ANEWEN, IL CANTO DEL FALCO

By IlRamingo26

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Anewen è il Capitano del Falco Rosso, uno dei tanti reggimenti che, al comando del Supremo Generale Lyondirr... More

Parte 1

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~PROLOGO~

Il pallido sole mattutino non era in grado di squarciare la nebbia che, come un grande spettro grigio, strisciava tra le tende, infiltrandosi in ogni anfratto possibile e avvolgendo l'accampamento in un manto di fresca rugiada. Era estremamente fastidiosa, perché gelava le ossa in profondità e intorpidiva i sensi, ma per i soldati in partenza quella nebbia non era altro che una cosa tra le tante. Le lame venivano affilate, gli scudi controllati e temprati, i vessilli spiegati e agitati nell'aria frizzante. Nel campo c'era una grande agitazione, ma tutto si svolgeva nel quasi totale silenzio. I soldati sapevano bene che, quando bisognava fare qualcosa, era inutile perdersi in tante chiacchiere, e perciò lavoravano veloci e precisi.

Partivano.

- Tutto chiaro? – la domanda aleggiò a lungo all'interno della tenda, ma nessuno dei sette Capitani presenti aprì la bocca per rispondere. – Dov'è il Generale? – chiese infine uno di loro con voce carica di rancore. Il cavaliere esitò per un istante, mentre sette paia di occhi si fissavano nei suoi, ma poi trovò le parole. – Il Generale... non ha bisogno di ascoltare nuovamente i piani d'avanzata, visto che è stato lui stesso a crearli. - - E si vede... - il commento acido di un altro Capitano fece sorridere tutti, ma il volto del cavaliere si tinse invece di rabbia. – Nessuno di voi pensi di disobbedire agli ordini! Non provate nemmeno a... - - Non c'è bisogno di metterla sul personale. Lyondirr ha decretato, e noi faremo. – - Perciò cosa devo... - - Puoi dire al Generale che tra due ore saremo pronti a partire. – la sentenza pronunciata da un Capitano con una lunga cicatrice sul volto fu definitiva, e tutti gli altri annuirono. Gli ordini erano stati dati, e loro avrebbero obbedito.

Non appena il cavaliere fu uscito dalla tenda, i Capitani scoppiarono in una litania d'imprecazioni che avrebbero fatto arrossire anche l'ubriaco più incallito. – Io non voglio gettare il mio reggimento in pasto a quelle dannate montagne! - - Ma perché non ci ha dato ascolto, quello schifoso figlio di buona donna? Perché deve sempre decidere di testa sua? – le invettive e le colorite esclamazioni si coprivano l'una con l'altra, creando un caos incredibile. – STATE ZITTI, PER GLI DEI! – l'elfo che aveva dato la sentenza finale alzò la voce sopra quelle di tutti gli altri, e fu ricompensato dal silenzio. – Lo so che tutta questa campagna militare è assurda, ma non possiamo tirarci indietro. Siamo stati chiamati, e non verremo meno agli ordini. L'unica cosa che possiamo fare ora è combattere uniti, senza disperderci, e pregare gli dei che questa dannata guerra si risolva velocemente! – gli altri Capitani rimasero immobili per qualche istante, riflettendo su ciò che avevano appena sentito. – Sarà, ma ho un gran brutto presentimento. – borbottò un elfo, alto e magro. – Passaremo alla storia come i primi Capitani a fare da balia al loro Generale... - commentò un altro, facendo sorridere tutti i presenti. Nella tenda calò di nuovo un silenzio nervoso, e infine, uno ad uno, i soldati uscirono con passo deciso verso i loro reggimenti. Nella tenda non rimase altro che la grande cartina su cui il Generale aveva fatto loro mostrare gli spostamenti previsti. Su un lato della pergamena, scritta con un inchiostro color del sangue, una frase diceva: " combatteremo veloci e letali, schiacceremo la feccia umana nelle loro stesse montagne e torneremo da vincitori cantando e danzando. Gli dei sono con noi. "

Il Capitano Anewen uscì per ultimo. Rimase da solo qualche istante, fissando la mappa aperta sul tavolo. Poi scosse la testa, sputò per terra, e infine andò verso il suo reggimento. Il tempo delle parole era finito. Si partiva.

I Cancelli Dorati si spalancarono lentamente, mentre le sentinelle guardavano attoniti la massa di soldati perfettamente inquadrati che scorreva sotto di loro. I sette reggimenti uscirono dal Regno uno dopo l'altro, ma l'unico rumore era quello prodotto dagli stivali che percuotevano la dura terra. E poi, in ultima posizione, apparve il Generale Lyondirr, sfolgorante nella sua splendida armatura dorata e accompagnato dalla sua scorta privata di Guardie Notturne. Il suo grande stendardo garrì libero, e mentre la cavalleria superava al galoppo i reggimenti, passandoli in rassegna uno ad uno, il tempo parve per un istante fermarsi.

Era uno spettacolo che non avrebbe mai più rivisto, lo sapeva bene. Sette reggimenti completi, perfettamente equipaggiati, con tanto di Cercavia e di Guardie Notturne. La sentinella rimase a contemplare i soldati fino a che un suo compagno non la chiamò. – Dahelel! Dahelel! – - Cosa vuoi, Sireanel? - - tu sei riuscito a contarli? Quanti diamine sono? - - Settemila, ragazzo mio, settemila! – rispose la sentinella. – E non ho ancora contato i cavalieri... - l'altro scosse il capo e si sporse pericolosamente oltre un merlo dei Cancelli Dorati. – E il Generale è... - - Lyondirr. – bastò quel nome per spegnere ogni domanda su chi potesse avere tanto potere per permettersi un esercito così potente. – Dannata politica. – rispose Sireanel dopo un momento di silenzio. Dahelel scoppiò a ridere. – Ah no, ti sbagli! Questa non è politica.... - - E allora cos' è? - - Questa è guerra, ragazzo mio. Guerra. -

- Odio le sfilate. – commentò Anewen dall'alto del suo cavallo. – Non avrei mai pensato il contrario... - rispose ironicamente il grosso elfo che gli stava accanto. – Lui e la sua dannata cavalleria... Guardalo come si pavoneggia! Sono pronto a giurare che stia cercando qualche soldato fuori posto! - - Beh, rimarrà deluso. Qui è tutto così... inquadrato... - il tono di Laraif fece trasparire il suo disgusto. – Lascia che passi una settimana, poi tutto quello che vedi non sarà altro che un lontano ricordo. Sui campi di battaglia non si sfila, si combatte. – Anewen scosse il capo, sospirando. Si voltò verso il suo reggimento, e come sempre si sentì riempire di orgoglio nel vedere il suo stendardo garrire fiero. Il Falco Rosso era pronto per spiccare il volo. Il Capitano si riscosse dai suoi pensieri e, alzando gli occhi verdi al cielo, fece qualcosa che non faceva da mesi, se non anni: pregò. Sperò che gli dei lo stessero davvero ascoltando, poiché stava per entrare nel luogo dove la neve regnava, il debole periva, e i predoni andavano a caccia. Stava giocando a dadi con signora morte, e chiese con tutto se stesso che gli dei li proteggessero. Altrimenti quel regno avvolto dalla neve e dal gelo perenne sarebbe diventato la loro grande tomba comune.

PARTE PRIMA

" Quando il drago sta per soffiare fuoco, il saggio ti direbbe di attendere la morte e di affidare la tua anima agli dei, lo stupido di correre senza voltarti indietro. Se devo essere sincero, non vedo nessuna differenza tra i due: entrambi muoiono."

Detto popolano

La nebbia avvolgeva il luogo come uno spesso manto grigio, rendendolo cupo e vagamente spettrale. Il gracchiare dei corvi lacerava ogni tanto l'aria e gli aguzzi massi spuntavano irregolari come i denti di un drago affamato. Hnreal calmò il cavallo irrequieto, accarezzandogli dolcemente il collo. Scrutò la vallata con i suoi penetranti occhi azzurri, cercando di stracciare con lo sguardo la pesante coltre grigia.– Signore? Cosa stiamo aspettando? – chiese una Guardia Notturna accanto a lui, con un lieve pizzico di paura nella voce. – Sta' zitto - sibilò l'elfo per tutta risposta. Non aveva nessuna intenzione di imbandire un discorso con un soldato spaventato. Stava cercando. Stava aspettando.

Non dovette passare una settimana. Bastò molto meno. L'ordine che regnava nell'esercito resistette fino alle pendici delle montagne, ma poi, quando i sette reggimenti dovettero dividersi e marciare lungo le strade prescelte dal Generale, ogni cosa precipitò. Il Falco Rosso fu uno dei primi a dividersi, ma nell'arco di due giorni anche tutti gli altri si trovarono a marciare nella neve da soli come cani randagi. Il potente esercito che era partito dai Cancelli Dorati si era diviso in sette colonne e, secondo gli ordini del Generale, ora ogni reggimento doveva dirigersi verso i punti da lui ritenuti strategici. In questo modo avrebbero costretto i predoni a combattere un'unica grande battaglia, dove gli uomini sarebbero stati spazzati via dalla potenza e dalla disciplina degli elfi. A molti Capitani questa idea era parsa assurda, perché si era un pieno inverno e si portava la guerra nel cuore stesso delle montagne, ma ribellarsi sarebbe stato inutile. Perciò ognuno di loro, seppur a malincuore, aveva posto le proprie mani in quelle di Lyondirr e aveva prestato il giuramento. Avrebbero combattuto fino alla morte, eseguendo gli ordini senza alcun indugio ed onorando la propria spada. Costasse quel che costasse.

Eccolo. L'uomo arrancava nella neve alta appoggiandosi a un bastone contorto quanto lui. – Voi rimanete qui - disse Hnreal alle cinque Guardie Notturne che lo avevano accompagnato, e nessuna di esse si azzardò a protestare. Che andasse da solo. L'elfo scese da cavallo e s'incamminò nella neve fresca, che ben presto raggiunse le sue ginocchia. Camminare divenne sempre più faticoso ma Hnreal non ci fece troppo caso. Era impaziente di raggiungere l'uomo che, a distanza di un centinaio di metri, si era fermato ad attenderlo. Quando lo raggiunse, però, l'elfo aveva il fiato grosso: era abituato ad andare a cavallo lui, non a camminare nella neve alta come un normale pezzente. Lo sciamano gli sorrise malizioso, mettendo in mostra una paurosa collezione di denti marci. Il suo corpo rattrappito e ingobbito era coperto da una pesante pelliccia grigiastra, sporca quanto la sua folta barba ispida, e le lunghe braccia magre artigliavano un bastone nodoso, sulla cui cima sorridevano due teschi lucidi e incisi con strane rune. Hnreal recuperò fiato, si sistemò il lungo mantello nero e cercò di riportare alla mente ciò che si ricordava di quei rozzi versi che i predoni definivano linguaggio. Fu lo sciamano a rompere per primo il silenzio. Pronunciato da quelle labbra l'elfico risuonò storpiato e rozzo, ma in quel momento a Hnreal non interessava la giusta dizione. – Accetta, elfo. Il Grande Padre accetta. La tua offerta è suonata ricca alle orecchie del mio padrone, ed egli pone la sua ascia al tuo servizio.- Hnreal dovette trattenersi per non esultare: finalmente, per Seyrehen, il Grande Padre aveva accettato. Dopotutto, giorni e giorni di contrattazioni avevano portato i loro frutti, si disse. Ma subito un sospetto gli calò nella mente. – E come posso sapere che questa non è un altro dei vostri sporchi trucchi? Sai bene che il mio progetto dipende interamente da voi - - Oh elfo - rise acido lo sciamano – Proprio non vuoi fidarti - - No- ribatté Hnreal irritato dal riso dell'uomo. – Sarei più tranquillo a infilare la mano in bocca a un grifone affamato- sibilò. Lo sciamano smise di ridere, e lo fissò con i suoi piccoli occhietti grigi. – E quindi, elfo? So bene anch'io che la tua vita dipende da noi. Tu devi solo fidarti. Ma se proprio non ci riesci e vuoi ritirare le tue offerte, beh, il Grande Padre potrebbe offendersi. E Quando la sua ira si accende, le montagne tremano. - Certo che tremano, pensò Hnreal, ma solo quando si mette a camminare. Con tutto il lardo che si porta addosso... Ovviamente non riferì il suo pensiero allo sciamano per non irritarlo ancora di più. Calcolò rapido ciò che sarebbe successo se avesse rifiutato, e la prospettiva non gli piacque affatto. I predoni erano la pedina essenziale del suo progetto. Ad eliminarli dal gioco ci avrebbe pensato più tardi. Ora gli servivano. – Mi fido. Tutto sommato, penso di potermelo permettere. Accetto. - Lo sciamano scosse leggermente il bastone e i teschi tintinnarono in modo sinistro mentre scoppiava in una rauca risata. L'elfo sentì la collera esplodere dentro di lui per quell'affronto al suo onore, ma si trattenne per un soffio. Maledetto, maledettissimo uomo, pensò con rabbia cieca. Avrebbe pagato oro per poter estrarre la sciabola e conficcargliela nello stomaco! – Molto bene. Il mio padrone sarà soddisfatto. Attenderemo ancora un tuo messaggio, elfo dalla nera armatura. - - Mi farò vivo quando i tempi saranno maturi. – ringhiò Hnreal, a denti stretti. La rabbia gli attanagliava ancora le viscere e, prima di compiere un gesto scriteriato, l'elfo preferì andarsene. Si voltò, ritornando sui suoi passi e ignorando completamente lo sciamano. Arrancò di nuovo nella neve alta, e non appena raggiunse il suo cavallo s'issò in sella con un unico fluido movimento. Finalmente al proprio posto, si disse. Quando si voltò verso il luogo dell'incontro, lo sciamano era già scomparso. Restò immobile per qualche istante, lasciando che il vento gli scompigliasse i lunghi capelli corvini. - Torniamo all'accampamento - disse infine ai soldati che aspettavano con impazienza.

– Ah – soggiunse voltandosi a guardarli uno a uno – Ricordate: voi qui non ci siete mai stati. –

-Restate uniti! Uniti o siete morti! – tuonò Anewen spingendo il cavallo tra le file dei soldati. Il corno squillò di nuovo, seguito da grida di rabbia e di allarme. Nel cielo volarono una ventina di dardi neri, che si dispersero nella neve a pochi metri dal sentiero in cui il Falco Rosso si era incamminato, senza causare danni: gli uomini avevano una mira davvero pessima. Alcuni arcieri estrassero le loro lunghe frecce per rispondere, ma Anewen ordinò loro di portarsi al centro della formazione, senza perdere tempo. Dotati solo di un'armatura leggera, non avrebbero resistito nemmeno un istante se si fossero trovati a dover affrontare i ben più agguerriti predoni. Il loro posto era dietro alle linee di picchieri che Anewen stava cercando di creare nel caos generale. Per la terza volta il corno lanciò il suo cupo richiamo nell'aria gelida, e questa volta un coro di urla feroci gli rispose. – Picchieri in prima fila! Veloci, per Seyrehen, veloci! - urlò ancora Anewen, sguainando la spada e alzandola verso il cielo. I predoni che stavano calando come lupi affamati dalle pendici innevate si avvicinarono ancora di più, e il capotribù che li guidava si fermò per soffiare ancora una volta nel corno che teneva in mano. Nell'altra stringeva una grossa ascia bipenne, pronta a reclamare le teste dei suoi nemici. Cercando di scavalcare la neve insidiosa e i massi più grandi, i picchieri iniziarono a disporsi su due linee, con le lunghe picche argentate che luccicavano nell'aria gelida. Ma i predoni erano troppo vicini, e gli elfi non sarebbero riusciti a organizzarsi prima dello scontro; perciò Anewen ordinò agli arcieri di tirare contro i predoni, cercando di arrestare il più possibile la valanga umana che gli stava piombando addosso. Ogni istante strappato alla carica degli uomini, era un istante dato ai suoi soldati affinché potessero schierarsi senza lasciare varchi nella formazione.

– Arcieri! Chi sbaglia andrà a riprendersi la freccia! Lanciare! – l'ordine serpeggiò immediato tra gli elfi, e per un istante l'aria venne riempita dal dolce fruscio delle frecce. Ci fu un attimo di totale silenzio, solo uno. Poi, come una pioggia di morte, centinaia di lunghi dardi precipitarono sui ranghi scomposti dei predoni: la massa in carica si accartocciò su se stessa, mentre le frecce mordevano le carni e si piantavano nei corpi protetti solo dalle pellicce. Gli arcieri miravano alto, per paura di colpire qualche loro compagno, ma i loro lanci erano ugualmente micidiali. Gli uomini venivano scagliati all'indietro dalla forza dell'impatto, e la neve prima immacolata si macchiò di sangue. Gemiti e urla di dolore si fusero nell'aria insieme al sibilante rumore degli archi: i predoni cadevano gli uni sugli altri, cercando protezione tra i compagni caduti e usando i loro corpi come scudi. Il pendio, prima popolato dalla paurosa massa di nemici, ora si era improvvisamente mutato in un mattatoio.

Ma Anewen sapeva che non era sufficiente. Questa non era una semplice imboscata. Questo era un vero e proprio assalto... i predoni cominciavano a fare sul serio. Gli archi continuavano a cantare e i picchieri si erano finalmente disposti a falange, ma neppure questa veloce organizzazione riuscì a intimorire i predoni, che invece lanciarono i loro rauchi gridi di sfida e cercano di avanzare il più possibile sotto la pioggia di frecce. – Cessare il tiro! – ordinò Anewen. Non voleva sprecare troppe frecce, e il pendio, nonostante la buona mira dei suoi soldati, era costellato da numerosi pennacchi bianchi. In montagna era praticamente impossibile fabbricare frecce decenti, perciò era meglio tenere quelle disponibili per lo scontro finale. Ora era compito dei picchieri calmare i bollenti spiriti degli uomini. Loro, e dei Cacciatori.

Se qualcuno avesse pensato a degli elfi capaci di bere come una spugna e di combattere come dei pazzi, senza altro scopo nella vita, avrebbe senza dubbio pensato ai Cacciatori. La storia di questo popolo elfico sprofondava le sue radici nell'alba dei tempi. Tutto era iniziato durante la Grande Marcia, ovvero i tre secoli di peregrinazioni continue nei quali gli antenati degli elfi avevano popolato le fertili pianure che si estendevano senza fine al d là delle regioni costiere. Alcuni pionieri, desiderosi di avventure, decisero di inoltrarsi nelle foreste che crescevano rigogliose a nord. Ben presto si resero conto del loro errore: quel regno verde, che a prima vista era sembrato un paradiso, era invece un posto infernale, glaciale d'inverno e freddo d'estate. Abbondava di prede, certo, ma anche di predatori; creature grosse quanto un cavallo e dotate di zanne lunghe come pugnali si aggiravano silenziose e letali tra le fronde, e ben presto gli elfi si erano resi conto che non conveniva loro rimanere. Ogni giorno passato nelle foreste richiedeva il suo tributo di sangue, e mese dopo mese il numero dei pionieri diminuì in modo allarmante. Paura e sfiducia si diffusero a macchia d'olio, e ben presto il richiamo delle molto più tranquille pianure si fece sentire. Tuttavia, come sempre, vi era l'eccezione. La leggenda narra infatti che nel gruppo dei pionieri vi fosse anche l'elfo Aqwelle. Egli era un tipo rissoso e caotico, sempre pronto a ridere e a bere quanto a bestemmiare e a menare le mani. Diceva, al contrario di tutti gli altri, di amare profondamente quel luogo pericoloso e selvaggio, e scherniva chi voleva fuggire via: per lui erano solo dei codardi, incapaci di reggere qualche piccola difficoltà. Non passò molto tempo che i pionieri, uno dopo l'altro, tornarono tutti alla loro amata pianura. Aqwelle era invece deciso a dimostrare che si poteva vivere in un luogo così inospitale; perciò, non appena l'ultimo carro era uscito dalla foresta, si era messo in spalla un sacco colmo di viveri e, dopo aver preso le sue due asce bipenni e aver sputato per disprezzo alla sua razza troppo debole, si era inoltrato nella buia foresta. E la sua storia avrebbe potuto finire qui, ma Aqwelle non era destinato a scomparire nello stomaco di un qualunque predatore. La sua leggenda iniziò quando, durante una notte oscura, un branco di enormi lupi accerchiò il suo fuoco e lo assalì, sperando in una debole preda ignara. Ma Aqwelle era tutt'altro che tale e, rapido come una serpe velenosa si gettò con un grido di gioia contro quella valanga di zanne. Scavò un solco di sangue nel branco e mulinando le sue due asce gemelle abbatté con un solo colpo il capo del branco, un mostro nero come la morte. I lupi sopravvissuti smisero immediatamente di cercare di squartarlo, e offrirono la gola al loro nuovo padrone. Aqwelle, sporco del sangue del lupo alfa, capì in quell'istante quale fosse il suo destino. La foresta l'aveva accettato nel suo cuore più selvaggio, e lui non se ne sarebbe mai più separato. L'elfo vagò per anni in compagnia dei suoi nuovi compagni, sfidando creature da incubo e lottando ogni istante per la propria vita, imparando a conoscere i misteri e le leggi di quel regno verde. Il suo branco crebbe di numero, i suoi lupi si fecero sempre più aggressivi e letali, e i loro ululati ben presto divennero la voce della morte, che rimbombava tra gli alberi immobili e volava con il gelido vento della notte.

Nel frattempo nella foresta era giunto un altro gruppo di elfi. Tuttavia questa volta non erano pionieri affamati di avventure ma condannati a morte, pazzi, schiavi fuggitivi. Per loro la foresta non era il luogo ammantato di cupe leggende che gli anziani raccontavano con paura ai più piccoli, ma una verde speranza in cui la civiltà non contava nulla, e dove le loro colpe non li avrebbero mai più costretti a fuggire.

Aqwelle, ormai vecchio, decise di mostrarsi e di aiutare quegli elfi che finalmente avevano trovato dentro di loro abbastanza coraggio per sfidare le gelide foreste del nord. Accompagnato dal suo branco di terribili predatori, divenne immediatamente il loro capo indiscusso. Elfi e lupi si allearono, in un patto sancito con il sangue e forgiato nell'oscurità della foresta. Aqwelle visse ancora per centonovantadue anni. Poi la foresta richiamò il suo servitore, ed egli lasciò libero il proprio spirito.

Morto l'elfo, i suoi seguaci edificarono in suo onore la grande città di Aqwelnar, dove gli abitanti iniziarono ad adorarlo come il dio - lupo, come il dio delle due asce. Aqwelnar è perfettamente fusa con il verde regno, e si narra che, se mai dovesse trovarsi in pericolo, la stessa foresta interverrà per proteggerla.

Non passò un secolo che gli elfi di Aqwelnar decisero di scindersi politicamente ed economicamente dai fratelli delle pianure. Nacquero così i Cacciatori, elfi della foresta, alleati e compagni dei grandi lupi della notte.

I Cacciatori massacrano i nemici con rabbia e con brutalità: mentre lo fanno cantano, innalzando al cielo le lodi ad Aqwelle e ringraziandolo delle prede che è loro consentito abbattere. La loro civiltà è basata sulla forza e sull'indiscutibile bravura nel combattere: armati delle armi del loro dio, i Cacciatori si procurano il cibo e difendono le loro famiglie dalle belve della foresta che ancora non vogliono essere sottomesse.

