabile.

Purtroppo pareva che qualunque essere lassù non mi stesse affatto aiutando: ora mia madre aveva la strada spianata.

Mia sorella si trovava ancora nello stato di nubile sulla soglia dei trent'anni, e per la signora Harris questo voleva dire soltanto una cosa: tic tac tic tac!

Ogni tanto guardava Alexandra, tentando di farle capire che doveva dare a quell'uomo una possibilità, e mia sorella sembrava darle corda. C'era sempre qualcosa, nello sguardo di mia madre, che tradiva l'ineluttabilità degli eventi futuri; era una sorta di Cupido, ed era riuscita a trovare marito persino alla sua amica Grace che viveva tutta sola in una casa in centro. Quando quella donna si prefiggeva un obiettivo, poi doveva metterlo in atto a tutti i costi. Forse era l'unica caratteristica che avessi ereditato da lei.

«In realtà non è la prima a dirmelo, sa? Ma mi reputo tutt'altro che uno scapolo d'oro, signora Harris», l'ufficiale fece un sorso di vino e io ne approfittai per sbirciare meglio le medaglie e le insegne militari che indossava. Era davvero una bella uniforme, mi domandai quante volte fosse stata stirata per quella singola occasione.

«Cosa vuole dire, capitano?»

Lui sorrise. «Vede, le donne che ho avuto sono scappate da me perché mi accusavano di essere troppo spericolato o troppo assente per i loro gusti», disse. «Loro erano molto pretenziose, io un uomo poco esigente. Non si poteva andare d'accordo, in nessun modo.»

"Accidenti, Peter! Davvero, che Don Giovanni!" fu inevitabilmente la prima affermazione che mi giunse in mente. Ogni minuto che passava diventavo sempre più stufa e insofferente.

«Ma ciò non toglie che io stia cercando la donna giusta e, quando la troverò, la farò sentire la persona più felice della Terra. Questo posso assicurarglielo, signora.»

Notai che, mentre parlava, il capitano Jones guardava mia sorella Alexandra con un sorrisetto da sbruffone. Lei, da parte sua, resasi conto di quella sfrontata malizia, chinò la testa e sorrise timidamente. Che visione sdolcinata... La charlotte alle pesche che aveva preparato Yvette, la nostra cameriera, non era già abbastanza dolce. Un'amarena glassata sulla cima e sarebbe stata una torta perfetta, quella cena, così perfetta da essere scaraventata sulla maledetta faccia di bronzo che, disgraziatamente, mi ritrovavo di fronte.

Mia sorella Mary e mia madre, dal canto loro, parevano due cagnoline scodinzolanti che avevano appena adocchiato una montagna d'ossa pronta per essere tutta sgranocchiata. Così, da brave impiccione quali erano, colsero la palla al balzo senza farsi alcuno scrupolo.

La mamma continuava a fargli domande sempre più impertinenti.

Mary gli sorrideva come non aveva mai fatto con nessuno.

Lui si crogiolava negli elogi e beveva vino con mio padre, come se fosse stato un cliente habitué di un locale. E poi c'era quella vistosa medaglia col nastro moiré azzurro appesa al collo a mo' di trofeo, e quella di bronzo a forma di croce appuntata sulla giacca, sotto il suo distintivo da pilota al lato sinistro del petto, con l'aggiunta di ben due foglie di quercia che stavano a indicare il suo essersi distinto in occasioni diverse nella stessa guerra; quest'ultima era talmente tirata a lucido che mi stava abbagliando. Lessi la piccola incisione: "For Valor", e nella mia testa riecheggiò l'assonanza: "Ma por favor!"

Il capitano Jones era già riuscito a conquistarsi i favori di tutta la famiglia, tranne i miei. A stento mi degnò di uno sguardo durante la cena, ed eravamo seduti l'uno di fronte all'altra. Ero invisibile, per caso? Non ero abbastanza attraente o degna per lui?

Thomas se ne restò zitto, come me, per gran parte del tempo.

Contro ogni mia previsione, quella serata si concluse anche più tardi di quanto sperassi. Ormai ero diventata intrattabile, alla fine non seppi dire con esattezza cosa mi avesse fatto più rabbrividire: le smielate lusinghe di mia madre, l'indifferenza di mia sorella nei miei riguardi, o forse soltanto il capitano Jones e la sua galanteria palesemente riciclata alla buona da un romanzo di Jane Austen.