Fu re Vheriem III, della dinastia della Luna Dorata, ad avere l'idea di arruolarli nel suo esercito come truppe d'élite. I Cacciatori accettarono subito, felici di poter mostrare al mondo la potenza del regno verde. Così, da quella volta, ogni anno un certo numero di elfi delle foreste viene arruolato tra i reggimenti. Prima di partire, viene donata a ciascun guerriero una coppia di asce bipenni, in memoria delle armi del loro dio Aqwelle, e viene fatto loro giurare di combattere fino alla morte.

Ad Anewen, a differenza di molti altri Capitani, piaceva molto il loro modo di combattere: nel suo reggimento i Cacciatori erano circa centocinquanta, mentre di norma avrebbero dovuto essere non più di ottanta. Questa eccezione non era sempre vista di buon occhio, anche per il fatto che i Cacciatori erano sempre pronti menare le mani e spesso provocavano risse. Ma Anewen sapeva bene come trattarli: dopo averne impiccato un paio, colpevoli di omicidio, aveva fatto capire alle teste più calde che con lui non si scherzava. E ora, dopo anni e anni di servizio, i suoi Cacciatori lo rispettavano come un padre. Così, quando Anewen ordinò loro di prepararsi a combattere, obbedirono con un ghigno.

Alla fine i predoni erano ormai riusciti a giungere davanti alle picche, e tra la massa alcuni uomini armati di balestre iniziarono a scagliare i primi bolzoni. Tuttavia i picchieri, sebbene privi di scudo, erano difesi da quelli dei fanti che si erano disposti tra le loro file: i dardi si abbatterono con sordi tonfi sul cuoio e sul ferro, producendo lievissimi danni. Qua e la qualche elfo cadde a terra con un gemito, ma i compagni si affrettavano a serrare i ranghi e i feriti vennero portati al sicuro. I predoni scagliarono ancora qualche colpo, ma poi, stanchi di tutta quella fatica inutile, con un alto urlo d'incoraggiamento si lanciarono a testa bassa contro le linee degli elfi. Altri rinforzi erano apparsi sul pendio, e Anewen ebbe così la conferma che quella non era una semplice imboscata. Quello era un vero e proprio attacco. – Picchieri!- urlò. – Mantenere la posizione! - gli elfi spianarono le lunghe picche e strinsero i denti, pronti all'impatto. Non dovettero aspettare molto: i predoni superarono i pochi metri che ancora li dividevano dai loro nemici in un solo istante, urlando come bestie impazzite.

E si scatenò l'inferno.

L'aria si riempì improvvisamente di urla e di schizzi di sangue, mentre decine e decine di uomini venivano trapassati dal ferro elfico: le pellicce offrivano ben poca protezione e le picche dilaniavano le carni meravigliosamente bene. Nonostante i compagni venissero sbudellati, i predoni continuavano ad assaltare, mulinando le loro rozze armi e imprecando contro i nemici. La linea elfica resistette al primo terribile impatto, anche se in più parti vacillò pericolosamente. Nonostante ciò, Anewen vide che erano riusciti a resistere. Il primo assalto era sempre quello più pericoloso, ma loro erano riusciti a resistere grazie all'abilità dei picchieri, che non avevano ceduto alla valanga umana e avevano mantenuto la posizione. – REGGERE! REGGERE! REGGERE! - Un elfo scattò all'indietro con uno squarcio nell'elmo, e un altro rantolò nella neve. I picchieri ora erano così impantanati nella massa dei predoni che non riuscivano a muovere bene le loro armi, e il compito di fermare i predoni era dei fanti, che con le loro lunghe lame colpivano dall'alto dei loro scudi. Ma non poteva durare per molto. Sulla destra, la linea di picchieri s'incrinò paurosamente quando un gigantesco uomo caricò con una mazza le compatte linee dei nemici: incurante del colpo che lo raggiunse al braccio, spaccò la testa a un elfo e tranciò un braccio a un altro. Colpì ancora, spiccando di netto la testa di un fante con un solo colpo brutale. Alla fine però una spada riuscì a colpirlo al volto, scavandogli un solco nella guancia barbuta, e un'altra lama lo trapassò al basso ventre: i visceri caddero nella neve, e finalmente l'uomo sembrò percepire il dolore. Cercò di rialzarsi, trattenendo l'intestino con le mani, ma svelto un fante pose fine alle sue sofferenze con un misericordioso colpo di spada alla gola. Per nulla intimoriti dalla fine del loro compagno, i predoni raddoppiarono gli sforzi per sfondare, e lentamente, sotto la pressione del nemico, la linea dei picchieri e dei fanti iniziò ad arretrare.

Anewen comprese subito la pericolosa situazione. Se i predoni avessero sfondato, il centro e l'ala sinistra sarebbero stati attaccati da due fronti diversi. – ALA SINISTRA! TENAGLIA! TENAGLIA!- urlò sopra il rumore della battaglia. L'alfiere udì chiaramente l'ordine, perché il vessillo iniziò a sventolare secondo schemi che ogni fante era addestrato a riconoscere. E in un solo istante il flusso della battaglia mutò.

I picchieri dell'ala sinistra iniziarono a spingere in avanti, spostando il loro peso sulle lunghe armi, mentre quelli a destra strinsero ancora di più i ranghi. La Tenaglia era una manovra inizialmente lenta e pericolosa, ma che a ogni metro guadagnava sempre più potenza. E così successe. I predoni iniziarono a subire a loro volta la pressione di un ordinato muro di scudi, e sebbene le loro asce mietessero alcune vittime, la nuova organizzazione degli elfi li colse di sorpresa. I picchieri scandivano ogni passo con un urlo, e i fanti dietro di loro cercavano di proteggerli con i loro grandi scudi: l'effetto di un muro di picche improvvisamente compatto e che avanzava implacabile ebbe l'effetto di far vacillare per un istante i predoni, ma non così tanto da farli andare in rotta. Fu solo un attimo di respiro ma sufficiente affinché la tenaglia potesse iniziare a chiudersi.

– Cacciatori!- urlò Anewen, sguainando la spada e levandola verso il cielo. – Ala destra! Ricacciate indietro i bastardi!- come un unico branco affamato, gli elfi delle foreste, che non aspettavano altro, innalzarono un fragoroso ululato di battaglia e caricarono i predoni che ormai avevano quasi massacrato i picchieri sulla zona destra. Andavano a caccia. E le loro asce avevano fame.

I lupi sono animali molto intelligenti, tanto da avere bisogno di un capo branco. E i Cacciatori, che tutto sommato ragionavano allo stesso modo di un branco di lupi, avevano bisogno di un leader. Dei centocinquanta elfi delle foreste al servizio di Anewen, Laraif era il Capocaccia. Non era né anziano né saggio, ma tra i Cacciatori vecchiaia e saggezza sono requisiti che non contano poi molto. Laraif era invece parecchio giovane e terribilmente abile nel maneggiare le sue due asce bipenni. Aveva scalato i ranghi in pochissimo tempo, sfidando e vincendo ben sette suoi superiori. L'aveva fatto non perché fosse assetato di potere, ma semplicemente perché amava combattere. Aveva il raro dono del comando, e i Cacciatori gli obbedivano senza fiatare, sapendo che Laraif li avrebbe sempre portati alla vittoria.

E ora lo seguirono correndo nella neve candida, urlando tutta la loro gioia. I predoni non si aspettavano certo di essere caricati a loro volta, ma raccolsero la sfida e partirono al contrattacco. I Cacciatori superarono i picchieri esausti, e dopo nemmeno un metro, entrarono in collisione con i predoni. L'effetto fu devastante da entrambe le parti. L'aria venne trafitta dalle urla e dal cozzare delle armi, mentre elfi e uomini iniziavano il massacro.

L'uomo lo attaccò con una strana mazza ferrata, cercando di colpirlo alla testa. Laraif lo lasciò fare, schivando un paio di colpi che, se lo avessero raggiunto, gli avrebbero aperto la testa come un frutto troppo maturo. Poi, come un fulmine, mentre l'uomo alzava le braccia per assestare un altro colpo, gli piantò una delle asce nel petto. Torse il manico e un alto schizzo di sangue cupo lo colpì sull'armatura. Calò la seconda ascia sul collo scoperto dell'avversario, e la sua testa rotolò nella neve oramai rossa. Seguendo lo slanciò dell'arma tranciò il braccio di un altro uomo, che il suo compagno Hofel prontamente decapitò con un ghigno. Squarciò il viso barbuto di un predone urlante, poi ne colpì un altro e ancora un altro. Le sue due asce sembravano avere vita propria mentre affondavano feroci nelle carni e nei tendini degli sfortunati. Ruggendo la propria rabbia, un predone lo colpì al basso ventre, ma la sua spuntata arma non riuscì a penetrare l'acciaio decorato. Irritato dal suo gesto, Laraif gli dilaniò il braccio dal gomito al polso, per poi tranciargli la gola con un ululato di vendetta. Un martello quasi lo raggiunse al petto, ma il Capocaccia si lasciò cadere sulla neve e l'arma sibilò a qualche centimetro sopra di lui. Senza perdere tempo a rialzarsi, Laraif tranciò con un colpo secco entrambe le caviglie del predone. L'uomo non riuscì a toccare la neve che il Capocaccia gli frantumò il capo con rabbia. Hofel, sempre sulla sua sinistra, fu ferito al braccio, ma non fece in tempo a mettersi sulla difensiva: con un agghiacciante rumore di ossa maciullate, un martello lo colpì in pieno petto e l'elfo crollò nel proprio sangue come un'icona in frantumi. Laraif ringhiò il proprio dolore per il compagno caduto e senza riflettere assaltò con un ruggito il predone. La sua testa volò alta nel cielo quando entrambe le asce sporche di sangue lo colpirono al collo, mozzandoglielo in una fontana vermiglia. Fennair occupò il posto di Hofel e fu subito assalito; tuttavia le sue due asce volarono ancora più veloci e altri due predoni si aggiunsero all'inferno.

I Cacciatori stavano facendo il loro dovere e la loro bravura, unita alla rapidità nei riflessi, faceva sì che il numero maggiore dei predoni non fosse uno svantaggio. Ridendo e ululando, le truppe scelte del Falco Rosso stavano tenendo testa a un numero molto più elevato di nemici, massacrandoli uno dietro l'altro. Ovviamente anche alcuni Cacciatori cadevano sotto le asce nemiche, ma ognuno di loro portava con sé almeno una dozzina di nemici, prima di cedere. Mentre i Cacciatori stavano rinsaldando l'ala destra, quella sinistra continuava a fare pressione sulla massa dei predoni, costringendoli passo dopo passo ad arretrare. La tenaglia si chiudeva sempre di più. – Ora il colpo di grazia, e che gli dei ci assistano - sussurrò Anewen. Scese da cavallo e affidò le redini a un soldato che perdeva sangue da un lungo taglio al braccio. – Fanne buona guardia – ordinò al picchiere ferito. Si dispose tra i fanti che, dietro i picchieri, attendevano in cupo silenzio. Nell'aria risuonavano i clangori dello scontro che ancora bruciava l'ala destra, le imprecazioni e i singulti di sconfitti e morenti. Un vento gelido come le dita della morte iniziò a soffiare tra i massi, e il suo basso lamento si unì agli ululati di guerra dei Cacciatori e al rumore della regolare marcia dei picchieri in avanzata. – FANTERIA AVANTI! ALA SINISTRA AUMENTARE IL PASSO! ALA DESTRA PRESSIONE! VELOCI, PER SEYREHEN, VELOCI! – gli ordini di Anewen scivolarono rapidi tra le file degli elfi, e dopo qualche istante l'esercito si animò improvvisamente. I picchieri dell'ala destra, che avevano sopportato lo scontro maggiore ma che ora si erano ritirati lasciando il posto ai Cacciatori, si unirono di nuovo alla mischia, questa volta tenendo le picche ben serrate tra di loro. Nello stesso tempo l'ala sinistra aumentò ancora di più il passo, e la pressione sugli uomini aumentò inesorabile. I Cacciatori poterono prendere fiato un istante, ma solo per gettarsi nuovamente nel sanguinoso corpo a corpo.

Ma questa volta non erano soli. Anewen, a capo di circa trecento fanti, coprì la zona che l'ala sinistra, spostandosi, aveva lasciato pericolosamente vuota. – Chiudere i ranghi!- ruggì il Capitano alzando in alto la spada – SCHIERA COMPATTA! FALCO ROSSO UNITO! – l'urlo che arrivò come risposta fu tanto alto da coprire persino le grida dei predoni, e come una sottile lama argentea i fanti elfici entrarono nella mischia.

La lama tranciò i capelli umidicci dell'uomo e Anewen la estrasse accompagnata da un getto di sangue e cervello. La predatrice calò ancora e ancora una volta, reclamando a ogni affondo un'altra anima. I fanti accanto a lui si stavano facendo largo tra il numero dei predoni, che tuttavia non davano segni di cedere. Anewen parò un colpo d'ascia che avrebbe potuto amputargli la gamba, e rispose mandando la lama a conficcarsi nel basso ventre del predone. Impresse alla spada un movimento a esse, e le pallide viscere dell'uomo si riversarono sulla neve candida. Una mazza lo raggiunse alla spalla, e l'elfo sentì l'armatura gemere sotto quel colpo improvviso; nonostante il dolore acuto che si diffuse nel braccio il ferro nemico non riuscì fortunatamente a spezzare la resistente corazza temprata. Il Capitano decapitò con un solo fluido gesto lo stolto che aveva osato colpirlo e usando la spada a due mani tranciò la gamba ad un altro nemico. L'uomo cadde a terra, Anewen lo colpì in pieno viso e sentì il cranio spezzarsi. Uccise e uccise ancora, ma non bastava. I predoni non volevano cedere, sebbene la pressione delle due ali si facesse ogni istante più potente, e i Cacciatori, sebbene in netta inferiorità numerica, stessero mietendo un numero di vittime paurosamente alto. Anewen non riusciva a capire come diamine facessero i predoni a continuare a resistere in quella carneficina: anche se numerosi, decine e decine di loro cadevano ogni minuto. Sapeva che i predoni adoravano combattere, ma quello scontro si stava rivelando troppo difficile anche per loro! Poi però, quando il fante davanti a lui fu letteralmente tagliato a metà, comprese il motivo. Il capotribù calò ancora l'ascia in un arco devastante, che spezzò lo scudo levato per proteggersi e frantumò le ossa del braccio. L'uomo era coperto da una pesante pelliccia di orso, e stringeva un'enorme ascia a due mani, lorda fino al manico di sangue elfico. Ecco perché non cedono, pensò Anewen osservando la bestia che gli si parava di fronte. Hanno più paura del loro capo che delle nostre armi! Un picchiere cercò di fermare il capotribù e riuscì a ferirlo ad una gamba, creando sulla pelle sudata un lungo taglio rossastro. L'uomo sembrò tuttavia ignorare il dolore e colpì lo sfortunato elfo tanto violentemente che l'ascia lo passò da parte a parte, in uno spruzzo di sangue e brandelli di carne. – Vieni qua bestia!- tuonò Anewen – Fatti sotto, brutto sacco di merda, vediamo che sai fare! Avanti!- Certamente il predone non sapeva l'elfico, ma il messaggio fu chiarissimo: quel piccolo elfo lo stava sfidando. Ruggì la sua rabbia e, agitando intorno a sé l'ascia, partì alla carica. Il tempo sembrò fermarsi mentre Anewen si metteva in posizione di difesa e il capotribù solcava i pochi metri che ancora li dividevano in poche, lunghe falcate. Il primo colpo del predone avrebbe potuto staccare la testa in un soffio ad Anewen, ma l'elfo si limitò a schivare il colpo. La predatrice morse la carne scoperta, ma ciò fece infuriare ancora di più l'uomo, che calò l'ascia dall'alto verso il basso con il chiaro intento di schiacciare il Capitano. Anewen alzò la lama e parò il colpo, ma la tremenda forza dell'impatto gli intorpidì il braccio e dovette scansarsi per non venire colpito. Scansò un altro colpo, e un altro ancora. Ferì più volte il gigante, ma non riusciva a trovare un punto vitale e il braccio gli doleva. Si chinò rapido e, dopo un'ulteriore schiavata, mandò la predatrice a mordere finalmente il basso ventre dell'uomo. Il predone arrestò per un attimo la valanga di attacchi, mentre il dolore si faceva strada nella sua piccola mente: sgranò gli occhi e sul volto barbuto si dipinse un' espressione stupita. Prima che Anewen potesse estrarre la propria arma, però, scattò in avanti e calò l'enorme arma contro il proprio avversario. Il Capitano aveva ancora la lama piantata nel ventre dell'avversario e non riuscì a schivare il colpo. O meglio, lo schivò solo in parte. Il ferro si abbatté sulla spalla dell'elfo e avrebbe dovuto mozzargli di netto il braccio, ma poiché si stava già spostando, l'ascia colpì lo spallaccio di striscio e gli scavò un solco nel braccio. Anewen percepì il dolore diffondersi rapido e il sangue scorrere dalla ferita; fortunatamente, però, era ambidestro, e passò la predatrice dal braccio ferito a quello sano. Un solo istante dopo dovette schivare un altro colpo del capotribù, che cercava di finirlo con colpi possenti, nonostante un copioso rivolo di sangue gli colasse da sotto la pelliccia d'orso, segno che Anewen aveva colpito a fondo.

– Facciamola finita - pensò l'elfo cercando di combattere il dolore che gli artigliava la mente. La ferita era abbastanza profonda e l'elfo stava perdendo troppo sangue per rimanere indifferente al taglio ricevuto. Dopo aver schivato l'ennesimo colpo, questa volta più goffo e più lento dei precedenti, iniziò una serie di rapidi affondi contro il predone. Era ora di chiudere il ballo. La predatrice fendette l'aria a pochi millimetri dal viso del predone, e il capotribù alzò istintivamente l'ascia a intercettare il colpo, ma la lama dell'elfo era già scesa al suo ventre. Questa volta Anewen colpì con tutta la forza che aveva nel braccio, e la lama della Predatrice sprofondò fino all'elsa nel corpo del predone. L'uomo emise un grugnito di sorpresa. Cercò di alzare ancora una volta l'ascia, ma le forze scorrevano via rapide. Fissando con occhi vacui l'elfo davanti a lui, capì finalmente di essere morto. Tentò di dire qualcosa, ma dalle labbra serrate uscì solo un grumo di sangue. Poi cadde riverso nella neve, e con il capotribù crollò tutto il desiderio di battaglia dei predoni.

A voltare le spalle e fuggire iniziarono quelli che avevano visto la fine del loro capotribù e poi, come una diga rotta, anche tutti gli altri. Le due file di picchieri, che ora erano una di fronte all'altra, non dovettero fare altro che aumentare il passo. Decine di predoni vennero trapassati dalle sottili lame, e altri furono falciati dai fanti e dai Cacciatori. – Non lasciatene in vita neppure uno!- ululò Laraif, alzando in aria le due asce bipenni lorde di sangue. Aveva un lungo taglio sul viso e il sangue gli trasformava il viso pallido in una maschera di odio e di rabbia. Caricò le schiene dei predoni, imitato dai suoi guerrieri e dai fanti che combattevano sull'ala destra. Fu una strage. Gli elfi, costretti fino a quel momento a combattere sotto pressione come cervi braccati, ora si scatenavano e lasciavano che la paura prima provata si trasformasse in sadica gioia: le lame e le picche affondavano crudeli nelle schiene dei nemici in fuga, colpendoli senza pietà. Tuttavia gli elfi erano terribilmente stanchi e quando i predoni uscirono dalla loro portata, non ebbero abbastanza forza per inseguirli. Solo Laraif e i Cacciatori cercarono di correre dietro ai predoni per continuare il massacro ma Anewen li richiamò con un secco ordine. Era ben conscio che i predoni in fuga apparivano come una preda alquanto ghiotta, ma sapeva anche che era meglio non andare a stuzzicarli troppo. Quello scontro era stato duro e, nonostante la vittoria, molti di loro non avrebbero rivisto l'alba del giorno seguente. – Falco Rosso! Lasciateli andare ragazzi, non esponiamoci ancora! Arcieri, non tirate! Non voglio che si sprechino frecce! – Anewen rinfoderò esausto la Predatrice, senza curarsi di ripulirla dal sangue. L'avrebbe fatto dopo. Ora voleva solo tre cose: un rapporto completo delle perdite subite e inflitte, una benda sulla spalla e un fuoco a cui scaldarsi, il tutto possibilmente accompagnato da una tazza di sidro fumante. – Raccogliete i caduti, e preparatevi. Ci accampiamo alla prima radura. – ordinò, e i suoi soldati si affrettarono ad obbedirgli. La notte era vicina.

La società degli elfi di pianura, detti anche Hurreneryl, era semplice, molto semplice. Forse proprio perché era una monarchia. L'imperatore, sommo occhio degli dei, consacrato da Seyrehen e tre volte benedetto alla felicità terrena e divina, era in cima alla piramide sociale ed era dotato di libertà e poteri illimitati. Sotto l'imperatore vi erano i Figli d'Argento, meglio detti Supremi. Essi appartenevano alle Grandi Casate più importanti e più ricche, che detenevano nelle loro mani il cuore pulsante della civiltà elfica: in pratica, il vero potere era detenuto dai capi famiglia di queste Grandi Casate, verso cui l'Imperatore doveva mostrare rispetto e, a volte, persino sottomissione. I Supremi avevano ricchezze e potere oltre ogni misura, ma non era questo a renderli tanto speciali: ciò che li rendeva intoccabili era il fatto di essere considerati superiori a tutto a tutti, in quanto strumenti con cui gli dei portavano e compivano il loro volere tra i mortali. Il braccio militare, composto da Capitani e soldati, li odiava e li ammirava nello stesso tempo, vedendoli come traguardi ultimi ed irraggiungibili della felicità perfetta. Ma se per i soldati erano modelli da imitare e da raggiungere, per i popolani, sgabello ai piedi dell'Impero, era un miracolo anche solo intercettare un loro sguardo di puro disprezzo. I popolani erano incatenati alla terra e ai loro campi e non avevano nessuna possibilità di salire a livelli sociali più elevati: il loro unico compito era di rifornire di cibo le mense dei Supremi e dei soldati, e dovevano farlo al prezzo della loro libertà. Questo non era considerato né giusto né sbagliato: semplicemente era la vita. Non appena un popolano respirava la sua prima boccata d'aria veniva inchiodato per sempre alla propria classe; non solo fisicamente, ma anche mentalmente: un popolano si sarebbe scandalizzato a vedere un Supremo girare tra le case del suo villaggio e parlare con la sua gente... i Supremi erano simili agli dei, e non potevano abbassarsi a tanto! Naturalmente, da parte dei Supremi, questa cosa era identica: un Figlio d'Argento non si sarebbe mai abbassato a entrare in contatto con uno sporco popolano, piuttosto si sarebbe allegramente conficcato un pugnale tra le costole.

Anewen, insieme a pochi altri, era un'eccezione.

Era nato dal Generale Finindir e dalla nobile Shara, entrambi Supremi. Era cresciuto tra i Supremi, aveva respirato con i Supremi, aveva studiato la sottile arte della guerra con i Supremi. Ma lui, dentro di sé, era altro. Qualcosa in lui non andava. Anewen non provava disgusto a parlare con i soldati e ai popolani, anzi, in ogni momento libero amava recarsi ai luoghi di tiro e osservare gli arcieri allenarsi. I popolani erano sbigottiti dal fatto che un Supremo osasse respirare la loro stessa aria, e molti altri erano preoccupati da quest'atteggiamento assurdo... ma poco alla volta si erano abituati alla sua presenza e Anewen era persino divenuto amico di alcuni di loro, che iniziarono a capire che i Supremi forse non erano poi così irraggiungibili. Suo padre Finindir era occupato sul fronte e sua madre Shara era troppo impegnata con la politica interna delle Casate per badargli, e Anewen crebbe praticamente da solo. Un freddo giorno d'inverno, mentre osservava i picchieri caricare su grandi carri le loro lunghe armi, incontrò un'elfa che quasi gli cadde addosso mentre cercava di reggere il peso di una cassa più grande di lei. Anewen l' aiutò a portare il pesante carico con un sorriso, e dopo averla accompagnata a casa, una piccola baracca di legno, le chiese come si chiamava. Jenéve, fu la risposta. Nei giorni seguenti Anewen fu troppo preso dalle lezioni di scherma per pensare al suo volto, e l'avrebbe dimentica se, un giorno, non l'avesse incontrata di nuovo. Questa volta lei gli chiese di accompagnarla a prendere i conigli caduti nelle trappole che suo padre aveva sparso in un piccolo boschetto lì vicino. Anewen aveva accettato volentieri, e tra il sottobosco silenzioso e il fruscio dei rami avevano iniziato a parlarsi e a conoscersi. Jenève era dolce e sincera e, nonostante tutto, lottava con la forza di un leone contro ciò che il fato le riservava. Anewen ne rimase affascinato. Per lui vivere era scontato, avere un pasto caldo e un soffice letto di piume era più che ovvio. Ma non era così per tantissimi altri. Ascoltando Jenève, Anewen scoprì che la vita aveva un suo valore, che ogni respiro era più importante dell'oro finemente elaborato. Suo padre era abituato a manovrare le vite degli altri, e Anewen altrettanto. Arrivò la notte, ma i due sembrarono non accorgersene: camminarono per i campi, osservando le stelle e ridendo insieme. E poi, sotto un cielo stellato, scoprirono l'amore. Per la prima volta in assoluto, Anewen si sentì libero. Libero e felice. Il giorno dopo, rientrato a casa, non riuscì a pensare ad altro che al viso sereno di Jenève, e nel cuore gli si accese una fiamma che mai lo aveva bruciato. Certo, aveva già avuto altre donne, ovviamente figlie di Supremi, ma non era stato amore. Aveva semplicemente provato e rifiutato. Ma con Jenève era diverso: Anewen non pensava affatto al piacere fisico. L'elfa era riuscita a farlo sentire veramente qualcuno, non un'ombra ammantata di onore e ricchezza di un'antica Casata. S'incontrarono di nuovo, di nascosto ovviamente, e i mesi passarono felici. Giunse l'estate, e Anewen aiutò Jenève a portare il raccolto, a mungere le pecore e a pescare i pesci con le reti. La fiamma che bruciava Anewen ben presto raggiunse il cuore di Jenève. I popolani erano ormai abituati alla presenza di Anewen e più volte lo ospitarono nelle loro capanne. Passato l'iniziale sbigottimento, il figlio del Supremo era divenuto per molti popolani uno di loro. Mani nobili si erano infangate nella dura terra della vita reale, e questo testimoniava che gli dei non erano così lontani...

Come un lupo affamato tornò di nuovo l'inverno e, una mattina Anewen, entrando nella capanna di Jenève, la trovò piangente. Appena lei lo vide cercò di far finta di niente, ma l'elfo non lasciò correre. Le asciugò le lacrime e le chiese cosa non andasse. Jenève esitò, ma poi scoppiò di nuovo a piangere. Era incinta di Anewen, e aveva paura che ora lui non la volesse più. Sarebbe diventata più brutta, disse, e il suo corpo sarebbe cambiato per sempre. L'elfo rimase per un istante immobile, poi sul suo volto si dipinse un sorriso di pura gioia. Era padre! – Ti amo! - gridò abbracciando Jenève e baciandola. – Sei la mia stella. Ti amo, Jenève. Mi hai dato una gioia immensa. Ti amo. - e pianse per la felicità. La sua vita sembrava essere stata benedetta: sarebbe invecchiato tra i popolani, avrebbe cresciuto i suoi figli con passione e sarebbe spirato con il sorriso sulle labbra, stringendo Jenève al petto e contento della propria vita. Per Anewen, tutto questo valeva più della sua stessa Casata.

Ma quella felicità non era destinata a durare.

Pochi giorni prima che Jenève partorisse, Finindir, il padre di Anewen, tornò a casa. Un gruppo di popolani, che non aveva mai accettato il fatto che un Supremo osasse poggiare le sue mani pure sul capo corrotto dei loro figli, e osasse addirittura sporcarsi con la loro terra, denunciò Anewen e il suo folle comportamento. – Ha gettato il suo seme in campo popolano. Un Supremo non può abbassarsi a tanto. - dissero. E Finindir, rosso per la collera, tuonò di portare al suo cospetto quel figlio impazzito. Anewen era a casa di Jenève, e quando i soldati di suo padre fecero irruzione, estrasse la sua lunga spada. Prima di essere bloccato ne aveva uccisi tre e feriti due: per fermarlo dovettero farlo svenire con una pesante randellata sul capo. Lo trascinarono via di peso, insieme a Jenève e ai suoi genitori, urlanti e piangenti per la paura. Conoscevano bene il loro destino: a nulla valsero le suppliche, né le lacrime.

Anewen si era risvegliato in carcere, in mezzo ai topi e all'umidità. Aveva passato tre mesi in quelle condizioni, e ogni giorno faceva il giro della cella, chiamando Jenève e chiedendo di poter parlare con suo padre. Nessuno osava rispondere alle sue urla, ma un giorno una guardia, ubriaca, si affacciò dalle sbarre e, con un sorriso sulle labbra, gli disse che Jenève e i suoi genitori erano stati decapitati. Il giorno prima della sua esecuzione Jenève aveva partorito, ma era stato dato l'ordine di sopprimere anche il bambino. – Affogato come un topo in un catino d'acqua! – sghignazzò il soldato. – Ecco la giusta punizione. -

Anewen impazzì.

Un dolore cieco e lancinante gli dilaniò il cuore, e il continuo pensiero di essere colpevole lo trapassò come una lancia infuocata. Non mangiò né bevve più, e si lasciò morire. Arrivò a non potersi più alzare, e le guardie dovettero posargli la scodella del cibo direttamente a pochi passi dalle sue mani. Né il padre né la madre di Anewen si fecero vivi: per loro quel figlio corrotto non era mai nato. I custodi arrivarono al punto di predisporre una bara di legno, calcolando che il giovane elfo sarebbe sopravvissuto ancora per qualche giorno prima di cedere. Ma fu allora, ad un passo dalla morte, che il suo cupo dolore si trasformò in velenosa vendetta. Con le mani scheletriche, Anewen iniziò lentamente a mangiare. Nella sua mente era sbocciato un pensiero, che si era fatto sempre più forte e radicato in lui.

Come poteva un morto vendicare un'altra morte?

Il fuoco crepitava vorace, attaccandosi velocemente al legno delle pire funebri. Gli elfi caduti, una volta ripuliti dal sangue e dal fango, venivano gettati tra le calde fiamme mentre i compagni sopravvissuti innalzavano nel cielo il cupo lamento dei morti: pregavano il dio dei Neri Cancelli di accogliere le loro anime e di onorare il loro coraggio. Anewen osservò per qualche altro istante la triste cerimonia; poi scostò i lembi dell'ingresso della sua tenda ed entrò, chiedendosi quante altre volte avrebbe dovuto assistere a tali scene tra quelle montagne. Erano passate diverse ore dallo scontro con i predoni ma Anewen era ancora stanco. D'altra parte persino i Cacciatori, nonostante il loro fisico resistente, erano stremati, avendo sopportato lo scontro più brutale e feroce. Il Capitano aveva bendato la ferita alla spalla e il sangue si era fermato, e sebbene il taglio facesse ancora male, quella era la cosa meno importante. Anewen si sedette dietro al suo tavolino da campo, su cui era fissata la mappa di quel maledetto luogo. L'inchiostro e le frecce elegantemente disegnate indicavano gli spostamenti che i reggimenti stavano compiendo tra la neve e la pioggia invernali. Sarebbe stata una mappa veramente utile, se non fosse che le ultime modifiche erano state apportate più di dodici giorni fa, e gli elfi erano adesso tutt'altro che nei posti dove sarebbero dovuti essere. Anewen si passò una mano tra i capelli, guardando quella dannata mappa ancora una volta, ma ormai la conosceva a memoria... il Generale era la punta di lancia, il diamante che affondava nelle montagne sempre più a fondo. Dietro, a parargli le nobili chiappe, marciavano i reggimenti. – Idiota... stupido, patetico idiota... - sussurrò l'elfo, massaggiandosi con delicatezza la spalla.

All'improvviso un soldato gridò di gioia, subito imitato da molti altri, e il suono squillante di un corno destò Anewen dalla stanchezza che lo stava assalendo. – Finalmente una buona notizia! - disse. Si alzò e uscì dalla tenda, dove lo accolse subito un vento gelido e pungente che gli fece lacrimare gli occhi. I fanti e i picchieri stavano uscendo dalle tende, raccogliendosi al centro dello spiazzo per salutare l'arrivo di una decina di elfi incappucciati e coperti da lunghi mantelli bianchi. Uno di essi, appena scorse Anewen, abbassò il cappuccio e fissò gli occhi allegri nei suoi. – Siamo tornati, vecchio gufo, e ho tante belle cose da dirti! - - Buon per te, vecchio caprone, altrimenti ti avrei lasciato a gelare le vesciche qui fuori! – ribattè il Capitano. I Cercavia del Falco Rosso erano tornati, e gli elfi esultavano.

Nonostante il disonore che si era abbattuto sulle spalle di Anewen, egli restava pur sempre un Supremo e suo padre, sbollita la rabbia, fece in modo che non venisse condannato a morte. Così, dopo tre mesi di oscurità e fame, Anewen uscì dalle prigioni. Sebbene gli occhi fossero incavati e il passo malfermo, una rabbia enorme bruciava in lui, tenuta a freno però dall'intelligenza che lo ammoniva di non fare pazzie. Con la sua morte non avrebbe vendicato quella di Jenève. Suo padre e sua madre decisero di riammetterlo nella Casata in qualità di servo, ma Anewen rifiutò. Quelli non erano mai stati i suoi genitori. Tutto in lui era crollato, come un castello di carte troppo fragile. Anewen non aveva più scopi per vivere, se non un'inestinguibile voglia di vendetta. Così aveva ripudiato la sua appartenenza ai Supremi e si era arruolato come picchiere. Cercava la morte, qualcosa che avrebbe messo fine al dolore che lo straziava nel profondo e che lo avrebbe finamente portato alla pace. Ma nel suo sangue scorreva il fato, e non era destino che finisse con il ventre aperto o il cranio frantumato. Incapace di perdere deliberatamente uno scontro ed addestrato secondo l'arte dei Supremi, Anewen ben presto divenne famoso per la sua abilità e la sua ferocia in guerra. Dopo pochi mesi divenne infatti Scudiero di reggimento, e dopo cinque anni, sui campi insanguinati di Belaàsal, fu nominato Capitano. Dovette pensare a un simbolo per il suo nuovo reggimento: scelse un falco rosso, segno di forza, di rabbia, di dolore. Rosso, colore del sangue, di un cuore che batte. Ribattezzò la propria lama Predatrice, colei che toglie la vita, colei che fa soffrire, colei che in ogni istante vendica la morte ingiusta di Jenève. Egli non ricercava né la fama né le ricchezze: combatteva solo per vendicare e per cercare la pace. La sua tattica era caricare, caricare a testa bassa e scavare un solco di sangue nelle linee più resistenti del nemico. Tuttavia, ogni azione del genere costava un alto numero di morti, e Anewen fu costretto più volte a ritirarsi dagli scontri con poche manciate di soldati feriti e moribondi. La sua storia sarebbe potuto finire in quel modo, ricordato da tutti come il Capitano Pazzo, che sacrificava sangue e sudore per le sue follie, ma ancora una volta il destino non lo abbondonò. Quando un arciere, esasperato per quegli attacchi suicidi, gli rinfacciò coraggiosamente di usare le vite dei suoi soldati solo per raggiungere i suoi obiettivi insensati, per Anewen fu come se un pugnale arroventato lo avesse passato da parte a parte. Davanti a tutti i suoi soldati, rimase immobile, l'arciere tremante davanti a lui: quando alla fine parlò, nessuno credette alle proprie orecchie. – Perdonatemi. – sussurrò. – Non accadrà mai più. - Anewen si rese conto che stava facendo ai suoi soldati quello che i Supremi avevano fatto con lui: giocava con le loro vite. Da quel giorno in poi, il suo reggimento non fece più cariche suicide, né tantomeno fu costretto a ritirarsi per le perdite subite. I soldati notarono con un sorriso che qualcosa era cambiato negli occhi di Anewen. Aveva compreso il valore della vita. E mai più l'avrebbe dimenticato.

Non appena gli elfi iniziarono a espandere il loro dominio in zone che non conoscevano e che non avevano mai esplorato, si resero conto che i loro eserciti erano in grande difficoltà quando affrontavano nemici molto esperti del terreno in cui lo scontro aveva luogo. Dopo le prime sconfitte avevano iniziato a creare un gruppo di esploratori che battesse il campo prima che i due eserciti entrassero in contatto: ma anche così il vantaggio era minimo; durante le lunghe campagne il nemico comunque usava a proprio vantaggio le caratteristiche del luogo. Gli streteghi elfici, allora, per nulla scoraggiati, potenziarono ancora di più il raggio d'azione degli esploratori: il loro compito divenne quindi non solo quello di conoscere nei minimi dettagli il terreno della battaglia, ma anche ricavare ogni possibile informazione sull'intera regione in cui si trovavano gli elfi. Ponti, fonti d'acqua, campi, terreni pericolosi e foreste... tutto doveva essere annotato e riferito. Così nacquero i Cercavia, esploratori professionisti che accompagnavano i reggimenti in battaglia e battevano il terreno per primi, alla ricerca di qualsiasi cosa potesse essere utile o pericolosa per propri compagni. Nel Falco Rosso ce n'erano dieci, comandati dall'unico vero amico che Anewen avesse mai avuto. Elonir era capace di strisciare nell'ombra senza fare il minimo rumore e di distinguere le orme di un cavallo maschio da quelle di una cavalla gravida con un unico sguardo. In poche parole era un Cercavia che ogni Capitano avrebbe voluto avere con sé; tuttavia, il suo carattere e la sua sincerità fin troppo diretta gli avevano causato non pochi problemi. Prima di entrare nei ranghi del Falco Rosso, Elonir era stato al servizio del reggimento del Cervo Azzurro, sotto il comando del Capitano Lasynden, noto per la sua fame di gloria. Una volta, Lasynden aveva inviato un centinaio di fanti per conquistare una posizione strategicamente importante ma pesantemente difesa dalle truppe d'elitè nemiche: era un suicidio inviare così pochi soldati solo per potersi vantare di aver ordinato l'assalto, ma tutti avevano obbedito tetri. Come prevedibile, nessuno era tornato indietro per raccontare la totale disfatta subita. Elonir si era infuriato e pubblicamente aveva attaccato il suo Capitano con pesanti parole, definendolo uno schifoso parassita e un lurido avvoltoio, degno degli scarafaggi che raccoglievano lo sterco dei loro cavalli. Lasynden era diventato rosso per la rabbia e aveva ordinato immediatamente che Elonir venisse impiccato. Fortuna volle che Anewen fosse nei paraggi e che, scortato da Laraif e da alcuni Cacciatori, avesse assistito con un sorriso alle parolacce di Elonir. Sentito l'ordine di morte, Anewen si era avvicinato a Lasynden. – Quanto vuoi? - aveva chiesto. – Per cosa?!- – La sua vita. La vita di quel Cercavia. – Il Capitano del Cervo Azzurro stava per rispondergli di andare a farsi fottere e che niente lo avrebbe fatto desistere dall'impiccare quel brutto figlio di puttana, ma il sacco di monete che Anewen gli fece tintinnare davanti agli occhi fece cadere ogni sua reticenza. – E' tuo – disse, facendo sparire veloce il sacchetto. Così Anewen aveva salvato Elonir dal fare il suo ultimo ballo. – Spero di non essere caduto dalla padella alla brace... - aveva detto il Cercavia, facendo scoppiare a ridere tutta la scorta di Anewen. – Disobbediscimi, e tornerai su quel ramo. – aveva risposto il Capitano del Falco Rosso, con un ghigno. – Rispetta i miei ordini, e potrai morire contento! – Accolto nel nuovo reggimento e messo a capo dei Cercavia, Elonir aveva mostrato sin da subito di aver compreso appieno la frase di Anewen. Ben presto i due avevano scoperto di avere un sacco di motivi in comune per mandare all'inferno l'intero mondo, e tra un boccale e l'altro erano diventati amici. Passavano ore a parlare e a bere nelle osterie, discutendo sulle razze dei migliori cavalli o delle locandiere più belle. Anewen gli aveva addirittura raccontato della morte di Jenève. Elonir era stato zitto, aveva ascoltato, non aveva detto nulla. - Le parole sono inutili – aveva infine mormorato – ma se tu credi ancora in quello che eravate, lei non sarà morta invano. - E da allora, ogni volta che Anewen non riusciva più a reggere, e su di lui cadeva il pesante velo del ricordo, si sfogava con Elonir, che paziente lo ascoltava.

Elonir e i suoi Cercavia erano partiti qualche giorno prima del Falco Rosso, su diretto ordine di Anewen, e avevano cercato di mappare il più precisamente possibile tutto quell'intricato labirinto di neve e rocce. Durante tutto il viaggio erano rimasti lontano dal reggimento; il fatto che ora tornassero significava solo una cosa: il Generale si era fermato e chiamava a raccolta tutti i reggimenti.

La marcia tra la neve stava per finire. E il tempo della vittoria di faceva più vicino.

- Squisito - disse Elonir, svuotando il boccale di legno che Anewen gli aveva dato. – Questo sidro è divino! - – Non dire idiozie ... è piscio di gatto. Non è sidro. Comunque è tutto quello che sono riuscito a raccattare in queste maledette montagne. L'ho comprato dal Segugio Argentato. - - Il Capitano Helyoriff, giusto? È un vecchio ubriacone, ma combatte terribilmente bene. – Anewen annuì con un sorriso. Conosceva molto bene il Capitano del Segugio Argentato, famoso per i suoi commenti che spesso e volentieri rasentavano la più bassa volgarità. Era un tipo sincero e che rispettava i suoi soldati: Insieme con Anewen e a pochi altri, si era opposto apertamente alla spedizione sulle montagne, ma non era stato ascoltato. Ora marciava a qualche chilometro dal Falco Rosso, e Anewen non aveva sue informazioni da più di tre settimane. – Che notizie porti, Elonir?- chiese, dispiegando sul tavolo la grande cartina. Il Cercavia depose il boccale, si asciugò la schiuma dalla bocca e si fece avanti. La notte cominciava a calare, ma appena fuori dalla tenda crepitava alto un fuoco vivace che rischiarava l'interno della tenda. – Qualcuna buona, qualcuna meno. Il Generale si è finalmente fermato. - - Per gli dei! Era ora! - esclamò Anewen interrompendolo ed esultando. – Pensavo di dover marciare tra queste dannatissime montagne per l'eternità!- -Calmo, vecchio gufo ... non riesco a capire se il Generale si è fermato perché vuole far riposare le sue truppe o perché ha davvero intenzione di radunarle per uno scontro decisivo. Per certo so che vuole ogni singolo reggimento in una radura che ha individuato grazie ai suoi Cercavia. - Anewen non rispose, ed Elonir continuò dopo un istante di pausa. – Le altre informazioni che posso darti riguardano i predoni. Li abbiamo seguiti per giorni e giorni, e abbiamo scoperto che si stanno radunando tutti insieme. Non sono riuscito a capire dove, ma la cosa è preoccupante. Se i predoni si radunano, significa che stanno cercando lo scontro più duro. E sono molti, ma molti, più di noi. Per ogni elfo ci saranno cinque e sei predoni, Anewen. Non voglio allarmare nessuno, ma le montagne pullulano di umani. Se poi ti può interessare, per quel poco che ho potuto ascoltare dei loro discorsi, ho scoperto che ripetono sempre una parola... penso che sia il nome di un loro re... ma questa forse è una notizia inutile... non ci può portare nessun vantaggio. – Versandosi un'abbondante dose di sidro, Anewen se lo scolò in un unico veloce sorso, poi si lasciò cadere sulla sedia. – Dannazione. – sussurrò. – Allora ci sarà battaglia.- Non era una domanda, era una costatazione. L'elfo non aveva paura di combattere né di trovarsi nello scontro più feroce, ma il numero di nemici in ballo era troppo alto. Anche se i predoni fossero stati solo tre per ogni elfo, era comunque una sproporzione enorme. La cupa ombra del massacro cominciò a estendersi nella mente di Anewen, che cercò di non pensarci. Se fosse stato commesso anche un solo piccolo errore tattico, sarebbe stata una strage senza pari. Non c'erano alleanze né tregue che potessero tenere con i predoni: o uccidevi o venivi ucciso. Gli elfi non avrebbero potuto ritirarsi: si sarebbero trovati sotto il morso implacabile delle asce umane, e avrebbero dovuto combattere fino all'ultimo. – A Dherr- pensò Anewen, alzandosi. Se c'era da morire, per Seyrehen, lo avrebbe fatto con i suoi. – Grazie per le informazioni, Elonir. Come sempre ti sei rivelato utile. Vai pure a riposarti adesso. Tu e gli altri Cercavia avrete un pasto caldo e una tazza di sidro. – Elonir, sebbene cercasse di non farlo trasparire troppo, era effettivamente stanchissimo e le ore di sonno perse ora tornavano a farsi sentire. – Grazie, Anewen.- disse. Fuori era ormai buio e un vento gelido ululava tra le tende. Il Cercavia si avvolse nel mantello, e fece per uscire dalla tenda. Poi all'ultimo si voltò. – Sono qui fuori, se vuoi parlare. Il Falco Rosso volerà ancora Anewen, stai tranquillo. Lasceremo queste montagne... in un modo o nell'altro. – Il Capitano non rispose, ed Elonir, dopo un sorriso svelto, uscì dalla tenda e il buio lo inghiottì.