«Dovrebbe iniziare e farci visita più spesso, capitano», civettò la signora Harris, quasi alzandosi sulle punte e sventolando la mano.

«Senz'altro! È stato un vero piacere, spero solo di non aver arrecato troppo disturbo trattenendomi per la cena. Era tutto buonissimo, comunque, grazie», rispose. Il braccio sinistro teso lungo il corpo e il destro piegato a sorreggere il copricapo sotto di esso. Chinò appena la testa, aggiungendo con tono più confidenziale: «Non sono molto abituato a... cenare con una compagnia che non sia composta dai miei uomini. Credo possiate capire», e guardò me per la seconda volta dopo quel pomeriggio.

Finsi un sorriso interessato, probabilmente il peggiore che avessi mai sfoggiato. "L'acqua cheta distrugge i ponti", pensai. A me non la dava a bere, quello lì...

«Non si faccia problemi, Jones! Un collega sarà sempre ben accetto nella nostra famiglia», finì mio padre.

«Grazie mille, signore.»

"Parla per te, papà", pensai io.

Il pilota-ufficiale-dei-miei-stivali si riassestò il berretto in testa e, sorridente come una Pasqua, andò verso la sua scintillante auto nera parcheggiata nel nostro vialetto.

Anche il suo portamento mi dava sui nervi, così spavaldo e impettito come un giovane galletto. E anche quel dettaglio si aggiunse all'interminabile lista immaginaria che avevo stilato quella sera stessa sul suo conto, che partiva dal sorriso da mascalzone e finiva... no, non finiva affatto!

Io e Thomas ci guardammo e ridemmo sotto i baffi, quando vedemmo Mary strattonare il braccio alla mamma sussurrandole qualcosa all'orecchio. Poi però anche lui se ne uscì con una frase che mi lasciò sconcertata: «Comunque non mi dispiacerebbe averlo come cognato, è stato un bravo soldato».

Chi diceva che Alexandra fosse davvero interessata a lui? No, di certo non era il suo tipo: troppo perfetto e uguale a tutti gli altri. Era così preciso, così privo di macchie e pulito, che doveva per forza nascondere qualche peccato grande quanto una portaerei sotto quell'uniforme.

Più si tenta di lavare via qualcosa, più si raschia e si consuma la superficie, e quell'ufficiale doveva avere parecchi buchi sparsi qua e là.

Poteva anche aver conquistato la mia famiglia, forse si era scavato una nicchia nelle grazie di mio padre per chissà quale motivo, fatto stava che a me non l'avrebbe mai avuta vinta.

Tornai in camera mia con un senso di pesantezza davvero insolito e fastidioso. Infilai la mia vestaglia e mi sdraiai sul letto, meditando sulla giornata appena trascorsa. Mi fissai su un puntino nero che macchiava il soffitto, probabilmente un ragnetto, e iniziai a pensare... a pensare e a capire in che modo avrei potuto liberarmi del senso di repulsione che mi aveva lasciato addosso quell'uomo. "Accidenti," mi dissi, "è stata solo una cena!"

Non mi fidavo di lui. Avevo sentito dire che gli uomini che erano partiti per il fronte anche solo un anno prima stavano tornando "cambiati", e che le mogli e le fidanzate avevano iniziato a disperarsi anziché essere felici per il loro rientro. I soldati che tornavano dall'Europa, talvolta, erano gli stessi che erano stati rinchiusi in campi di prigionia, torturati, che avevano ucciso troppo e che ormai avevano la coscienza talmente compromessa da avere timore di guardarsi allo specchio. E lui? Era uno di quelli? Forse era solo più bravo a portare la maschera dell'insensibilità.

Quell'uomo, il capitano Peter Jones, non lo conoscevo affatto, e non m'interessava neanche sapere per quali atti eroici si era guadagnato la Croce "For Valor" con le due foglie di quercia. Decisi che non mi sarei presa alcuna briga affinché la nostra conoscenza potesse andare ben oltre il saluto di cortesia, perché tra noi non avevo percepito alcuna affinità. Sperai soltanto che mia sorella non cascasse nella sua trappola, che si rendesse conto che doveva lasciarlo perdere: non doveva assolutamente riporre il suo futuro nelle mani di un uomo tornato dalla guerra, né il 10 giugno 1945, né mai.