- Avresti dovuto saperlo, mago. Tutto quello che voglio prima o poi lo ottengo.- - Oh, non ho mai messo in discussione che ce l'avresti fatta. lo critico solo i tuoi mezzi, non certo i tuoi fini.- - Non farmi prediche, Talewin. So tante cose segrete a tuo riguardo, e non penso che sarebbe di tuo gradimento se queste cose non rimanessero poi così tanto segrete. - Il mago sorrise, schiudendo appena le sottili labbra, ma non rispose alla provocazione. Si limitò a stringere il pesante mantello sulle esili spalle e a rabbrividire. L'interno della tenda era scaldato da un braciere che diffondeva un piacevole calore, ma il vento gelido che fuori ululava s'infiltrava comunque e con le sue dita scheletriche artigliava la delicata pelle del mago. Hnreal era seduto davanti a lui, sprofondato in una comoda sedia rivestita di un velluto azzurro. Nell'angolo la sua armatura riluceva, e il suo stendardo riposava tra le pergamene che, disordinatamente, erano accatastate sopra un tavolo riccamente intarsiato. Talewin vagò con lo sguardo, soffermandosi sulle armi che giacevano ben allineate sul fondo della grande tenda nera. – Guarda solo ciò che ti è consentito, mago. – disse con voce rabbiosa Hnreal, e Talewin distolse lo sguardo e si affrettò a obbedire. Sorrise ancora una volta. – Mi chiedo quale sarà la tua prossima mossa, Capitano... ora che hai ottenuto l'appoggio del Grande Padre, i predoni sono in mano tua. Ma ti avverto, sta attento o... - - Non voglio sentire altro, mago! – lo interruppe bruscamente Hnreal. – So perfettamente che i dannati uomini sono dei bravissimi voltafaccia. Un giorno li hai come alleati, il giorno dopo devi assaggiare le loro lame. Non sono incauto. - - Non era nelle mie intenzioni offenderti - rispose Talewin, con tono tranquillo. Alzò le spalle e tornò a fissare le armi lucenti. Hnreal, in fin dei conti, lo divertiva. Si stava gettando su un boccone che avrebbe potuto soffocarlo, se qualcosa fosse andato storto. Ma era anche terribilmente astuto, e avrebbe massacrato qualsiasi ostacolo si fosse frapposto fra lui e il suo progetto... compreso lo stesso Talewin. Perciò il mago doveva tenersi buono il Capitano delle Guardie Notturne, almeno fino a che doveva seguirlo. Aveva promesso di aiutarlo, e lo avrebbe fatto. Ma al primo segno di sconfitta si sarebbe immediatamente tirato indietro, al sicuro. – Comunque, ora che i predoni sono con noi, non resta che dare il colpo di grazia. - disse, e questa volta fu Hnreal a sorridere. – Affonderemo la lama presto, mago. I reggimenti stanno convergendo tutti in una grande radura che i Cercavia del Generale hanno scoperto. Ancora un paio di settimane e saranno tutti e settemila lì, pronti a combattere e a morire per quel maledetto bastardo di uno Shedral. - Hnreal odiava profondamente il Generale, non perché lo avesse tradito in battaglia o perché gli avesse mai fatto un qualsiasi tipo di sgarbo. Lo odiava semplicemente perché era uno Shedral, della Grande Casata del Sole Nascente, e l'odio che i Dhrenna, della Grande Casata del Dorato Serpente, nutrivano per gli Shedral affondava le sue radici negli antichi tomi impolverati e sprofondati nelle enormi biblioteche che le due Casate custodivano gelosamente. Pur non conoscendo bene la causa di tale faida, le due famiglie ne coltivavano con maniacale cura i frutti: scontri durati generazioni e generazioni, assassinii e tradimenti nella notte erano il pane quotidiano per gli Shedral e i Dhrenna. Tuttavia, negli ultimi secoli, i primi avevano avuto la meglio sui secondi, condannandoli a essere l'ombra di ciò che un tempo erano. La Casata del Sole Nascente aveva distrutto i castelli più importanti del Dorato Serpente, e gli aveva confiscato le terre più fiorenti, privandoli delle rendite più cospicue. Ora il Dorato Serpente arrancava per stare al passo con le altre Casate, e ringhiava minacciando di mordere. Ma non ne aveva le forze, aveva perso troppo sangue. Era proprio questo che Hnreal si riproponeva di ridare alla sua Casata: il potere, quel delizioso miele che inebriava le menti dei mortali così come quelle degli immortali. Ciò che stava per compiere non solo avrebbe ridato prestigio alla sua Casata, ma avrebbe gettato nel fango gli odiati Shedral una volta per tutte. Al solo pensiero Hnreal scoppiò a ridere, incurante dello sguardo accigliato che Talewin gli lanciò. - Pensavo. - disse come spiegazione del suo strano comportamento. – Pensavo al futuro. - - E lo vedi così roseo?- chiese Talewin con una nota di sarcasmo nella voce. – Oh certo, lo vedo roseo, molto roseo. Che Seyrehen ci aiuti mago, e che Herla ci ponga sulla parte giusta della sua bilancia divina. Noi faremo la nostra parte, gli dei la loro.- Si alzò dalla sedia e si avvicinò al braciere. Allungò le mani scaldandole al tepore delle fiamme guizzanti, e sospirò. – Io odio queste dannate montagne - disse voltandosi verso il mago e scrutandolo con i suoi occhi acuti. – Il Generale? – chiese poi. - Oh, lo sto manipolando da quando siamo partiti. – rispose Talewin, lisciando una piega nella propria tunica. - Ho acquistato la sua fiducia senza troppo sforzo: è intelligente ma ancora fermo alla patetica idea che con l'onore e la gloria qualsiasi cosa possa essere vinta e conquistata. I Capitani lo odiano, e nella migliore delle ipotesi lo considerano un poppante troppo ricco. - - Perfetto - ghignò Hnreal – Ma...- continuò Talewin, interrompendolo - Mi chiedo come riuscirai a convincere il Generale a prestarti ascolto. Tu sei un Dhrenna, non dimenticare. L'odio che tu provi per lui è pari a quello che lui prova per te. - - L'odio che ci scorre nelle vene lo conosco bene anch'io! Potrò tentare di convincere il Generale ad ascoltare le mie parole e ad agire di conseguenza solo se saprò di poter contare sul tuo appoggio: per gli altri, ho un'ideuzza tutta mia.- Talewin non rispose, limitandosi ad annuire con il capo. Conosceva molto bene la parte che gli toccava in quell'ideuzza, ed era particolarmente preoccupato. A Hnreal sarebbe bastato usare un po' del dono della persuasione che Seyrehen gli aveva concesso, e tutto il delicato ingranaggio dell'inganno si sarebbe messo velocemente in moto. Ma per lui il prezzo e la posta in gioco sarebbero stati tremendamente più alti. – Basterà usare la giusta parola nel giusto momento - sussurrò piano Hnreal fissando le fiamme. – Sì. Una sola. – Saggiamente, Talewin non rispose.

Narra la leggenda che, prima ancora della creazione degli stessi dei, esistessero due entità, tanto complementari quanto opposte: da una parte aleggiava la sfolgorante luce della vita, dall'altra il cupo splendore della morte. Una stella sola le teneva unite, la Grande Stella, la Madre dei Cieli, l'Essere e la Fine. Il suo pulsare faceva da legame tra vita e morte, il suo esistere creava un perfetto equilibrio. Un giorno, tuttavia, il suo luccichio iniziò ad offuscarsi. Quando la vita se ne accorse, accusò la morte di accorciare la durata dell'esistenza della stella, solo per ingoiarla nelle sue mandibole scheletriche e putrefatte. La morte se ne risentì, e ribatté alla vita di starsene al suo posto e che comunque, prima o poi, quella stella sarebbe stata sua. Bastò poco, e dal litigio scoppiò una furiosa guerra: morte e vita presero le armi e duellarono, mentre il mondo sotto di loro veniva spezzato e ricostruito secondo i loro capricci. Vita e Morte affondarono le loro lame nella carne della rivale, incapaci di sconfiggere l'altra ma altrettanto restie a dichiarare una tregua. Pian piano il loro sangue, la loro essenza e la loro forza si dispersero ovunque, e furono proprio loro a creare e modellare gli dei, il mondo, i mari, le piane e le montagne. Nacque così Seyrehen, la Grande Dea Madre, nacque Hira la Prostituta e Ahnarr la Pazzia, nacque il cupo dio dei morti Kherrajihl, Signore degli Oscuri Cancelli. Ogni cosa esistente ebbe così una parte di vita e di morte, in eterno conflitto tra di loro: ciò che nasce, infatti, deve anche morire, e dalla morte si genererà nuova vita. Persino gli stessi dei, nella prima notte d'inverno, durante la macabra Festa dell'Oscurità, muoiono, solo per rinascere la mattina dopo. Vita e morte stanno ancora lottando, immortali essenze, e nessuna delle due riuscirà mai a prevalere, poiché se ciò succedesse, tutto ciò che è stato creato si dissolverebbe nel più assolutamente vuoto nulla. È questa la leggenda che i vecchi elfi narrano ai nipotini mentre la neve turbina fuori dalle case e il fuoco crepita allegro. La storia infinita della vita e della morte, la loro eterna lotta e il bisogno che l'una ha dell'altra per sopravvivere. Ma non tutto il sangue caduto diede forma a qualcosa. Alcuna gocce si limitarono a raccogliersi in pozze di pura potenza, concentrandosi nei luoghi dove venivano maggiormente attratte. Se le gocce erano cadute dal petto della vita, allora le pozze che creavano si spostavano verso zone ricche di animali, sotto le culle dei bambini appena nati, tra i campi in fiore. Se invece il sangue era della morte, allora le sue pozze venivano attratte dai luoghi appestati, dai cimiteri, dai patiboli dei condannati. Erano lì, pura potenza capace di distruggere quanto di creare. Gli uomini erano troppo occupati a sopravvivere e le loro menti erano troppo limitate per percepire la presenza di queste pozze, ma l'animo degli elfi, invece, poteva sentirle. Essi erano in grado di canalizzare una minima parte di questa potenza allo stato puro, ma occorrevano anni e anni di duro studio e di numerosissimi tentativi anche solo per imparare a localizzare una piccolissima pozza, e la maggior parte degli elfi vi rinunciava. Per quelli cui tutto ciò risultava più facile, forse perché avevano un legame più stretto con la magia o semplicemente veniva più spontaneo usare questa energia, c'era la possibilità di divenire maghi. Dopo un lungo percorso di preparazione, un elfo predisposto alla magia diventava Accolito e veniva portato nel Grande Palazzo della Torre Lunare: qui, circondato da pergamene antiche quanto il tempo e dai marchingegni più strani, imparava a controllare la magia e a evocarla nel giusto modo. Passava poi al rango di Discepolo, in cui poteva raffinare il potere appreso e, infine, se era davvero dotato e molto intelligente, arrivava al rango di Maestro. Chi dimostrava qualità eccellenti e una stupefacente capacità di controllo poteva aspirare ad elevarsi ancora di più, salendo al rango di Grande Maestro: arrivato a questa posizione, un mago era così potente da poter influenzare persino lo stesso Imperatore. Tuttavia, solo pochi eletti potevano anche solo sperare di accedere al rango di Maestri, perché le difficoltà erano spesso enormi, e richiedevano grandi sforzi mentali. Le pozze, infatti, non avevano odore né tantomeno colore o forma: erano composte da pura energia, e potevano essere percepite chiaramente solo dopo lunghi ed estenuanti allenamenti. Nonostante questo, ogni elfo era in grado di percepire, a livello inconscio, una goccia di energia: i maghi erano sì capaci di determinarne la posizione e la composizione, ma ogni elfo era mentalmente predisposto per accogliere una piccola parte di quell'energia grezza. Ciò non era sempre un bene. Sebbene un elfo, correndo un campo di spighe o stringendo al petto un bambino, provasse una gioia immensa e una felicità senza pari, impensabile per un essere umano, era altrettanto opprimente e devastante la paura che nasceva nel suo cuore mentre marciava su un campo di battaglia, terreno dove i frutti della morte sbocciavano crudelmente. Dove un uomo avrebbe tremato e chiuso gli occhi, un elfo si sarebbe dato immancabilmente alla fuga, a meno che non fosse riuscito a sconfiggere la paura che si celava nel suo più profondo. Per questo gli elfi combattevano in ranghi serrati e all'apparenza erano dotati di un'incrollabile disciplina: il numero e la presenza di altri simili facevano sì che l'elfo non cedesse alla paura che lo attanagliava e che non fuggisse. Interi eserciti erano infatti stati massacrati dopo che una manciata di elfi era scappata in preda alla più nera paura, contagiando le file dei compagni come un fuoco in un fienile. Dopo anni e anni di guerre, gli elfi avevano quindi sviluppato un modo di combattere che tentava il più possibile di affrontare e sconfiggere queste paure. Come sempre, le eccezioni esistevano: i Cacciatori, per esempio, riuscivano a domare la propria paura e a trasformarla in odio verso il nemico; era una specie di riflesso condizionato, molto simile a quello di un cane che morde con ferocia propria perché ha paura. Anche i Capitani e i veterani forgiati dalle battaglie erano capaci di mettere a tacere quel senso di panico che nasceva quando il sangue cominciava a cadere, e per questo motivo erano combattenti tanto temibili. Non combattevano né per soldi né per fama: semplicemente estraevano le armi per sopravvivere e per sconfiggere la loro stessa paura.

Il cane alzò il grosso muso e ringhiò cupamente, ma non appena si rese conto di chi fosse entrato nella caverna, si acquietò subito. Il Grande Padre gli posò una mano grassoccia sul capo e lo accarezzò piano. I suoi piccoli occhietti infossati si fissarono in quelli cerchiati di nero del suo sciamano. Sorrise e il suo volto si aprì come un formaggio molle. – Sei tornato, cagnolino - disse. La sua voce era bassa e strascicata, e le parole che pronunciava, prima di uscire dalla bocca distorta, dovevano lottare contro uno strato di catarro e muco. Lo sciamano sentì la rabbia e il disgusto risalirgli lungo la gola nello stesso istante, ma si contenne. S'inchinò con un movimento svelto e si mise in ginocchio. – Vedo che non hai perso le buone abitudini, cucciolo. – grattandosi l'enorme pancia, il Grande Padre sorrise di nuovo, con un luccichio strano nei piccoli occhi. A fianco dell'obeso i suoi due cani si mossero irrequieti, percependo nel tono del loro padrone una nota di rabbia. Lo sciamano notò solo allora i due mastini e si prostrò ancora di più. - Non volevo affatto offenderti, Grande Padre, e se mai sono stato così stolto da provocare la tua ira, chiedo umilmente perdono.- - Adesso va meglio. L'ultima volta che abbiamo parlato ti avrei strappato le budella e mangiato il cuore, bastardo d'un cucciolo.- I cani ringhiarono ancora, questa volta più forte, e lo sciamano rabbrividì. – E forse è il momento di farlo. – un silenzio pesante calò all'interno della grotta, mentre il Grande Padre ghignava e i cani ringhiavano. Lo sciamano stava semplicemente zitto, congelato dal terrore. Sapeva bene che la sua vita dipendeva dalle grasse dita dell'obeso che aveva di fronte. Se le avesse schioccate, i due cani da guerra sarebbero partiti all'attacco immediatamente e l'avrebbero dilaniato prima ancora che lui avesse il tempo di fare qualcosa. Lo sapeva bene, lui, poiché aveva assistito decine di volte a quella scena. Ora che ne era il protagonista, tremava e sudava. "Non adesso. Non schioccare quelle dita. Ti prego" pensò, e come se potesse leggerli nella mente, il Grande Padre scoppiò in una gorgogliante risata, sputando per terra un grumo di catarro. – Non ancora. – disse. - Tu mi servi vivo. Ora parla, prima che perda la pazienza. Se sei venuto fin qua, hai sicuramente un motivo valido...- Lo sciamano venne travolto da un'ondata di puro sollievo e tornò a respirare. Asciugandosi il sudore dalla fronte rugosa, il vecchio uomo riordinò le idee. –Ha accettato. – disse. - L'elfo ha accettato il patto. - Cercò di dare alle sue parole un tono sicuro e deciso, ma era ancora scosso dal pericolo appena corso e sapeva benissimo che il Grande Padre avrebbe potuto cambiare idea da un momento all'altro. Perciò si affrettò ad aggiungere: – Appena l'elfo ha udito il vostro nome, non ha potuto fare altro che chinare il capo. Tutti vi temono e vi rispettano. È bastato nominarvi per mettere a tacere il suo spirito arrogante.- Il Grande Padre sorrise, felice per le lodi, e lo sciamano capì di aver colpito nel segno. Rincarò la dose – Ha cercato di tirarsi indietro, di sciogliere l'accordo, ma non appena l'ho minacciato, dicendo che la vostra ira lo avrebbe inesorabilmente raggiunto e punito, si è messo a tremare come un gattino appena nato e mi ha implorato piangente perché ciò non accadesse. - L'obeso sorrise ancora di più, rivelando grossi denti gialli e passandosi la lingua carnosa sulle labbra pallide. – E' tutto pronto, vero?- chiese e lo sciamano si affrettò a rispondere – Sì Grande Padre, è tutto perfettamente pronto. I nostri guerrieri sono forti e feroci. I loro soldati stanno camminando in mezzo alla neve da settimane, con pochi viveri, e sono stremati, facile preda per le nostre asce. – Improvvisamente, il viso del Grande Padre si tinse di rabbia, e lo sciamano comprese di aver appena commesso un terribile errore. – Mi avevi detto così anche l'ultima volta, cucciolo infido. Mi avevi detto che quegli elfi erano una preda facile, infreddoliti e impauriti com'erano. E invece hanno massacrato i miei uomini.- Capendo che il discorso stava di nuovo pendendo in suo sfavore, lo sciamano si morse la lingua e ricominciò a sudare. – Grande Padre, gli elfi erano sì una facile preda, ma il capotribù Urrjok non ha voluto darmi ascolto... - la sua voce s'incrinò, carica di paura. Lo sciamano si prostrò, portando le mani sul capo, sperando di mostrarsi sufficientemente contrito. - Ha suonato il corno molte volte, dando così agli elfi il tempo di prepararsi. Sarebbe stato un massacro, sarebbero caduti tutti dal primo all'ultimo. Ma la stupidità del capotr... - - Non dare la colpa a Urrjok, cucciolo bastardo! Mentre lui era in prima fila tu eri al riparo! Tu non hai assaggiato le lame degli elfi, lui sì! Urrjok potrà aver sbagliato, ma tu non hai fatto altro che lamentarti e tirarti indietro!- La voce improvvisamente tuonante dell'obeso risuonò carica di rabbia e furore, e inchiodò lo sciamano a terra, mentre i cani si alzavano e latravano rabbiosi. Il Grande Padre divenne rosso in viso, sputò ancora per terra e fece per schiocchiare le dita, ma dopo qualche attimo di totale silenzio si calmò. Soffocato dalla paura, lo sciamano sapeva che era questione di attimi prima che i due mastini lo riducessero a brandelli. L'obeso, tuttavia, si asciugò con una grassa mano la fronte sudata e respirò a fondo un paio di volte. – Ringrazia gli dei, sciamano - disse infine, con voce rauca e acida – se non fosse che mi servi ancora, tu e la tua maledetta parlantina, ti avrei già fatto a pezzi personalmente. – Lo sciamano non si muoveva, non parlava. Il sudore gli colava dalle tempie e tutto il corpo tremava senza controllo. Prostrato a terra, implorava gli dei di dargli una morte rapida. Ma poi, mentre il significato delle parole del Grande Padre gli si mostrava lentamente, il suo cuore riprese a battere. Era salvo. Era vivo. Era prezioso. – Vattene ora - ringhiò il Grande Padre con disprezzo e rabbia. – Vattene prima che cambi idea - Nel silenzio più assoluto, lo sciamano strisciò verso la salvezza e, non appena raggiunse l'entrata della grotta, sparì come la brina del mattino. Il Grande Padre sbuffò irato, posando una mano sul muso di uno dei due cani. – Sarà per la prossima volta, cuccioli miei. – in risposta, il mastino ringhiò soddisfatto. - Avrete la vostra preda, un giorno o l'altro. Ma non ancora, non ancora. –

" Che alba malata!" pensò Laraif mentre s'inerpicava tra la neve e le rocce. Erano parecchie ore che camminavano, e anche i robusti Cacciatori cominciavano a essere stanchi: il Capitano gli aveva fatti partire all'alba, prima ancora che il sole si levasse, e non si erano fermati nemmeno una volta. Seguendo i Cercavia, il Falco Rosso si stava arrampicando lentamente sul fianco di una montagna, apparendo come un lungo serpente luccicante. Anewen era davanti a tutti, a cavallo, e discuteva animatamente con Elonir. Laraif poteva udire solo le parole che il vento gli portava all'orecchio, ma da ciò che sentì ebbe l'impressione che il sentiero non fosse poi così ben definito. Evidentemente la nevicata di due notti prima doveva aver modificato il terreno, e ora i Cercavia stavano cercando di ritrovare i segni che avevano lasciato. Camminarono ancora per molto tempo, ma il paesaggio sembrava tutto uguale. Ovunque si estendeva neve, interrotta solo da rocce e dirupi. Si dovettero fermare più e più volte, mentre Anewen parlava sommessamente con i Cercavia, tutti radunati accanto al suo cavallo. Il sole si levò alto, ma gli elfi si concessero solo una veloce pausa per mangiare. Il Generale aveva chiamato, e bisognava accorrere. Anewen aveva temuto di perdersi ancora e di dover marciare senza via per altre settimane, ma Elonir sapeva il fatto suo e lentamente, ma con sicurezza, li stava portando alla radura che Lyondirr aveva fissato come campo. L'occhio celeste osservò gli elfi camminare ancora per molte e molte ore, tra lo scintillare delle armi e il vento gelido. Ma alla fine, quando Laraif iniziava a chiedersi se non avessero girato in tondo, arrivarono. La prima cosa che vide furono le tende: centinaia e centinaia, emergevano tra la neve come una sfida alla montagna. E tra esse, per delimitare le zone dei vari reggimenti, gli stendardi garrivano schioccando. Le sentinelle li avvistarono e nel cielo si levò il cupo lamento di un corno: i soldati degli altri reggimenti si affrettarono ad aiutare i loro compagni esausti, e un Capitano indicò loro le tende assegnateli. – Grazie, Helyoriff – disse Anewen scendendo da cavallo e lasciando che un fante gli prendesse le redini della bestia. - Allora, com'era il sidro?- chiese l'altro Capitano. – Vuoi la risposta gentile o la risposta sincera?- -Quella sincera - - Faceva schifo. Avessi bevuto acqua e piscio di cavallo avrei assaggiato qualcosa di meglio - Helyoriff scoppiò a ridere, dando una sonora pacca sulle spalle di Anewen che, per poco, non perse l'equilibrio. Helyoriff era robusto, grosso e ben più alto della maggior parte dei suoi compagni d'armi. Stimato e amato dai suoi uomini, aveva la rara capacità di essere sincero con tutti. Era determinato e sincero: non si poteva essergli amico e nemico nello stesso istante. Decidi da che parte stare sul campo di battaglia, amava dire, perché chi sta in mezzo sono solo i cadaveri. Anewen lo aveva conosciuto durante la Rivolta delle Praterie del Sud, e i due si erano salvati la vita l'uno all'altro più e più volte. Tra i due reggimenti si era venuto a creare un forte legame, tanto che in diverse occasioni il Generale di turno aveva ordinato al Falco Rosso e al Segugio Argentato di combattere uniti, come un solo gruppo. Quando il Generale Lyondirr li aveva chiamati alle armi, i due avevano obbedito a malincuore. Sapevano entrambi benissimo che era un'impresa folle, eppure avevano dovuto obbedire. Si misero a camminare tra le tende, tra il vociare dei soldati e il rumore del vento che incessantemente continuava a soffiare. – Com'è la situazione qui al campo? Tutti i reggimenti sono arrivati? – chiese ad un certo punto Anewen. – Ah! – esclamò Helyoriff, passandosi una mano sul volto sfregiato. – Sta andando tutto a rotoli, per le chiappe flosce di mia nonna! Ci sono state più perdite di quelle che si pensavano... Il Leone Celeste, per esempio, è stato ridotto a meno della metà dopo uno scontro diretto. Il Capitano Frejall è disperato, non sa più come fare per rimpolpare un po' le file... credo che arruolerebbe volentieri anche i sassi, se potesse servire a qualcosa. - - Anche noi siamo stati attaccati – disse Anewen, sospirando e scuotendo il capo. – Ma ora che siamo tutti qui, il Generale che cosa ha intenzione di fare?- - Bella domanda, me la sto facendo da quando siamo partiti. Non lo so, non ne ho la più pallida idea. Per quel che mi riguarda, sarei pronto a lasciarlo qui a raffreddarsi il culo, ma so che non posso ... quindi aspetto gli ordini, e prego che Lyondirr usi quel poco di cervello che per grazia gli è stato concesso.- - Ci sono notizie dei Predoni?- - Continuano a girare per le montagne ... però è da un po' che se stanno tranquilli, e penso che stiano cercando di capire le nostre mosse, proprio quello che noi stiamo facendo con loro. È un gioco, vincerà quello che muoverà per primo la pedina giusta. – concluse Helyoriff con una punta di sarcasmo nella voce. – Insomma, siamo nella merda fino al collo. – aggiunse dando un calcio a un cumulo di neve. Facendo qualche calcolo, Anewen stimò che le forze del Generale dovessero contare su circa settemila soldati, o forse anche meno. Le tende si estendevano all'infinito, ricoprendo l'intera radura, e ogni reggimento era delimitato dalle sue bandiere; il recinto che conteneva i cavalli spiccava sulla neve immacolata: al suo internò Anewen calcolò che dovessero esserci più di trecento bestie. I carri delle provviste erano stati posti nella zona più a nord, avvolti da pesanti teli per impedire alla pioggia di penetrare ed intaccare il prezioso contenuto. La sua attenzione venne attirata da due grandi tende che si ergevano al centro dell'accampamento. Conosceva bene la tenda rossa, ma lo stendardo che garriva sopra la tenda nera lo lasciò di stucco. – Chi sta accompagnando il Generale? – chiese a Helyoriff, che per tutta risposta si fece scuro in volto e sputò per terra. – Quella maledetta serpe di Hnreal, ecco chi!- Anewen rimase stupefatto. Due Casate opposte, mortalmente nemiche, si trovavano sullo stesso campo di battaglia, e lui ne era stato all'oscuro fino a quel momento! – Allora è il Capitano delle sue Guardie Notturne! Ma perché mai il Generale è andato a scegliere proprio lui? È il miglior modo per ritrovarsi un pugnale nello stomaco! - - Non lo so. Alcuni dicono che Lyondirr abbia scelto Hnreal come Capitano delle proprie Guardie Notturne per tenerlo sotto controllo, evitando così che quella carogna gli organizzasse uno spiacevole scherzetto al suo ritorno ... altri invece dicono che il Generale voglia sadicamente tenerselo vicino e continuare a ricordargli la sconfitta della sua Casata ... corrono voci ma nulla è certo. – Anewen si chiese se ci fosse qualcosa di certo in quella dannata spedizione, ma lo tenne per se. Helyoriff era già abbastanza irato. Come se gli avesse letto nel pensiero, l'altro a un certo punto riprese a parlare con voce rabbiosa – Non si sa un accidente di niente. Tutti dicono che si farà qualcosa, ma per adesso non è stato pensato ancora nulla. Corrono molte voci, tutte diverse le une dalle altre. C'è chi dice che il Generale ci ha fatto riunire per ritirarsi, ma non ci credo. È talmente bacato in quel suo cervelletto da bambino che vorrà andare avanti a giocare finché le sue pedine non si romperanno tutte! - Il Capitano del Falco Rosso si limitò a tacere, continuando a osservare le tende e chiedendosi quanti di essi sarebbero tornati a vedere la pianura. – Quanto tempo ci rimane? – si disse sussurrando piano, tanto che Helyoriff non lo udì. Anewen non era un fatalista, anzi, disprezzava chi vedeva buio in una giornata di sole, ma era un realista. Sapeva bene che i sogni carichi di gloria e di onore erano bellissimi, ma sapeva altrettanto bene che erano solo sogni, ed essendo tali non servivano a nulla. Un nemico si abbatteva con un colpo di spada, non a furia di paroloni altisonanti. Ma purtroppo Lyondirr sembrava essere uscito di senno, ed Anewen temeva che il Falco Rosso potesse finire male tra quelle fredde montagne bianche. Perso nei suoi pensieri, inciampò in un sasso ma Helyoriff lo tenne in piedi. Il grosso Capitano scoppiò a ridere, dandogli ancora una volta una pesante pacca sulla spalla. – Stai diventando vecchio, Anewen! Dai, va' a riposarti. Il tuo reggimento è nel settore più a nord... fatti una dormita, ne hai proprio bisogno. Vedrò di farti portare un po' di buon sidro. – Questa volta fu Anewen a ridere. – Che sia buono – disse con un largo sorriso sulle labbra – altrimenti mi farò risarcire dal rifornitore. –

Quando l'Imperatore Sahaal, durante una parata, venne assassinato con un colpo di sciabola portato da un cavaliere della sua scorta privata, i consiglieri reali si resero conto che la sottile quanto pericolosa arte del tradimento poteva penetrare ovunque, persino tra i ranghi dei fedelissimi. Ne discussero molto e, dopo lunghe riflessioni, decisero di creare uno speciale corpo di soldati il cui compito fosse quello di proteggere l'Imperatore e, più in generale, anche i Supremi. Nacquero così le Guardie Notturne, che presero il nome dei golem di pietra che, secondo il mito, proteggono l'ingresso delle dimore degli dei. Il loro era un reggimento d'élite, composto da guerrieri estremamente abili a cavalcare e ad usare la sciabola. Per ridurre al minimo la possibilità di tradimento, i consiglieri reali ricorsero a un astuto stratagemma: le Guardie Notturne sarebbero state comandate da un Capitano, un soldato scelto dallo stesso Imperatore. In questo modo veniva scelto solo un guerriero più che fedele, e il Capitano delle Guardie Notturne, riccamente ricompensato, faceva di tutto pur di proteggere il proprio signore. Alla fin fine, se non era la fedeltà a spingere le Guardie Notturne al loro compito, era la certezza di essere inondati d'oro e di potere.

In breve tempo ogni Supremo si dotò di questo reggimento d'élite, e i cavalieri rivestiti dalle nere armature divennero ben presto una vista usuale. Come tutti gli altri, anche Lyondirr ne aveva costituito uno, formato dai suoi migliori guerrieri. E come Capitano delle Guardie Notturne, a quanto pareva, aveva scelto il suo peggior nemico: Dherr, dio dell'azzardo, probabilmente doveva averci messo lo zampino...

- Il tuo momento è quasi giunto, mago. Sai cosa devi fare. – - Perfettamente. E so bene anche ai rischi a cui vado incontro. - - Te l'ho già detto. Nessuno t'incolperà. – Non mi riferivo a quel genere di pericoli ... giocare con la magia può portare a risultati devastanti. – sibilò Talewin. – Non m'interessa. E' ciò che ti ho chiesto di fare e tu hai accettato. – La voce di Hnreal fu talmente rabbiosa che Talewin arretrò di un passo. – Non puoi tirati indietro.-

Nella tenda, sebbene tutti i sette i Capitani dei reggimenti del Supremo Lyondirr fossero presenti, nessuno parlava. Si guardavano, e bastavano i loro sguardi a caricare quel silenzio di mille domande. Aspettavano: il Generale aveva finalmente riunito il consiglio di guerra, e la notizia che qualcosa sarebbe stato deciso durante la tanto attesa assemblea era volata di bocca in bocca. Erano passati tre giorni da quando Anewen era arrivato con il suo reggimento, e il Capitano si era accorto che già c'erano state molte perdite. Aveva parlato con Frejall, e lo aveva trovato distrutto. Il suo reggimento era caduto in ben due imboscate e il numero dei suoi soldati si era ridotto drasticamente. Temeva che, alla prima ondata di predoni, il suo amato reggimento sarebbe stato spazzato via. Anewen non aveva saputo rispondergli. Ora, insieme a tutti gli altri, attendeva risposte e ancora più importanti certezze. Tutti erano tesi, anche perché nel consiglio non erano ammesse armi, e molti Capitani si sentivano paurosamente indifesi senza le loro spade. Il tempo passò e il sidro che era stato messo a disposizione finì, ma proprio quando i presenti cominciarono a chiedersi se fosse tutto un patetico scherzo, Hnreal, Capitano delle Guardie Notturne del Sommo Supremo Generale Lyondirr, entrò scostando violentemente i tendaggi dell'apertura. Due Guardie Notturne lo accompagnavano e fecero per seguirlo, ma a un suo gesto tornarono fuori. Hnreal era armato di tutto punto e la sua armatura nera spiccava tra quelle bianche dei Capitani, e sotto il braccio sinistro teneva stretto l'elmo: di semplice fattura, ma con una grande piuma rossa sangue che gli dava un'aria molto più raffinata. Hnreal vagò con lo sguardo tra gli elfi, senza tradire la minima emozione. – Il Generale si aspetta da voi il massimo impegno e la massima devozione nel combattere per il suo nobile scopo. Non deludetelo. – disse con voce provocatoria. Nessuno rispose, ma gli sguardi che gli vennero lanciati avrebbero potuto fondere una lastra di marmo. Hnreal, dentro di sé, rise felice. Quanto gli piaceva essere dalla parte giusta. Loro non potevano toccarlo: se lo avessero fatto, si sarebbero messi contro Lyondirr stesso, e sapevano tutti quanto potesse essere pericoloso sfidare un Supremo. Hnreal aprì la bocca per dire qualcos'altro, ma s'interruppe subito quando Lyondirr entrò improvvisamente nella tenda. I suoi occhi si scurirono e un'espressione di puro odio emerse per un brevissimo istante, subito nascosta da un fragile velo di calma e sicurezza. – Onore al Supremo! – disse sguainando la spada e levandola alta. Quanto gli sarebbe piaciuto ficcarla nello stomaco di quel bastardo. Ma tutto a tempo debito. – Sempre sia lodato il suo eterno nome – risposero i Capitani, inchinandosi e incrociando le braccia sul petto. Poi si affrettarono a rialzarsi. Il rituale era finito, e ora il consiglio di guerra poteva iniziare. Ma il Generale sembrò non percepire l'attesa che gravava nell'aria. Si diresse verso la propria sedia e si sedette. Si sistemò il mantello e si passò una mano tra i folti capelli biondi che gli erano ricaduti sul volto: Lyondirr era bello, ma il suo fisico era gracile e debole. Nonostante l'armatura dorata che lo ricopriva, non appariva né più grande né più forte di quanto fosse in realtà. Sul fianco portava Dirumnir, una spada tanto famosa quanto poco letale nelle mani di uno scarso spadaccino come Lyondirr. Hnreal si pose accanto al Generale e fissò ancora una volta i presenti, sorridendo e appoggiando una mano sul pomo della sua lama ricurva. – Il consiglio è aperto - decretò con voce pacata. Sette paia di occhi fissarono Lyondirr in attesa che parlasse. I Capitani non potevano aprire bocca prima del loro Generale: avrebbero potuto farlo solo dopo che lo avesse fatto lui. Lyondirr si passò ancora una volta la mano nei capelli, e finalmente parlò. – Siamo giunti alla resa dei conti, Capitani. I predoni si stanno radunando. – Galardenn, un vecchio Capitano senza una mano, fu il primo a ribattere. – Supremo, anche noi conosciamo bene i movimenti dei predoni. Ciò che tutti vorremmo sapere è il piano d'attacco che è stato progettato per porre fine a questa campagna di guerra.– Il Generale lo fulminò con gli occhi, ma il vecchio veterano non si scompose. – I nostri Cercavia ci hanno informato che le montagne pullulano di predoni, e ... - - Silenzio! - sbottò Lyonidrr alzando una mano. Il vecchio Capitano aprì la bocca per replicare, ma alla fine si morse il labbro con aria arrabbiata e smise di parlare. Il Generale si alzò dalla sedia e scrutò i suoi Capitani uno ad uno. – Volete risposte, vero? Volete avere la certezza di tornare a casa senza un graffio sulla vostra pelle immacolata, non è così? Mi sembrate uno vociante gruppo di cortigiane! Ancora prima di partire per elargire la giusta vendetta a questi rozzi predoni, alcuni di voi volevano già ritirarsi e nascondersi dietro le gonne della balia piuttosto che affrontarli in campo aperto!- Le sue parole si diffusero nella tenda come un soffio di veleno, e i Capitani sentirono la nera rabbia scaturire dal petto. Helyoriff soffiò forte un paio di forte, cercando di calmarsi, ma gli enormi pugni erano stretti e gli occhi tradivano la sua feroce voglia di spaccare il delicato viso del Generale. Altri Capitani aprirono la bocca per ribattere, ma si trattennero quando Hnreal portò la mano sull'elsa della spada. Non era il momento di perdere la testa, e inoltre il Generale aveva smesso di parlare tornando a sedersi. Per l'ennesima volta il silenzio calò nella tenda. Lyondirr si passò la mano nei lunghi capelli, scuotendo il capo. – Sono al comando di un branco di patetiche pecore. Tutti, tutti quanti. Per voi la guerra era già persa ancora prima d'iniziarla, non è vero? Oh, conosco bene i vostri pensieri, bassi e meschini come il fango. Voi volete che la guerra venga persa, per ballare sul mio corpo e vantarvi di avermi avvertito che era tutta una pazzia. –

Talewin cercò di concentrarsi, ma la sua mano iniziò a tremare incontrollata e il mago dovette fare appello a tutto il proprio coraggio per farla smettere. Lasciò scivolare lontane dalla sua mente le parole di potere che stava evocando. Aveva paura, tanta. La percepiva, pesante e aspra. Scorreva nelle sue vene come un fetido veleno, e Talewin sentiva le gambe cedere e la mente offuscarsi...No, non era possibile, stava giocando con qualcosa che lo avrebbe implacabilmente distrutto. Ma doveva farlo se non voleva trovarsi una spada tra le scapole. Inspirò profondamente, per calmarsi, e ci ritentò. – Forza, Talewin, tu sei un Supremo. Tu puoi farcela. Tu devi farcela. – si disse. Poi incrociò ancora le braccia e, per la terza volta in quella giornata, si mise alla ricerca di una pozza di magia grezza. La sua mente iniziò lentamente a distaccarsi dal corpo, mentre sparivano le percezioni fisiche: ciò che si accingeva a compiere era un rituale tanto antico quanto pericoloso. Stava per attingere a una fonte di sangue divino, in grado di modellare la realtà stessa. Ne aveva bisogno se voleva fare ciò che gli era stato ordinato... attingere pura potenza. Avrebbe raggiunto un grado di potere magico d'incalcolabile forza, ma c'era un prezzo. L'energia grezza avrebbe potuto dilaniare il suo corpo, e in pochi istanti di atroce sofferenza Talewin sarebbe esploso in un fiore di carne e di sangue. Il mago cercò di non pensare a tutto questo mentre si levava sempre più lontano dal suo corpo, e iniziava la lenta ricerca che già aveva iniziato. Nonostante tenesse fisicamente gli occhi chiusi, Talewin cominciò a vedere veramente: l'elfo percepiva l'essenza, non la forma delle cose. Riusciva a sentire la presenza della magia, inscritta in ogni respiro, in ogni fiocco di neve, in ogni radice e in ogni sasso. Si allontanò veloce dal campo degli elfi, dove aveva già cercato senza risultato, ma le montagne intorno al campo pullulavano solo di pozze di morte. Un orso banchettava con le carni ancora calde di un suo simile, un branco di lupi stava sventrando un'enorme alce, un'aquila strappava brandelli di pelle dalla carcassa di un coniglio che stringeva tra gli artigli. Morte, ovunque. Ancora una volta Talewin iniziò a percepire la cupa paura, ma si sforzò di trattenersi. Si allontanò ancora di più, ma non serviva a nulla. Ancora morte, ovunque. La prima volta che aveva iniziato la ricerca si era imbattuto in un campo di battaglia, e la paura che lo aveva assalito era stata talmente forte che aveva dovuto tornare nel proprio corpo e si era ritrovato tremante e sudato. Ci aveva riprovato, ma la prima esperienza lo aveva talmente colpito che aveva ceduto dopo qualche minuto di ricerca, limitandosi perciò a controllare il solo accampamento elfico. Ora, però, doveva riuscirci, o non avrebbe più trovato il coraggio sufficiente. Trovare una pozza di vita: incise nella mente quelle poche parole, e costrinse la propria anima a scrutare con più attenzione. All'improvviso, una percezione di morte più forte del solito lo fece trasalire violentemente: due gruppi di predoni si stavano battendo tra di loro, e diverse pozze di morte erano state attratte dal sangue versato. Talewin venne trafitto da un dolore acuto, e cominciò a disperare, mentre la paura si faceva sempre più pressante, le percezioni iniziavano a svanire e la sua mente perdeva la concentrazione. No! No! Stava per fallire ancora!

La grande mappa venne aperta sul tavolo e fermata ai quattro angoli da pesanti fermacarte dorati. Lyondirr si fece avanti, mentre i Capitani si radunavano silenziosamente intorno al tavolo. Hnreal si piazzò dietro, pronto ad estrarre la spada ma, nonostante le dure parole del Generale, nessun Capitano sembrava disposto a controbattere. – Allora, cosa sapete esattamente sui predoni? Ogni informazione, anche la più banale, potrebbe risultare molto importante - chiese Lyondirr con voce calma. I Capitani guardarono Anewen, scelto in precedenza per rispondere a domande del genere, e questi iniziò a parlare. – Riguardo ai predoni sappiamo ben poco, Generale, se non che si riproducono come dei conigli in calore e combattono come dei pazzi bastardi. – Lyondirr fece per interromperlo, ma poi lo lasciò continuare con un gesto secco della mano. Evidentemente, il linguaggio usato non gli andava troppo a genio. – Il loro modo di combattere è estremamente rozzo, ma può rivelarsi devastante se riesce a sfondare le linee. Non hanno strategie e i loro Capitani sono capaci solo di dare ordini elementari, quali, per esempio, correte e fateli a pezzi. Su questo, noi siamo molto più... fortunati. – la frecciatina era più che palese, ma Lyondirr parve non accorgersene. - Questo è un loro punto primo debole, comunque: sebbene siano feroci e indiscutibilmente forti, non hanno disciplina. Una volta entrati nel corpo a corpo si lasciano trascinare dalla foga ed è facile, per un nemico abile, ritorcergli contro il numero elevato. Se le prime file iniziano a fuggire, infatti, vengono rallentate da quelle più indietro, che premono per arrivare al nemico... e gli uomini sono così stupidi da andare ad infilzarsi sul nostro ferro pur di combattere. Tutto ciò può rivelarsi catastrofico per i predoni. -- Perfetto! – disse il Generale spalancando le braccia e sorridendo. – Davvero perfetto! Capitani, abbiamo la poss... - - Non ho ancora finito, Generale - lo interruppe Anewen con un pizzico d'insolenza nella voce. Il viso di Lyonidrr si rabbuiò. – Tutto quello che ci serve è già stato detto, Capitano- - Non tutto, no. - Il Generale aprì la bocca furente, pronto ad ordinare ad Anewen di uscire dalla tenda, ma all'ultimo si accorse che una decisione del genere gli avrebbe reso ancora più invisi i Capitani. Perciò sospirò e disse ad Anewen di continuare. – Vediamo di finirla in fretta, però. - soggiunse incrociando le braccia e fissando la mappa aperta sul tavolo. Finita l'interruzione, l'elfo continuò – stavo dicendo, prima di essere interrotto... - Lyondirr si accigliò ma non disse nulla – ...che i punti deboli dei predoni sono la disciplina e la mancanza di coordinazione. Tuttavia i nostri nemici possono vantare un elemento che noi non possediamo: il numero. Per ogni elfo che facciamo scendere in campo loro possono rispondere con almeno sei uomini. Sappiamo bene che un nostro soldato può tener testa a tre dei loro, ma non a sei. Possiamo essere abili, ma non siamo certamente invincibili. - - Quindi, Capitano, stai dicendo che... – iniziò a dire con voce irata il Generale, ma Anewen continuò imperturbabile – Sto solo dicendo che dobbiamo stare molto in guardia, Generale. I nostri schieramenti e le nostre tattiche possono essere di estrema efficacia, ma solo se abbiamo il tempo per schierarci e disporci nel giusto ordine. I predoni hanno il vantaggio numerico, un grande vantaggio numerico, e l'unico modo che abbiamo per cercare di pareggiare i conti è essere veloci e uniti. Farli a pezzi prima che possano radunarsi in una grande banda, dividerli e annientarli pezzo dopo pezzo. Velocità e unione. Solo così potremo sperare di fare qualcosa. Altrimenti sarà una strage. – Lyondirr sbuffò e si fece rosso in viso, ma gli altri Capitani avevano capito perfettamente ciò a cui Anewen si riferiva. Se non fossero stati uniti, sarebbero caduti tutti, inesorabilmente, come il grano sotto la falce.