Alla fine tirai le somme e giunsi a una sola, inevitabile conclusione: io lo detestavo a morte, questo era quanto. Non aveva fatto nulla per mostrarsi un po' più cordiale nei miei confronti né tantomeno sincero, e mi erano bastate poco più di tre ore per capirlo. La barriera fra noi era troppo spessa e lui si sentiva proprio in cima, al di sopra di me. Cosa gli avevo mostrato per far sì che mi guardasse in quel modo così apatico? Cosa voleva farmi capire? Probabilmente le mie congetture erano infondate, ma il mio istinto quella sera mi aveva detto di non fidarmi, e io lo avrei ascoltato.

Il biasimo era l'unico sentimento che riuscivo a provare pensando al capitano Jones, alla sua uniforme scura, al suo atteggiamento altezzoso nei miei confronti, e più ricordavo i suoi occhi più non riuscivo a prendere sonno. Era un tormento!

Non ci avrei messo molto, probabilmente mi sarei fatta odiare a mia volta così in fretta che lui non avrebbe avuto nemmeno il modo di ricordare il mio nome, e per il mio bene avrei fatto di tutto pur di riuscirci.

*

«Alex?» la chiamai, affacciata sulla soglia della nostra camera. Si stava ravviando i capelli, seduta davanti allo specchio della toletta.

«Entra pure, Cindy», mi parlò senza smettere di passarsi la mano fra le ciocche color mogano. Come ogni mattina, stava trovando la sistemazione perfetta per quei ciuffi ribelli sfuggiti ai bigodini.

Il sole era sorto da quasi tre ore, ma io mi ero svegliata solo allora con un unico, insistente chiodo fisso in testa. «Devo dirti delle cose,» iniziai, osservando il suo riflesso, «riguardano quell'ufficiale che è venuto ieri.»

Lei mi sorrise appena, continuando a cotonarsi le ciocche. «Ti ascolto.»

«Non mi piace», ammisi facendo un passo avanti. «Sul serio, non dare ascolto a quello che dice la mamma. Stagli lontana.»

Alexandra sfoggiò uno dei suoi soliti sorrisi comprensivi. «Davvero? Neanche un po'?»

«Neanche un millesimo!» un conato mi intasò la gola, lo bloccai prima che potesse andare oltre.

Lei scosse la testa sorridendo. «Oh, cara sorellina, arriverà anche per te il momento di abbassare le armi, credimi.»

«Quando capiterà, il povero disgraziato dovrà fare molto più di una banale apparizione in uniforme, con la bocca piena di meriti e senza un briciolo di simpatia», dissi, sollevando il mento.

«Uhm,» Alexandra aggrottò la fronte, «allora mi domando cosa dovrà fare un uomo per conquistare il tuo cuoricino così fiero.»

Il mio dovere lo avevo fatto e non volevo più parlarne, quindi prima di girare i tacchi e andarmene riposi: «Beh, io non ho intenzione di trovarlo tanto presto. Ma se proprio dovesse capitarmi di incappare in qualcuno, per cominciare, non dovrà piacere alla mamma», guardai fuori dalla finestra, «Non dovrà piacere per forza a tutta la famiglia e dovrà essere coraggioso, abbastanza da condividere con me lo spazio sulla sella di Napoleon.»

Mia sorella ridacchiò, come se avessi fatto una battuta. «Cindy, temo che dovrà imparare a condividere con te la vita intera, se è quello giusto.»

«Non vorrei sovraccaricarlo troppo,» dissi uscendo, «sarà pur sempre un ragazzo e a dispetto di ciò dovrà comunque stare al mio passo.»

«Sottovaluti troppo gli uomini, tu», mi rimbeccò.

Mi fermai sulla porta e alzai le spalle, come facevo sempre quando avevo una risposta ovvia sulla punta della lingua. «Loro sottovalutano me, anzi, noi tutte, quindi cosa ci vedi di così strano?» replicai. «Sai come si dice in questi casi, Alex, occhio per occhio e così via.»



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Le United States Army Air Forces ricoprirono, dal 1941 al 1947, il ruolo di forza aerea degli Stati Uniti d'America. Parti integranti delle forze armate statunitensi durante la Seconda Guerra Mondiale, erano poste alle dipendenze dell'Esercito finché, nel 1947, non venne istituito il Dipartimento della Difesa, comprendente le tre forze armate indipendenti di Esercito, Marina e Aeronautica la quale ultima venne riconosciuta con la nuova e attuale denominazione di United States Air Force.

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