"Maledizione" si disse Hnreal. Non andava bene, per niente! Era ora di lanciare i propri dadi e di giocare tutta la posta. Il Generale si stava lasciando convincere dalle parole di quel dannato Capitano, e ciò non andava affatto bene. Era ora di intervenire. – Generale – disse portandosi al suo fianco e appoggiando una mano sull'elsa della spada. I Capitani si azzittirono, lasciando la tenda nel completo silenzio. Hnreal li fissò uno ad uno, negli occhi. Vi trovò stupore, rabbia, persino un briciolo di paura. Sorrise. – Sappiamo tutti che i predoni sono molto più numerosi di noi. – Lyondirr incrociò le mani e si morse il labbro. Dove voleva arrivare quel dannato? - E allora? Ci sono sempre state più pecore che lupi. Quello che sta emergendo da quest'assemblea, perché mi rifiuto di chiamarlo consiglio di guerra, è un patetico tentativo di scappare dietro la falsa sicurezza della viltà. Abbiamo davanti a noi la possibilità di fare piazza pulita di questi dannati predoni e cosa consigliano di fare i nostri Capitani? Mettere una mano sugli occhi e scappare. Scappare, come cani bastonati! Dove è andata a finire la gloria? L'onore? La guerra? – la sua voce era calma e sicura, ma vibrava di sdegno a tal punto che vari Capitani chinarono il capo. Lyondirr era semplicemente sbigottito: Hnreal avrebbe avuto tutti i motivi per cercare di impedirgli quella guerra, e invece lo appoggiava e, anzi, stava riaccendendo lo spirito dei suoi Capitani! – Non ho nulla da aggiungere alle mie parole, se non quest'ultimo consiglio: marciare, attaccare e vincere!- Hnreal urlò queste ultime parole, e il Generale batté la mano sul tavolo. – Ecco ciò di cui avevo bisogno! Non di stupidi consigli, ma di forza! – cercò di dare alla sua voce un tono di comando, mentre si alzava dalla sedia e alzava le braccia in alto in un gesto teatrale. - Voglio un esercito glorioso, non timoroso come una vecchia! – si passò una mano tra i capelli. – Che queste parole vi siano di monito! Noi siamo qui non per combattere, ma per vincere. Noi non possiamo perdere. - Le sue parole vennero accolte da un silenzio tetro, che esprimeva tutta l'incertezza dei Capitani. Tuttavia il Generale era così esaltato da non accorgersene, e prese il loro silenzio come una prova di colpevolezza. Forse era stato troppo duro con loro... ora aveva intenzione di rinfrancare i loro spiriti. – Capitani – disse posando delicatamente una mano sulla mappa – pensiamo a una strategia. – Dietro, alle sue spalle, Hnreal sorrise.

Eccola. L'ondata di energia che lo travolse per poco non lo fece impazzire sul colpo. Talewin sentì un dolore acuto scavargli le ossa e urlò, ma tutto questo venne rimpiazzato subito da un profondo senso di felicità che lo pervase e che crebbe sempre di più. Le lacrime gli solcarono il viso, mentre il dolore lo abbandonava. Aveva trovato ciò che stava cercando. Sangue di Vita.

- Che sia dannato! Lui e tutta la sua maledetta Casata! – tuonò Helyoriff. Tirò un calcio ad un cumulo di neve e sputò per terra. Mulinò i grossi pugni intorno a sé, imprecando, e Anewen ebbe l'accortezza di tenersi a debita distanza. Sospirò e cercò di calmare i bollenti spiriti del compagno. – Calmati Helyoriff. Oramai è inutile prendersela. Gli ordini sono stati impartiti e non si può più tornare indietro.- Nonostante le sue parole, anche Anewen era furente. Lyonidrr aveva iniziato a buttare sul tavolo un'idea più assurda di un'altra, mentre i Capitani tentavano dare i loro consigli senza schierarsi apertamente contro il Generale. Era emersa la possibilità di un assalto diretto contro le montagne, poi di una ritirata strategica, idea bocciata subito da Lyondirr, che aveva tuonato di non pensarci nemmeno. Infine si era arrivati alla possibilità di attendere i predoni in quella radura. Era la cosa migliore da fare, secondo Anewen. Se quello spiazzo era talmente grande da poter ospitare l'intero accampamento degli elfi, avrebbe potuto anche contenere un esercito in formazione compatta. Certo, le Guardie Notturne avrebbero avuto difficoltà a manovrare nella neve, perché i cavalli affondavano facilmente nell'insidiosa coltre bianca, ma Anewen sapeva per esperienza che raramente le battaglie venivano vinte solo grazie alla cavalleria. Se la fanteria e i Cacciatori avessero mantenuto la posizione e avessero combattuto come solo loro erano capaci di fare, allora la vittoria sarebbe spettata agli elfi. In caso contrario, sarebbe stato un massacro, un completo ed inarrestabile massacro. Ma in quella radura c'era comunque una possibilità, per quanto sottile, di poterne uscire vincitori. E invece, nulla da fare. Hnreal era intervenuto ancora una volta, e tutto era andato a rotoli. Il suo discorso aveva completamente spazzato via ogni altra possibile strategia. – La radura altro non è che una grande trappola in cui i predoni ci hanno attirati - aveva sentenziato. Molti dei Capitani si erano offesi, dato che il lavoro dei loro Cercavia veniva pesantemente criticato, ma Lyondirr stesso, che avrebbe dovuto essere il primo ad adirarsi per quelle parole, li aveva fatti tacere. – Stare qui è consegnarci agli uomini. Caleranno su di noi e, in un posto come questo, ci uccideranno tutti. La mia cavalleria non è in grado di manovrare facilmente, e voi tutti sapete che danni può causare una carica di cavalieri ben orchestrata – Anewen lo aveva interrotto, ammonendolo di non sopravvalutare troppo le sue Guardie Notturne, e di considerare attentamente la reale situazione in cui si trovavano. Lyondirr era andato in escandescenza, ordinandogli di tacere. – Dobbiamo andare via da qui!- aveva tuonato Hnreal, sovrastando le parole dei vari Capitani. – Andare via e combattere! Non possiamo stare qui, dobbiamo andarcene, e il più presto possibile! Non ci sono altre possibilità! – e alla fine, inevitabilmente, incurante di tutti i consigli che i suoi Capitani cercavano di dargli, Lyondirr aveva preso la sua decisione. Tutti e sette i reggimenti sarebbero partiti la mattina successiva, in una lunga colonna che si sarebbe snodata in una stretta valle più a nord. Gli elfi sarebbero partiti alla ricerca di un terreno adatto allo scontro finale e, con l'aiuto degli dei, avrebbero riportato una grande vittoria. O sarebbero morti nel tentativo.

Hnreal era euforico. Il progetto che aveva intrapreso con pochissima speranza di riuscita stava invece prendendo vita sotto i suoi occhi, e sapere che era tutto merito suo lo esaltava. Allungò la mano per scostare i tendaggi e uscire quando la voce del Generale lo trattenne. - Devo parlarti - Il Capitano delle Guardie Notturne si voltò lentamente, e in quei pochi istanti riuscì a trasformare la propria espressione dal terrorizzato allo stupito. - Che abbia capito tutto? - si chiese mentre gli occhi di Lyondirr lo fissavano. Il Generale sorrise.

- Mi auguro che i tuoi guerrieri siano pronti, Novgod – il massiccio uomo alzò lo sguardo irato e aprì la bocca per ribattere a tono, ma la richiuse subito appena si rese conto che a parlare era stato lo sciamano del Grande Padre. Smise di affilare l'ascia che teneva stretta nel pugno e la depose accanto alla propria armatura di cuoio bollito. – Sono sempre stati pronti. Da quando le orecchie a punta hanno iniziato a scalare le nostre montagne, non hanno fatto altro che tenere sotto mano le armi e pregare gli dei di poterle usare il più presto possibile - - come ha fatto tuo fratello Urrjok? – chiese lo sciamano con un sorriso crudele. Novgod sentì il sangue pulsare nelle tempie, ma si trattenne. La sconfitta subita qualche giorno prima bruciava ancora, e il fatto che la causa della disfatta fosse stato un membro della sua famiglia rendeva l'uomo furioso. – Urrjok era uno stupido, ed è stato punito per la sua testardaggine. Non ha ascoltato il Grande Padre e si è gettato nelle fauci della morte! - - e tu... - lo interruppe lo sciamano – io non sono mio fratello - - perfetto! È questo che volevo sentire!- disse lo sciamano sorridendo ancora una volta. Poi il suo volto tornò a farsi cupo. – Seguimi- ringhiò a Novgod che, sorpreso per il repentino cambiamento, obbedì. Dovette socchiudere per un istante gli occhi a causa del bagliore immacolato della neve, ma non appena li riaprì il familiare paesaggio della valle si spalancò alla sua vista. Decine e decine di rozze capanne di pelle conciata emergevano dal bianco manto invernale, mentre uomini, donne e bambini schiamazzavano allegramente tra la neve. In un angolo una capra belò disperata, ma venne subito zittita da un colpo di pugnale nella gola. Non era l'unico animale a essere ucciso: Novgod aveva ordinato di preparare più provviste possibili, e ora la valle in cui la sua tribù si era accampata risuonava dei versi degli animali macellati. Il capotribù si passò la mano nella folta barba nera, e si chiese che cosa mai volessero da loro quelle dannate orecchie a punta. Ricchezze? Terre? Schiavi? Per quanto sapeva, i suoi gracili nemici avevano molte più ricchezze di qualsiasi capotribù, e riguardo alle terre a Novgod pareva assurdo che gli elfi cercassero di occupare le inospitali montagne quando si erano già insediati nella molto più fertile ed accogliente pianura. Volevano forse schiavi? Probabile. Ma il capotribù non riusciva comunque a capire. Le orecchie a punta si stavano spingendo sempre più a fondo nel loro regno innevato, ma non avevano ancora tentato di scontrarsi definitivamente. Stavano aspettando rinforzi? O speravano di cogliergli di sorpresa? Eppure dovevano sapere che per ogni loro guerriero il Grande Padre ne poteva schierare almeno sei.– Allora, andiamo? Non sono venuto qua per aspettare - il tono autoritario e beffardo dello sciamano interruppe i pensieri del capotribù, che gli lanciò una feroce occhiata - Bada alle tue parole, sciamano, o farò in modo che tu non possa più mancarmi di rispetto- parlò in tono pacato, ma il messaggio giunse chiaramente. Lo sciamano incassò il capo nelle spalle e si morse le labbra. - Non volevo offendere il tuo onore, guerriero. Sono teso e preoccupato, e a volte le parole sfuggono dai denti. Chiedo perdono. - Novgod bofonchiò qualcosa, poi lasciò cadere la questione per cui aveva già perso l'interesse. - Cosa volevi da me? – chiese. Se lo sciamano del Grande Padre si scomodava a venire in quelle vallate dimenticate, significava che si stava preparando una bella bufera. E se ci sarebbe stato da combattere, Novgod e i suoi erano più che pronti. - Seguimi - mormorò lo sciamano. Fece qualche passo in avanti, ma poi si girò di colpo. – Siamo soli? – Novgod sbuffò impaziente. – Sì, sì, puoi stare tranquillo.- Lo sciamano sospirò forte, poi iniziò a incamminarsi nella neve appoggiandosi al suo nodoso bastone. Il capotribù lo seguì senza fatica. Attraversarono una vasta piana puntellata da enormi massi neri, poi s'inoltrarono nella neve fresca. Sbuffando e sudando, si fecero strada fino ad una grande caverna, circondata da scheletrici alberi da tempo morti per il gelo. La radura era nel completo silenzio, rotto solamente dall'ululare del vento e dal gracchiare dei corvi. Il capotribù gettò un'occhiata alla caverna, ma non riuscì a scorgere la parete di fondo da tanto era buia. – Che brutto posto. – pensò. Si accorse di essersi fermato e cercò con lo sguardo lo sciamano. Rimase sorpreso quando si accorse che l'omuncolo si stava issando fuori dalla neve diretto proprio in quelle fauci buie, e si chiese quali fossero le sue reali intenzioni. – Che diamine ci facciamo qui, vecchio? – gli chiese raggiungendolo con rapide falcate. Puntò un grosso dito contro il buio. – Qui dentro non c'è un bel niente. Se volevi parlarmi in privato bastava dirlo subito, perché conosco molti altri posti ben più nascosti. Se invece è uno dei tuoi soliti scherzi, sappi che questa maledetta grotta potrebbe essere l'ultima cosa che vedi –Lo sciamano stava riprendendo fiato, ma sentendo le parole di Novgod non poté non ribattere. – Sei qui né per la prima cosa né per la seconda - - E allora perché dia... - - Guarda- lo interruppe l'altro, puntando un dito nodoso verso l'interno della grotta. Novgod seguì con gli occhi la direzione indicata e inizialmente non vide nulla. Poi però, piano piano, mentre la sua vista si abituava al buio, una sagoma ben nota gli apparve. E ogni suo dubbio si dissipò. – Un dannato orecchie a punta! - ringhiò, maledicendosi di non aver a portata di mano nemmeno una misera arma. Dal fondo buio della caverna emerse lentamente la figura alta e sottile di un elfo, e Novgod sentì le tempie pulsare. L'elfo era rivestito da un'armatura nera come la notte, e sul capo portava un elmo da cui scendeva delicata una grande piuma rossa. Il suo sguardo era gelido, ma tradiva una certa paura. Il capotribù fece un passo in avanti, ma l'esile braccio dello sciamano lo fermò. – No. - - No? È un maledetto bastardo, e perdipiù è anche isolato, e non me lo lascerò scappare! Basterà spaccargli il collo, o... - - No! - ripeté lo sciamano alzando la voce. L'elfo si era nel frattempo fermato, e osservava i due uomini parlare nella loro gutturale lingua. Appariva calmo, ma la mano posata sull'elsa della spada lasciava trasparire la sua preoccupazione. - Lui è qui per trattare - - Trattare? Vogliono arrendersi? - Novgod sentì il sangue pulsare sempre più forte. Non capiva più nulla. Prima gli appariva un elfo davanti agli occhi, e adesso saltava fuori che non poteva toccarlo. - Non vogliono arrendersi, nient'affatto. Lui ce li sta vendendo tutti. Lui odia i suoi simili e li consegna nelle mani del Grande Padre. Per questo tu sei qui. Per andare a prenderli. Morti. –

- Dannazione! – esclamò Lhiref. Erhan, davanti a lui, lanciò un urlo di gioia. – Devi avere offeso le divinità dei dadi, amico mio! Non ho mai visto un giocatore fare tiri così! - - Sta' zitto! – ringhiò la Guardia Notturna come risposta. – Dannazione! – ripeté sbattendo un pugno sul tavolo. Fissò con rabbia i dadi, e si chiese come si poteva essere maledettamente così sfortunati. Gli sarebbe bastato un numero più altro del tre per rimanere in gioco, e invece che cosa era uscito? Un maledetto paio di tette! Due uno! – Maledetti dadi di merda! – tuonò scagliandoli nel fondo della tenda con tutta la forza che aveva. – Stai tranquillo, Lhiref, era solo un'innocua partita. – Disse Erhan, cercando di trattenere le risa. – Certo, però nel frattempo tu ti sei già intascato i soldi, brutto ladro! - - Beh, puoi sempre cercare di riprenderli, no? – Erhan sorrise, estraendo un altro paio di dadi. – Lascia perdere, o giuro che ti soffoco con quei dannati aggeggi... – Lhiref sospirò, picchiettando con le dita sulla superficie ruvida del legno. Scosse il capo un paio di volte, maledicendosi ancora, poi si alzò. Ora voleva farsi una bella bevuta per dimenticare l'arrabbiatura, al diamine il regolamento! Si diresse verso il fondo della tenda, dove c'era un piccolo barile di sidro coperto da un pesante telo nero. Nell'esercito era proibito bere, soprattutto in un reggimento come quello delle Guardie Notturne, ma a Lhiref non importava affatto. Aveva corrotto già molti Capitani, e sapeva che Hnreal non si sarebbe interessato mai degli affari privati dei suoi soldati, a meno che questi non si fossero intromessi nei suoi. Tolse con un ampio gesto il telo di copertura e, dopo aver raccolto da terra un bicchiere di legno, lo riempì fino all'orlo. Bevve il liquido giallastro e amarognolo in un solo sorso, poi si riempì di nuovo il bicchiere. – Smettila di bere, Lhiref, o arriverà la volta in cui ti scopriranno - - e tu pensi che accadrà mai? – l'elfo si scolò anche il secondo bicchiere. Allungò la mano per riempirlo la terza volta, ma un improvviso rumore di passi lo fece trasalire. Ebbe appena il tempo di coprire con il panno nero il barile, poi i tendaggi furono aperti con forza e un elfo si precipitò nella tenda. Lhiref imprecò. – Maledizione, Lenaird, quasi mi facevi morire dalla paura! – Il nuovo arrivato, che stava riprendendo fiato, scoppiò a ridere. – Lhiref che prova paura? Che mi colga un fulmine! - - Paura? Ho detto paura? Intendevo un leggerissimo tremolio... – Lenaird sorrise, scuotendo i lunghi capelli neri. Era un elfo alto, con un viso ossuto e il corpo asciutto. Lhiref era alto quanto lui, ma era più robusto e il suo volto era sfregiato con una grande cicatrice, ricordo di uno scontro sfortunato. Erhan era invece il più diverso tra i tre: era basso, ma aveva un petto largo e muscoli saldi. I lunghi capelli ramati scendevano fino alle grosse spalle, e tutti si divertivano a prenderlo in giro chiamandolo " elfo in miniatura". Sapevano bene però che era meglio non passare il limite, se non volevano trovarsi con un braccio spezzato o una spalla lussata. – Allora, caro compagno di tenda, che notizie ci porti? – chiese Erhan, raccogliendo dal tavolo i dadi. Si voltò verso Lhiref e alzò verso di lui i dadi. Per tutta risposta l'altro gli lanciò il bicchiere. – Ecco che smetti di bere! – disse Erhan abbassandosi e schivando il colpo. Lenaird si passò una mano tra i capelli e sbuffò esasperato. – Allora? Mi fate domande e non mi lasciate rispondere? – chiese. Erhan lasciò cadere a terra il bicchiere che aveva raccolto e Lhiref smise di cercare un altro possibile proiettile. Si sedettero intorno al tavolo ma Lenaird non li seguì. Raccolse invece il bicchiere che il suo compagno aveva lasciato cadere e, tolto il telo dal barilotto, si versò un'abbondante dose di sidro. – Non c'è di che...- gli sibilò contro Lhiref, tamburellando sul tavolo. – Grazie tante, ma stai tranquillo. Mi sono già servito da solo – rispose Lenaird, incurante del tono beffardo dell'altro. Finalmente si sedette con loro, e dopo aver bevuto un lungo sorso, fissò negli occhi sia Lhiref sia Erhan. – Sapete cosa mi hanno riferito i due che hanno accompagnato Hnreal al consiglio di guerra? - - Ma non doveva essere una cosa segreta? - si chiese ad alta voce Lhiref. – Segreta o no, è trapelato qualcosa... - mormorò Lenaird con fare cospiratore. - Cioè? – chiesero all'unisono gli altri due. Iniziavano ad essere interessati. Se le notizie riguardavano Hnreal, allora riguardavano direttamente anche le Guardie Notturne. Lenaird bevve ancora, scolandosi fino all'ultimo goccio di sidro, poi lanciò il bicchiere dietro di sé. – Allora? Parli o no? – sbottò Lhiref. Lenaird sorrise. – Partiamo – disse finalmente – e noi avremo l'onore di essere a capo della colonna – Lhiref imprecò ad alta voce, Erhan si mise a ridere. – Ci sarà da combattere, amici miei!- disse battendo un colpo sul tavolo - Ah, se ci sarà da combattere! Sarà un vero spasso, vedrete! – - Ah, sì... sarà un vero spasso. Vedrete. – sussurrò Lenaird con un sorriso. – sarà davvero divertente. Davvero. -

Ai soldati venne annunciato che la mattina del giorno dopo, alle prime luci, si sarebbero di nuovo rimessi in marcia. Sarebbero penetrati ancora più a fondo nel regno del nemico, avrebbero combattuto, avrebbero vinto e, se gli dei avessero voluto, sarebbero tornati a casa.

- Sarà tutto più difficile del previsto- sussurrò Hnreal, e lo sciamano socchiuse gli occhi. – Non vorrai tirarti indietro - - Non ho detto questo, ho solo detto che sarà tutto maledettamente più difficile – Hnreal respirò a fondo, cercando di non farsi prendere dalla rabbia e da quell'incessante senso di paura che, da quando si era allontanato di nascosto dal campo, gli aveva invaso la mente. Sapeva di essere un bravissimo spadaccino e di essere in grado di sbarazzarsi di qualsiasi predone, ma il doversi affidare agli uomini per la riuscita del suo progetto lo rendeva nervoso. I predoni avrebbero potuto voltargli le spalle in ogni momento, e lui non sarebbe stato capace di reggere il confronto. Dalla sua parte aveva solo un centinaio e poco più di Guardie Notturne, guerrieri eccellenti e preparati certo, ma troppo pochi... doveva davvero fidarsi di quei rozzi barbari. Come se gli avesse letto nel pensiero, lo sciamano scoppiò in una rauca risata. L'enorme capotribù, che nel frattempo si era messo leggermente in disparte, si voltò con uno strano luccichio negli occhi, sperando che lo sciamano gli desse l'ordine di uccidere quel dannato elfo. Invece il vecchio smise di ridere, sputò per terra un pezzo di catarro giallastro e con il suo nodoso bastone indicò la neve bianca. – Devi fidarti di noi, elfo, così come ha fatto con te il Grande Padre. Egli ha messo nelle tue mani quasi tutti i suoi guerrieri, e ora tu possiedi un esercito incalcolabile. Migliaia di gole urleranno contro il tuo nemico e migliaia di asce reclameranno il sangue di chi tu vuoi venderci, ma devi fidarti. Perché se non lo farai, potresti scoprire che le gole e le asce hanno molto in comune...- la minaccia aleggiò nell'aria, e Hnreal si affrettò a calmare le acque. – Mi fido, stanne certo. Ti ho detto solamente che ora sarà tutto più difficile. - - Hanno scoperto il tuo piano? – chiese con una smorfia lo sciamano – No, niente di tutto ciò. Altrimenti non sarei qui. Tuttavia le cose si sono maledettamente complicate... il Generale ha deciso di rimanere al campo. Non seguirà l'esercito, e se ne starà al caldo sotto la sua fottutissima tenda – - Non vedo alcun problema – lo interruppe l'uomo. – Gli elfi marceranno comunque tra le montagne e il tuo mago, con le sue strane magie, non dovrà fare altro che trasportare i nostri guerrieri direttamente tra di loro. Poi sarà solo questione di tempo. Che cosa potrebbe andare storto? - - Il fatto che, se il Generale per caso capisse cosa sta succedendo ai reggimenti, anche solo per caso, potrebbe fuggire con le Guardie Notturne che ha tenuto con sé. Avendo un enorme vantaggio su di me, una volta raggiunti i Cancelli Dorati potrebbe mandare tutto il mio progetto in fumo. Di tutte le Guardie Notturne che l'hanno seguito solo la metà sono dalla mia parte, con le altre non ho voluto correre un rischio inutile. Ma ora potrebbe rivelarsi tutto maledettamente pericoloso. - mormorò Hnreal passando una mano nel pennacchio rosso del suo elmo. Lo sciamano storse la bocca e si grattò il mento ossuto, cercando di riflettere su ciò che gli era stato detto. Per loro non avrebbe avuto alcuna importanza se gli elfi fossero stati massacrati mentre camminavano o mentre erano nella radura. Ma sembrava che tutto questo fosse per l'elfo di fondamentale importanza, e bisognava accontentarlo. – Sembra che tutto si sia complicato – disse. - Ecco perché ho portato lui – lo sciamano indicò Novgod. – Capotribù, c'è bisogno di te – Novgod fece uno strano sorriso.

Bastò un'ora per decretare come sarebbero morti migliaia di elfi. Quando Hnreal tornò di nascosto all' accampamento, si sentiva quasi allegro. Ora niente poteva più andare storto. Avrebbe detto al mago il cambio di programma, avrebbe affilato la sua spada e avrebbe atteso. Oh sì. Era tutto così maledettamente semplice.

Il sole morente iniziò a scomparire oltre il confine frastagliato delle montagne, e Lyondirr si perse a pensare al giorno che sarebbe arrivato. Hnreal stava progettando qualcosa, e forse lui sapeva anche cosa. Per questo lo aveva messo a capo della colonna. Certo, i cavalli avrebbero rallentato tutti, ma Hnreal si sarebbe trovato davanti ad un intero esercito se mai si fosse azzardato a ribellarsi. E poi, in una posizione così avanzata, sicuramente avrebbe avuto problemi con gli attacchi dei predoni. Era fatta. Tutto combaciava alla perfezione. Lyondirr sorrise, immaginandosi il volto irato di Hnreal, alle prese con la neve fresca e gli uomini. Lui sarebbe rimasto al campo ancora per un giorno, con metà delle Guardie Notturne. Lo rassicurava avere con sé duecento soldati così esperti e preparati. Avrebbe atteso che la colonna avesse qualche ora di vantaggio, poi gli avrebbe seguiti. Aveva un progetto, un magnifico progetto. Avrebbe lasciato che il suo esercito si scontrasse in campo aperto contro i predoni, avrebbe lasciato che questi uccidessero un alto numero di soldati, e poi, quando la speranza sembrava oramai persa, sarebbe intervenuto, entrando nelle file degli uomini con la furia di un drago. Sarebbe apparso come un salvatore, e i Capitani non lo avrebbero mai più sottovalutato. Dirumnir sarebbe diventata una spada leggendaria, onorata dai mortali e dagli immortali. Sarebbe diventato un grande, e le sue gesta sarebbero state cantate per sempre. Perso nei sogni, non si accorse che oramai la notte era calata. Solo quando un freddo vento gli artigliò il corpo uscì dai suoi pensieri. Gettò ancora uno sguardo al buio, e alle stelle che facevano capolino nel cielo cupo. Sorrise. Poi, aprendo veloce i lembi della tenda, entrò al caldo.

-Ora sai tutto. Tocca a te, mago - - Non temere, saprò reggere il compito che mi aspetta. - - Lo spero per te, Talewin, o non vedrai una nuova alba – il mago non si lasciò intimorire da quelle parole. Il giorno precedente se la sarebbe fatta sotto, ma ora sentiva la potenza scorrergli nelle vene, e nulla lo spaventava più. Aveva vinto contro l'energia più grezza, che cosa avrebbe potuto sconfiggerlo? – Farò ciò che ho promesso – rispose, tralasciando il tono rabbioso di Hnreal. Percepiva in lui una grande tensione e, in fondo, anche un po' di paura. – Manterrò la mia parola – ribadì. Poi, incurante di tutto ciò che Hnreal aveva ancora da dirgli, s'incamminò verso la propria tenda. Il Capitano delle Guardie Notturne lo guardò allontanarsi nella neve, e fu preso dall'istinto di conficcargli la lama tra le scapole. – Pazienza... – si disse, cercando di trattenersi. – Avrai la tua occasione. Ora ti serve. – respirò a fondo, poi s'inoltrò nel buio. Doveva affilare la propria lama.

Una delle prime Leggi che gli elfi apprendono, nel lungo percorso che li porta a essere maghi, è quella dei Piani. – Nulla di ciò che vedete è solo ciò che vedete – amava ripetere ai suoi discepoli Lhirjelyel, il mago che riguardo a questa Legge assurda ne sapeva di più. E più o meno è così. La Legge dei Piani è tanto facile quanto difficile da accettare: in breve, è la Concezione Planare di ogni cosa, che s'interseca con il presente, il passato e il futuro. Questo è quello che viene insegnato ai giovani elfi, ed è questo che molti di essi si limitano ad imparare a memoria. Invece, se studiata con attenzione, la Legge dei Piani può rivelarsi una fonte di enormi potenzialità. Il modo migliore che Lhirjelyel aveva per spiegare la Concezione Planare era prendere una grossa mela e tagliarla orizzontalmente in decine di fette. - Immaginate che questa mela sia il nostro mondo... – diceva -e che la fetta centrale sia la realtà in cui viviamo... – prendeva allora la fetta orizzontale al centro della mela e toglieva quelle sopra. – Immaginate adesso che tutte le altre fette che io appoggio sulla fetta centrale, che chiameremo Piano Reale, siano infiniti Piani Possibili. Tutti sono contemporaneamente uniti al Piano Reale ma nello stesso tempo ne sono distaccati. Ogni piano Possibile rappresenta il Piano Reale nel suo passato, nel suo presente e nel suo futuro. Ma questo non riguarda solo la realtà presa in senso generale, riguarda ogni singola essenza. Tutto, ogni cosa esistente, dal sasso più piccolo al drago più grande, ha infiniti Piani Possibili, ovvero ha infiniti piani sopra e sotto di sé, che rappresentano tutto il corso del suo tempo. Ma non finisce qui: se io prendo un'altra mela, cioè un'altra realtà – e dicendo ciò afferrava un altro frutto tagliato orizzontalmente come il primo – posso mischiare le due realtà, posso unire i loro Piani Possibili- mischiava allora le fette del primo e del secondo frutto, creando un'unica grande mela. – Così facendo, si potrebbero mischiare le storie di due essenze, o unire due realtà, fondere assieme due paesaggi, saldare in modo orribile due destini. La Legge dei Piani è una legge pericolosa, ma che può essere fonte di un incalcolabile potere. Un potere che voi potete solo sognare. La lezione è terminata. – Lhirjelyel, ogni volta, finiva in questo modo il suo discorso e, immancabilmente, non appena l'ultimo studente era uscito dalla stanza, si mangiava la mela.

Con un sordo scatto, i due blocchi del baule saltarono. Talewin lo aprì e inspirò estasiato l'odore delle sue vecchie pergamene. Gettò una rapida occhiata, frugando con delicatezza, e la trovò un attimo dopo. Tra le sue compagne ingiallite e contorte, la pergamena che stava cercando risaltava subito. Il mago sorrise al ricordo di quello che aveva dovuto spendere e di quanti aveva dovuto corrompere per averla. Ma erano stati soldi spesi bene, molto bene. Dischiuse la frusciante pergamena, e un nuovo sorriso gli si dipinse sul volto. Sentì guizzare la magia che gli scorreva nelle vene, e in quell'istante fu consapevole di tutta la potenza del rituale che stava per compiere. Ma dentro di se non provava paura. Solo esultanza.

Lhiref entrò nella tenda, stanco dopo il turno di guardia al freddo, e l'ultima cosa che si sarebbe aspettato di trovarvi erano due Guardie Notturne e il Capitano. Hnreal si voltò, fissandolo con uno sguardo strano, ma non disse nulla. Lhiref si chiese perché mai era entrato, ma quando gettò un'occhiata a ciò che le due Guardie Notturne stavano portando via, gli venne un colpo. Il suo barilotto. Sentì il volto impallidire e iniziò a sudare. - Capitano, io... - - Tu non hai visto niente. E questo sidro non è mai esistito – lo interruppe con durezza Hnreal. – Sissignore - Il Capitano fece un segno agli elfi che aspettavano solo un suo ordine, e all'istante i due si caricarono sulle spalle il barilotto. Superarono uno sbigottito Lhiref e s'incamminarono nel crepuscolo. Hnreal, appena fuori dalla tenda, si voltò ancora una volta. – Non è mai successo niente, soldato. Torna a giocare con i tuoi dadi. – Lhiref annuì debolmente. Il Capitano lo fissò ancora un istante, poi s'incamminò tra la neve. Lhiref lo seguì con lo sguardo, finché non lo vide sparire dietro ad una tenda. – Schifoso opportunista... maledetto... lo odio – sibilò con rabbia. Sputò per terra con disprezzo, e poi chiuse la tenda. Dannato bastardo.

Elonir avvicinò le mani infreddolite al fuoco. Accorgendosi che si stava spegnendo, lo ravvivò con un paio di pezzi di legno, e sorrise quando le fiamme tornarono ad alzarsi crepitando allegre. Rimase a fissare il fuoco danzare, e all'improvviso si trovò a pensare al camino di casa, alla moglie, al bambino che ancora non aveva visto la luce. Sarebbe nato entro due mesi, ed Elonir sperava con tutto il suo cuore che quella campagna finisse in tempo. Sapeva che era un'illusione, e che la guerra sarebbe andata avanti per molto tempo ancora, e che tutto non si sarebbe risolto in due mesi soltanto. Ma continuava a coltivare il sogno di poter abbracciare il proprio figlio, e poi abbracciare sua moglie Helena. Una mano gli si appoggiò sulla spalla e il Cercavia trasalì per la sorpresa. – Un elfo ben addestrato come te non dovrebbe farsi cogliere impreparato – disse il nuovo arrivato con un largo sorriso. –Anewen, per poco non mi facevi venire un colpo! Non hai niente di meglio da fare che passare la notte a spaventare chi fa la guardia? - - Di guardia, tu? Certo, e io sono appena tornato da un ricco banchetto! - bofonchiò Anewen, entrando nella luce del falò e sedendosi accanto ad Elonir. Il Cercavia sentì il sapore dolciastro dl sidro nell'alito del Capitano, segno che aveva bevuto qualche bicchiere di troppo, ma l'elfo sembrava ancora connettere. - Ubriaco sì, ma fuori di testa no, eh?- disse Elonir dando una pacca sulla spalla di Anewen. – Bevo ma non crollo –mugugnò il Capitano. Poi si ammutolì, e rimase a fissare le fiamme. Elonir attese, ma quando si rese conto che l'altro sembrava essersi imbambolato, si chiuse nel silenzio anche lui. Passarono una ventina di minuti, poi Anewen parlò all'improvviso. – Sai una cosa, Elonir? - - Sì? - - Non ti sembra tutto un dannato gioco? - -Cosa? - -Tutto - -Tutto? Tutto cosa? - - Ogni cosa: l'esercito, il reggimento, questa maledetta spedizione, questo dannato accampamento... - - Non ti seguo, Anewen... - disse Elonir, anche se già cominciava a capire. – Guardati attorno, amico. Tutto questo è un gioco, una finzione... quanti soldati sono partiti con l'idea di tornare? Penso tutti. E quanti torneranno? Penso pochi, molto pochi. E chi sarà a decidere tutto ciò? Un maledetto bastardo! Uno schifoso Supremo che pensa più ai suoi capelli che al suo esercito! - - Anewen... - iniziò a dire Elonir – No, no! Lasciami andare avanti! – disse il Capitano alzando la voce – Cerca la gloria, il dannato damerino! Che gloria aveva il corpo senza vita di Flennar? O lo stomaco sventrato di Domhair? O il sangue caldo e viscoso di Heetal? Potrei farne decine e decine di esempi... nulla. Nessuna gloria, Elonir, non avevano nessuna gloria. Lyondirr ha presentato questa guerra come un dannato gioco di strategia... vincerà che muove più velocemente le proprie pedine. – si alzò e sputò nel fuoco – e che fa lui? Se ne sta rintanato nella sua tana dorata! - -Anewen, abbassa la voce- - No! Perché tu non lo sai ancora, e nessuno dovrebbe saperlo, ma Lyondirr non marcerà con noi! Se ne starà qui, a proteggersi le natiche mentre noi cammineremo nella neve fresca e creperemo per le sue maledette idee di conquista! - - Adesso datti una calmata! – sbottò Elonir, gettando un'occhiata al buio circostante. Qualche Capitano avrebbe potuto sentire le urla di Anewen, e sicuramente qualche soldato del Falco Rosso stava già ascoltando. Loro erano fedeli al loro Capitano e non lo avrebbero mai denunciato, ma i soldati degli altri reggimenti? Elonir non si fidava. – Abbassa quella dannata voce, o sveglierai tutto l'accampamento- ripeté, e Anewen obbedì, tornando a sedersi. Rimase per qualche istante in silenzio, tenendosi la testa tra le mani. – Scusa, Elonir. Mi sono lasciato prendere la mano, e il sidro non mi ha aiutato. Nella tenda comune dei Capitani stasera è arrivato un barilotto, non so chi l'abbia portato, era buono e abbiamo alzato un po' troppo il gomito. Scusa. - - Sempre sbronzi, vero? – ridacchiò Elonir – Beh, alcuni di noi erano davvero conciati male. Frejall, ad esempio, era davvero partito... non l'ho mai visto così. È convinto che domani il suo reggimento sarà distrutto, e non ha tutti i torti. Sono rimasti davvero in pochi... - sospirò, fissando le fiamme che si agitavano sotto un'improvvisa folata di vento gelido. – E anch'io tremo. Ho paura che, domani, il Falco Rosso cadrà nella neve. Saremo feriti a sangue, e il grande Falco sarà abbattuto. Combatterà, ma infine dovrà cedere. Questa è la mia paura. – Elonir non rispose. Conosceva bene lo stato d'animo del suo Capitano, e sapeva altrettanto bene che non poteva farci nulla. Anewen aveva paura, così come tutti loro. Cosa avrebbero riservato le montagne agli incauti che le avevano sfidate? E i predoni, quanti erano? Se avessero anche sconfitto un loro esercito, sarebbe bastato a fermarli per sempre? Erano tutte domande che vagavano tra i soldati, ma a cui nessuno aveva mai cercato di dare una risposta.

Il Grande Padre si passò la lingua sulle labbra umide. Guardò il capotribù uscire dalla sua caverna e pensò di aver fatto la cosa giusta affidando a Novgod quell'impresa. Doveva riscattare l'onore che suo fratello aveva perso, e l'avrebbe fatto con tutta la rabbia e la forza necessaria. Fuori, nella notte cupa, poteva sentire il vociare dei suoi guerrieri che si preparavano. Erano euforici, ma anche tesi. Odiavano intensamente gli invasori dalle orecchie a punta, ma avevano già dolorosamente provato sulla loro pelle quanto gli elfi potessero colpire duramente se si dava loro il tempo di schierarsi e di organizzarsi. Ma questa notte, pensò il Grande Padre, non ne avrebbero avuto il tempo. Perché la sua ira si sarebbe abbattuta su di loro e la valanga del suo potere li avrebbe spazzati via tutti.

- Noi siamo pronti, sciamano. Ora tocca a te. – disse Novgod, indicando con una mano la vasta massa dei guerrieri che attendevano nella radura innevata. Il buio era stracciato da decine di fiaccole, e il fuoco brillava sulle armi. Novgod, come la maggior parte dei predoni, non portava elmo. Aveva solo un'armatura di cuoio bollito, e un paio di braghe rinforzate con piastre di metallo arruginito. Al fianco portava una grande ascia bipenne, e alla coscia sinistra era fissato un largo pugnale. Sul viso barbuto recava i tatuaggi tribali, intricati segni blu che avrebbero attirato su di lui la benedizione degli antichi guerrieri. Lo sciamano si sentì più sollevato: come avrebbero potuto fallire con guerrieri del genere? – Non ancora, bisogna aspettare. Arriverà il momento. – disse al capotribù con tono leggero. In realtà era terrorizzato. Avrebbe dovuto manipolare una goccia di pura energia... e non sapeva se sarebbe stato capace di reggere. Aveva sempre fatto piccoli Incanti, come far crescere in pochi istanti un albero o decapitare con un solo gesto un bue, ma mai si era azzardato a ricorrere a magia vera e propria. L'elfo traditore aveva promesso che il suo mago avrebbe fatto l'Incanto tutto da solo, e che lui non doveva fare altro che aiutarlo a tenere a freno la potenza che si sarebbe inevitabilmente sprigionata, ma non era comunque tranquillo. Avrebbe giocato con il fuoco, e aveva la cupa sensazione che si sarebbe presto scottato.

- Cos' è stato?- chiese Hiniard, voltandosi di scatto verso le tenebre con lo sguardo accigliato. – Sarà stato il solito ubriaco. Tu ti preoccupi troppo. Pensa a finire il tuo turno e a tornartene in branda- sbuffò l'altro elfo di guardia. -Erano passi – - ma smettila! - La seconda sentinella si mise in ascolto, ma non sentì nulla. – Sei sempre il solito – borbottò – Non è uno scherzo, Yurriel – si difese l'altro – Ho davvero sentito qualcosa. – I due elfi scrutarono più attentamente nelle tenebre che li avvolgevano, aiutati solo da un misero fuocherello che bruciava a qualche metro da loro, senza però vedere nulla di strano. Ma Hiniard li aveva sentiti quei passi che si erano fermati proprio quando lui aveva poggiato la mano sull'elsa della spada, ne era certo. Yurrel, due metri più in la, sbuffò ancora. Poi, all'improvviso, il fuoco si spense e il buio più fitto calò su di loro. – Che diamine... - disse Hiniard sorpreso. Fece un passo in avanti, per cercare Yurriel, e udì un gemito sommesso. Smise di muoversi. Un rivolo di paura gli corse lungo la schiena. – Yurriel?- mormorò. Udì un tonfo, leggero. Qualcosa era caduto nella neve, qualcosa di pesante. Si costrinse, richiamando tutto il proprio coraggio, a camminare ancora nella neve fresca. Avanzò di qualche metro, poi udì ancora quel rumore. Passi. Andavano verso di lui. Si fermò di colpo, e sguainò la spada. I passi si fermarono. "A che gioco stiamo giocando?" si chiese. Yurriel stava esagerando. Fece ancora qualche passo nella neve, ma inciampò in qualcosa di grosso, steso a terra. Non si aspettava di trovare quell'improvviso ostacolo e cadde disteso nella neve. Si voltò e appoggiò una mano su ciò che lo aveva fatto cadere, imprecando ad alta voce. Era caldo, morbido, e per un istante Hiniard pensò che fosse una tunica, o un animale. Poi capì. Aprì la bocca per lanciare l'allarme, ma una corta lama gli sprofondò violentemente nella gola. Vide un solo lampo, percepì un solo istante di acutissimo dolore, poi dalla gola squarciata gli uscì un caldo getto di sangue. Emise un gemito, un solo flebile gemito, poi il pugnale recise con un colpo secco tutto il collo. La testa si staccò con uno schiocco e altro sangue macchiò la neve.

Hnreal ritrasse la lama del pugnale e calciò via la testa mozzata. Il sangue gli aveva macchiato l'armatura, ma oramai non aveva più importanza. Diede una rapida occhiata al corpo, poi s'inoltrò nelle tenebre. Era ora che i giochi avessero inizio.

Respiro profondo. Concentrazione. Un altro respiro. Forza dell'animo. Mente lucida. Volontà. Talewin era pronto.

- Scommetto la mia spada migliore che stavi pensando a tuo figlio - - Come hai fatto ad indovinare?- - Esperienza, Elonir, esperienza. – Il Cercavia sorrise, e gettò un altro pezzo di legno nel fuocherello che si stava spegnendo sotto l' implacabile vento gelido della notte. – Spero almeno di poter restare con lui per un po' di tempo... gli insegnerò tante cose... a tirare con l'arco, a cacciare, a pescare, a lanciare ai coltelli... - - e a barare con i dadi. È sempre utile – lo interruppe Anewen, dandogli una pacca sulla spalla. – E poi, quando sarà cresciuto abbastanza... - continuò il Capitano - ...lo arruolerò nel mio Reggimento! Me lo immagino già, sai? Basso, peloso, sgraziato e con due braccia così lunghe che quando le metterà parallele al corpo i piedi non toccheranno terra! - - Ehi, non ho messo al mondo un mostro – disse Elonir ridendo – e nemmeno Helena!- - Ah, la bella Helena! Chissà come sta? – chiese Anewen. – Penso e spero con tutto me stesso che stia bene – rispose il Cercavia, scaldandosi le mani. Si ricordava ancora il suo sguardo triste quando le aveva detto della nuova campagna di guerra, e del caldo abbraccio che si erano dati prima che lui partisse. Gli aveva fatto toccare il pancione e gli aveva fatto giurare che sarebbe tornato. E così sarebbe stato.

L'ascia brillò al chiarore della fiaccola, e Novgod sentì il cuore riempirsi di rabbia. " Che gli dei abbiano pietà delle orecchie a punta" pensò " perché io non ne avrò."

- Beh, ti ho già disturbato abbastanza- borbottò Anewen alzandosi. – Sempre più disperato, eh? Attento a non cadere in bocca ad un lupo, che mi spiacerebbe cambiare Capitano! – gli disse Elonir ridacchiando. - Puoi scommetterci, vecchio mio, puoi scommetterci a colpo sicuro! Quando arriverò dagli dei, mi spediranno di nuovo qui con voi a calci... non vi libererete mai di me. – era ormai notte fonda, e il freddo vento che tormentava la radura si era calmato un po'. In compenso si era lasciato dietro le spalle un gelo incredibile, che mutava i respiri in nuvolette e faceva tremolare persino il fuocherello che a malapena riusciva a rimanere acceso. – Sarà sempre così? – chiese Anewen indicando il cielo nero, dove grossi nuvoloni oscuravano le stelle. – No, no. La luna è piena, ed è molto luminosa. Oggi è coperta e non si vede un bell'accidente, ma la luna c'è. Se riuscirà a uscire da tutte quelle nuvole ti troverai come in pieno giorno. - - Fa così freddo da gelare persino il Fuoco Eterno... - Ah, dici? Dobbiamo ringraziare gli dei, invece: il vero freddo non è ancora arrivato - - E tu questo non lo chiami freddo? – disse Anewen cercando di scaldarsi le mani intirizzite. – Oh, no. Qui non è ancora arrivato il vero inverno. Quando arriverà, rimpiangeremo questo freddo, perché ancora non ci sono state tempeste di neve, grandine e tuoni. - - Sei consolante – borbottò Anewen – Farò finta di non aver mai sentito nulla e che tutto questo sia un sogno – il fuoco tremolò ancora per un istante, ed Elonir si affrettò a lanciare tra le fiamme un altro pezzo di legno. – Domani sarà un grande giorno – disse – e dobbiamo stare pronti. - - Già... - Anewen aveva uno strano sguardo, un misto di preoccupazione e stanchezza. Fissava il fuoco danzare, ed Elonir scorse nei suoi occhi il luccichio di una lacrima. Ma fu solo per un istante. Il Capitano si passò una mano sul viso, avvicinandosi al fuoco. – E' meglio che vada, adesso. Altrimenti domani avrete un sonnambulo come Capitano - - Ah, perché di solito sei sveglio?– - Ridi, ridi, vecchio rospo. Vedrai domani chi terrà per il verso giusto la spada. – disse Anewen dando una sonora pacca sulle spalle al Cercavia. – Buona nottata, vecchia volpe – lo salutò Elonir, e il Capitano, dopo un'ultima pacca, iniziò a incamminarsi nel buio. Si voltò all'ultimo istante, e fissò il fuoco. Elonir sentì che stava sussurrando qualcosa, ma non riuscì a capire. Poi, prima che il Cercavia potesse chiedergli qualcosa, Anewen sparì del tutto. – Vecchio pazzo – pensò Elonir, e gettò un altro pezzo di legno nel fuoco.

Lentamente, ma in modo inesorabile, Talewin iniziò a pronunciare le parole di potere. L'energia racchiusa nel suo corpo cominciò ad agitarsi e il mago sentì le vene tendersi dolorosamente. S'impose di continuare e di ignorare il dolore, concentrando la propria mente sull' obiettivo. Scacciò i pensieri che gli affollavano la testa, cercando di creare il vuoto.

Solo potere. Voleva solo potere.

Per la forza dell'impatto, lo sciamano si piegò a metà, tenendosi il capo e urlando di dolore. Novgod fu colto di sorpresa e fece per avvicinarsi: l'altro però alzò a fatica una mano e gli fece capire di non avvicinarsi. Era iniziata la sua battaglia, e solo lui poteva vincerla.

Un'altra ondata di dolore lancinante si fece strada nel corpo di Talewin, ma l'elfo riuscì a ignorarla. Solo energia. Ora pronunciava sempre più veloce le parole di potere, e l'Incanto stava per realizzarsi. All'improvviso tutte le ossa del corpo del mago furono percorse da una fitta, e per poco Talewin non perse la concentrazione. Riuscì a superare il dolore, e continuò. Se si fosse distratto anche solo un istante, l'energia che stava incanalando sarebbe esplosa dentro di lui, con risultati catastrofici. Non c'era possibilità di sbaglio. Nemmeno una.

La spada emise un leggero fruscio uscendo dal fodero, e Hnreal sorrise. Accanto a lui, le Guardie Notturne che lo accompagnavano fecero lo stesso.

Talewin ora percepiva il potere che aveva risvegliato muoversi liberamente nel suo corpo, e sapeva che era questione di attimi prima che il suo fisico venisse definitivamente segnato. Non era in grado di contenere tutto quel potere da solo, quindi bisognava scaricarne una parte su qualcosa. O meglio ancora, su qualcuno.

Con la mente devastata dal dolore, lo sciamano cadde carponi nella neve. Dal naso iniziò a colare il sangue, ma ancora una volta non volle aiuti. Cercò di rialzarsi, ma non aveva più il controllo del suo corpo. Dentro di lui, qualcun altro lo stava usando per scaricare pura energia. Poteva solo resistere, ma non vincere. Un altro fiotto di sangue gli uscì dal naso, macchiando la neve candida davanti a lui. – Sto morendo – pensò con rassegnazione – Sto morendo.–

Ancora un ultimo tassello, e il mosaico sarebbe stato completato. Ora che il potere dentro di lui si era leggermente placato, Talewin poté iniziare a concentrarsi sul suo obiettivo. Fondere due Piani Reali.

Frejall cercò di rintracciare la sua tenda tra quelle dei soldati, tutte uguali e disposte in file precise ed ordinate. L'avrebbe sicuramente trovata, perché aveva una buona memoria e la sua tenda era diversa da quelle dei soldati, ma era completamente sbronzo e la testa gli girava paurosamente. In più era notte fonda, e le poche torce accese non riuscivano a illuminare a sufficienza. Si appoggiò a un palo, e cercò di riflettere. Ma il suo cervello non voleva lavorare, e Frejall iniziò a chiedersi se l'avrebbe mai trovata, quella sua maledetta tenda. – Dormirò all'aperto – biascicò – Tanto il sole splende alto e qui c'è un bel calduccio. – Si staccò dal palo e avanzò a tentoni nel buio, sbattendo qua e la contro le tende e imprecando contro chi aveva spento le torce in quel tratto di accampamento. Lontano scorse un luccichio, e immaginando che fosse la luce di un fuoco, gli andò incontro. La neve lì era più compatta e le tende finivano, perciò Frejall riuscì ad affrettare il passo. Proprio quando credette di essere arrivato, però, inciampò, cadendo sul terreno gelato. – Ma porc ... - tuonò il Capitano, alzandosi e togliendosi la neve dal viso. – Che diamine d'accidente di un dannato coso c'è sempre in mezzo alle palle?!? – ringhiò con rabbia. Abbassò lo sguardo verso l'ostacolo che lo aveva fatto cadere, e la valanga d'imprecazioni si fermò all'improvviso. Non era un coso. Era un corpo.

Gli occhi iniziarono a gonfiarsi dolorosamente, e lo sciamano urlò. I predoni che aveva accanto, compreso lo stesso Novgod, fecero qualche passo indietro, colti di sorpresa dall'improvviso urlo. L'uomo inarcò la schiena, mentre l'energia gli scavava le ossa e gli faceva bruciare le vene come piombo fuso. Urlò e urlò, ma il dolore non passava. Dal naso scendeva oramai un copioso fiotto di sangue, che macchiava il petto dello sciamano e la neve tutt'attorno. Il corpo tremava senza controllo, e altro sangue iniziò a sgorgare dalla bocca. Novgod fece un passo in avanti, ma non riuscì ad avanzare oltre. Gli occhi dello sciamano si erano rovesciati e mostravano solo il bianco, mentre la testa scattava violentemente all'indietro. –Che gli dei mi proteggano– pensò con timore il capotribù. Perché sotto i suoi occhi un uomo stava morendo in modo orribile.

Concentrandosi sulla mente devastata dello sciamano, Talewin iniziò l'Incanto più potente e pericoloso che avesse mai intrapreso. La sua mente entrò violentemente in quella dell'uomo, provocandogli un'altra ondata di acuto dolore. L'elfo scoprì che lo sciamano era allo stremo: un ultimo goccio di potere e sarebbe morto nel suo stesso sangue. Bisognava agire, e in fretta. Prendendo il controllo dei sensi dell'uomo, Talewin si trovò a osservare neve macchiata di sangue e in bocca ne senti l'acre sapore. Lo sciamano stava davvero per cedere. Comandò ai muscoli di muoversi e l'uomo si alzò di colpo, con un urlo terrificante. Attraverso i suoi occhi doloranti Talewin vide i predoni ritrarsi ancora una volta, e lesse sui loro volti il panico. Ma non aveva tempo per patetiche emozioni: pronunciando le ultime parole di potere, iniziò a porre l'ultimo tassello del mosaico.

Il corpo non aveva la testa. Di questo ne era sicuro. Almeno di questo. Frejall sentì un'ondata di disgusto salirgli in gola quando con il piede ribaltò il cadavere e scorse le vene e i muscoli del collo tranciati di netto. Il sangue aveva impregnato la neve tutt'attorno, ma per il buio non si scorgeva se non a pochi passi. – Dannazione, sembra che abbiano sgozzato un maiale – si disse. Si guardò attorno, alla ricerca di qualche traccia di combattimento, ma non trovò nulla di strano. – Che accidenti è successo?- Un attacco di predoni? Molto improbabile. Una bestia? Più fattibile, ma perché l'animale non aveva morso anche il resto del corpo? Forse un orso collezionista di teste? Il Capitano ridacchiò, cercando di fare lucidità in testa. Era molto più probabile che un uomo avesse attaccato la sentinella isolata e si fosse portato via la testa come un trofeo da mostrare ai compagni. O forse era entrato nell'accampamento, e adesso stava mozzando teste a destra e a sinistra. Bisognava avvisare qualcuno. Giusto, ma chi? Si guardò attorno ancora una volta. Vedeva solo buio, tende e neve. Poi scorse di nuovo il luccichio che lo aveva attratto e, dopo aver dato un'ultima occhiata al cadavere, si diresse speranzoso verso la luce lontana.

La luna non era ancora riuscita a liberarsi delle pesanti nuvole che la circondavano, così come le stelle che sembravano essere state ingoiate dal cielo nero come la pece. Ogni tanto si scorgeva un bianco bagliore, che schiariva per un istante le nuvole, ma poi tutto tornava nell'oscurità. – Che gli dei non ci abbandonino – sussurrò Anewen, con lo sguardo levato al cielo. La sbronza stava passando, d'altra parte non aveva bevuto poi molto e comunque era abituato a farlo. Altri Capitani invece erano davvero messi male. Frejall e Allerfhel, tanto per dirne un paio. E domani si sarebbero messi in marcia. Il Capitano cercò ancora di scorgere la luna, ma era inutile. Le nuvole erano troppo spesse. – Che gli dei ci assistano – si disse, poi entrò nella propria tenda.

Ci stava riuscendo. I Piani si stavano fondendo.

La terra cominciò a tremare, poi gli uomini iniziarono a sentire una strana sensazione. Novgod non sapeva cosa stava succedendo, ma non gli piaceva. Il suo corpo cominciò a pesargli, e iniziò a respirare con difficoltà, come se stesse compiendo un grande sforzo. La fronte gli s'imperlò di sudore, mentre i polmoni cercavano disperatamente di assorbire aria. Il petto iniziò a fargli male, come se qualcosa picchiasse forte dentro di lui. Poi, con un dolore lancinante, fu come se la carne del suo corpo si aprisse in due. Novgod urlò, così come i predoni, che ora si contorcevano tra spasmi di terribile dolore. Molti si gettarono a terra, rotolandosi nella neve, ma era tutto inutile.

Il freddo della neve e il dolore degli uomini iniziarono a penetrate nella mente di Talewin, ma il mago li ignorò facilmente. Ci stava riuscendo.

Se un soldato si fosse svegliato, nel pieno della notte, e, non riuscendo più a prendere sonno fosse uscito dalla tenda, avrebbe potuto notare che la neve si era fatta più brillante, e che l'aria sembrava ispessirsi, come se, dietro un velo sottile, qualcosa si agitasse.

Dannazione, perché proprio lui? Fra tutti quelli che poteva incontrare perché trovare proprio quel bastardo di un Capitano delle Guardie Notturne? Ma sembrava essere l'unico in giro, perciò avrebbe avvisato lui, poi si sarebbe fatto indicare la posizione della tenda dei Capitani e si sarebbe scolato un altro bel boccale. Non gli interessava nulla di ciò che Hnreal avrebbe potuto dire al Generale sul suo comportamento. Trovare quel cadavere gli aveva fatto passare la voglia di dormire, e in compenso gli aveva messo addosso una grande voglia di bersi un bel po' di buon sidro. Quando si avvicinò alla luce del fuoco, Frejall notò, senza troppo stupore, che Hnreal non era solo, ma almeno una trentina di Guardie Notturne erano con lui e che tutte, compreso il Capitano, avevano sguainato le loro lunghe spade ricurve. Che già sapessero dell'uccisione? Frejall si fermò e tirò un sospiro di sollievo. Allora non c'era più bisogno che li avvisasse, e poteva andarsene. Ma proprio mentre stava per voltarsi e tornare tra le tende Hnreal lo vide. Per un istante Frejall scorse nei suoi occhi un lampo di paura, subito rimpiazzato dal solito freddo sguardo. Hnreal gli si avvicinò, e il Capitano ricambiò lo sguardo ostile. Se credeva di impressionarlo, si sbagliava alla grande. – Ho trovato... - iniziò a dire, ma non finì mai la frase. Perché, senza alcun preavviso, il Capitano delle Guardie Notturne gli affondò la lama nello stomaco. Frejall per un istante non riuscì a capire ciò che era accaduto, ma poi percepì un bruciore acuto, che gli risalì tutto il corpo. Cadde carponi nella neve. Non riuscì a pensare a nulla. Stava morendo. Con uno strappo che gli provocò un'ondata di dolore lancinante, la spada venne estratta violentemente, ma il Capitano ebbe poco tempo per soffrire. Hnreal lo colpì con un largo fendente alla base del collo, e gli staccò di netto il capo. Il corpo ebbe un solo tremito, poi si afflosciò sulla neve, e al chiarore del fuoco il sangue sembrò sfavillare.

Hnreal aspettava.

Quando Re Dahellefeyl, della nobile dinastia del Corvo Rosso, si era trovato a dover sedare una rivolta, si era molto interessato alla Legge dei Piani. Gli serviva infatti un modo per poter penetrare nella grande roccaforte in cui si erano insediati i rivoltosi. La rocca era ben difesa, con una sola via d'accesso, e nemmeno la Cavalleria Volante di grifoni era riuscita a penetrarvi. Il Re stava perdendo tempo e uomini preziosi, e dunque cercava un modo per concludere una volta per tutte quella noiosa e difficile partita. Trovò il modo leggendo le pergamene che il suo mago gli aveva messo a disposizione. Fondere i Piani. Poter evocare i suoi guerrieri direttamente all'interno della fortezza nemica: il sogno di ogni Generale, un sogno che poteva diventare realtà. Il suo mago, Allewejeen, cercò di dissuaderlo, ma senza esito. Il Re aveva deciso. Fu organizzata una squadra d'assalto, formata da volontari armati di tutto punto. Si diede vita all'Incanto: i Piani cominciarono a fondersi. Fu allora che iniziarono i guai. Coloro che stavano assistendo notarono con paura che i soldati venivano presi da un forte dolore, che li faceva urlare e rotolare sul prato come se fossero impazziti. Poi scomparvero in un lampo di luce accecante, e, dove prima c'erano tremila elfi, i maghi trovarono solo erba bruciata. La Rocca cadde dopo solo due ore di combattimento. I difensori erano stati colti di sorpresa, e non c'era stato niente da fare. Quando Re Dahellefeyl entrò nella roccaforte sul suo cavallo, gli si parò davanti uno spettacolo terribile: le strade erano rese scivolose dal sangue, i difensori giacevano smembrati ove erano caduti, e nessun abitante era stato risparmiato. Comprese donne e bambini. E quando ritrovò i soldati che aveva inviato in quel Piano, il Re scoprì di aver commesso un terribile sbaglio. Se prima erano elfi, ora erano solo sbavanti macchine di morte. Non ragionavano più, il loro unico scopo era divenuto uccidere. Uccidere e basta. La loro razionalità era stata completamente devastata. – E' ciò per cui volevo metterti in guardia, mio Re – gli disse poi Allewejeen, in privato. – Nulla si sa riguardo ai Piani. Sfasare di Piano è molto pericoloso, e gli esseri viventi ne possono essere totalmente sopraffatti. Alcuni possono resistere, altri invece perdono completamente la propria razionalità. Durante il passaggio possono accadere le cose più impensabili e le menti dei viaggiatori possono venir assalite dalle visioni più tremende. - E questo era quello che stava per succedendo anche ai predoni.

L'aria attorno a lui iniziò a muoversi, a danzare, a prendere forma. Novgod urlò, e continuò a farlo. Non provava vergogna: c'era solo dolore, un acuto, profondo dolore che lo attraversava senza tregua in tutto il corpo. Davanti al capotribù l'aria iniziò a condensarsi, assumendo la forma di un viso ridente. Il volto aprì la bocca, rivelando una serie di denti acuminati, poi la chiuse di scatto e Novgod percepì chiaramente la morsa nel suo cranio, che per poco non lo fece impazzire sul colpo. Sbavava, cercava di respirare, e la creatura che ora gli era comparsa davanti sembrava godere del dolore che stava provando. La cosa allungò un artiglio, tra i molti che le spuntavano dall'ammasso d'aria sanguigna, e lo puntò verso il viso del capotribù. Accanto all'uomo, la testa di un predone esplose violentemente in un fiore di carne, sangue e materia celebrale, che inondò Novgod. Ma lui non sentì nulla. L'artiglio gli sfiorò l'occhio, poi discese lungo la gola. La cosa continuava sorridere. L'uomo cercò di ritrarsi, ma era come inchiodato, e l'artiglio iniziò a scavargli un solco nella carne. Dolore, dolore, nient'altro che dolore. Ma, un istante prima che la razionalità di Novgod si spezzasse completamente, tutto finì. E i predoni si trovarono nel cuore dell'accampamento degli elfi.

Non appena la sfasatura fu terminata, Talewin venne travolto da un'ondata di energia, che abbattè tutte le difese mentali che aveva eretto. L'elfo venne scaraventato all'indietro per il contraccolpo magico, e tutto il suo corpo venne trafitto da una scarica di dolore. Il mago si trovò steso nella sua tenda, sudato e tremante, e una paurosa debolezza iniziò ad impossessarsi del suo corpo. – Ce l'ho fatta – pensò con meraviglia. Sentiva il suo cuore pulsare a fatica, e scoprì che respirare gli faceva sempre più male. Cercò di alzarsi, ma i muscoli non gli rispondevano. Non doveva finire in quel modo, si disse, ma con orrore scoprì che persino pensare cominciava a diventare difficile. Per lo sforzo, la vista gli si annebbiò, il suo corpo ebbe un ultimo tremito, e tutto precipitò infine nel buio.

Il corpo dello sciamano venne raccolto dalla neve. Nessuno dubitava che fosse morto. Era completamente sporco di sangue, e le ossa delle gambe e delle braccia si erano spezzate. Gli occhi e la bocca sanguinavano, così come il naso. I vecchi e le donne lo deposero su una pietra, in attesa del giudizio del Grande Padre. Nessuno commentò il prodigio cui avevano assistito: i loro guerrieri che urlavano e si contorcevano per il dolore, poi l'accecante lampo bianco. Infine il silenzio, e il vuoto. Gli dei avevano mostrato la loro potenza, e nessuno dei predoni aveva la più pallida intenzione di metterla in discussione.

Morte. Poteva sentirli, gli odiati nemici. Uccidere. Uccidere. Novgod si alzò barcollante dalla neve, sentendo i muscoli gonfiarsi di rabbia e furore. Non vedeva altro che sangue, un'aurea cupa e rossa che avvolgeva tutto. Morte. Uccidere. L'ascia si levò alta nel cielo, mentre la razionalità di Novgod si spezzava del tutto. I predoni accanto a lui iniziarono a ululare la loro sete di sangue, un grido raccapricciante e inumano. Seguirono il loro capotribù, agitando asce e mazze. In un attimo furono tra le tende, e come lupi penetrati nel recinto delle pecore, scatenarono il massacro.

Inutile, non riusciva proprio a dormire. Dannazione, pensò Anewen. Se devo passare la notte in piedi, trascorriamola almeno con un amico e un boccale di sidro. Si rivestì dell'armatura, velocemente, e prese anche la spada. Sentire il peso della Predatrice al suo fianco lo rassicurava, e muoversi in piena notte disarmato gli pareva una follia bella e buona. Uscì dalla tenda e venne accolto da una folata di vento gelido, che per un attimo gli tolse il respiro. Non aveva nevicato, e Anewen notò con una certa delusione che la luna non era ancora riuscita a stracciar la coltre di nere nuvole che la circondavano. – A Dherr – mormorò Anewen, e poi lo udì. Un grido, un ululato. Nel suo inconscio, qualcosa che, grazie a decine di battaglie sanguinose, era riuscito a sedare, si risvegliò di colpo. Sentì la folle paura prendere il sopravvento, e per qualche terribile istante rimase inchiodato. Poi, però, gli anni di addestramento si fecero sentire, e la sua mente tornò a ragionare. Scacciò la paura, e la sentì scivolare via al suo corpo, nel suo più profondo, e seppe che da quel momento sarebbe per sempre rimasta li. Perché i predoni erano entrati chissà come nell'accampamento, e bisognava combattere.

L'urlo che si levò fuori dalla tenda fece svegliare di soprassalto i soldati, ma non servì comunque a nulla. I primi a farne le spese furono i picchieri del Leone Nero. Vennero sbudellati, squartati, sventrati nei peggior modi possibili. I predoni erano completamente insensibili alle urla, al sangue, alle viscere che si spandevano sulla neve. Non lasciarono agonizzare nessuno.

Con gli occhi sgranati per la sorpresa e per la paura, il Generale aprì con mano tremante i lembi della tenda, e vide Hnreal arrivare con un gruppo di Guardie Notturne. L'urlo che lo aveva svegliato gli risuonava ancora in testa, e ora udiva chiaramente il cozzare delle armi e le grida dei morenti. Dentro di sé, Lyondirr sentì un'ondata di paura invaderlo, mentre la realtà si faceva prepotentemente largo dentro di lui. – Capitano? – chiese con voce spezzata. – Cosa sta succedendo? – Hnreal si fermò di fronte a lui, e sorrise.

Il braccio venne mozzato in un uno spruzzo di sangue e l'ascia si conficcò con un tonfo nel collo scoperto dell'elfo. La testa si staccò con uno schiocco, e Novgod si precipitò sull'ultimo picchiere. Calò la sua arma direttamente sul capo del soldato, spaccandogliela come un frutto troppo maturo. Non si curò delle armi che giacevano a terra, sporche di sangue. Non voleva bottino. Voleva solo uccidere. Uscì dalla tenda, lacerandone un lato, e si lanciò di corsa contro un'altra.

La neve era macchiata di rosso, e l'aria era scossa dalle urla degli elfi sorpresi. Qualche soldato, più veloce degli altri, era riuscito a mettere mano alla sua arma e davanti ad alcune tende giacevano i corpi sventrati dei predoni, ma era tutto inutile. L'elfo in questione veniva circondato e, se anche abbatteva con rapidi affondi alcuni dei suoi aggressori, altri erano pronti a colpirlo e a massacrarlo. Sangue cadeva su sangue, e la neve iniziò a trasformarsi in fango mentre i predoni calavano come sciacalli tra le tende dei Cacciatori. Questi si erano oramai tutti svegliati, e molti di loro avevano già preso le loro armi, ma il numero dei predoni era tale che nemmeno essere pronti significava qualcosa. Novgod caricò una decina di Cacciatori, imitato da una cinquantina dei suoi guerrieri, e non appena giunse in collisione l'aria si riempì di urla. Il Cacciatore davanti a lui tranciò di netto la testa al predone più vicino, e si voltò per affrontare il capotribù. Una delle due asce scavò un solco nel braccio di Novgod, e l'altra scattò verso la sua gola. Ma l'uomo si era aspettato proprio una mossa del genere, e la sua ascia intercettò quella dell'avversario. Con un ruggito, si scaraventò addosso al Cacciatore, e questo, colto di sorpresa per l'inaspettata carica, non riuscì a sfuggire all'uomo. Il predone lesse nei suoi occhi un lampo di puro terrore mentre con le sue grosse braccia gli circondava l'esile collo. Bastò uno strattone, e l'osso si spezzò con un sonoro scricchiolio. Il corpo si afflosciò nella neve, e le mani priva di vita lasciarono cadere nella neve le due asce bipenni. Accanto a Novgod i predoni stavano ancora lottando contro gli ultimi Cacciatori che, sebbene fossero indiscutibilmente più abili e veloci dei loro avversari, erano troppo pochi. Furono massacrati uno a uno e non importava nulla se ogni elfo si portava nell'altro mondo un buon numero di uomini. I predoni sembravano non avere numero, e pareva che la stessa aria li vomitasse per portare avanti quel bagno di sangue.

- FALCO ROSSO UNITO! VELOCI, PER SEYREHEN, VELOCI! – il caos regnava ovunque, e Anewen dovette urlare come un dannato per riuscire a dare ordini ai suoi soldati terrorizzati. Sapeva che sarebbe stata questione di attimi prima che i predoni invadessero anche la sua zona. – UNITI, UNITI! - tuonò levando alta la Predatrice. Non aveva tempo per salvare il cavallo. Un centinaio di soldati si stava frettolosamente riunendo, e per un istante Anewen sentì un pizzico di speranza. Ma poi li vide arrivare. I predoni correvano tra le tende, sporchi di sangue e ululanti. – Arcieri! – urlò il Capitano, e al suo ordine le frecce iniziarono a frusciare nell'aria, piantandosi nella carne scoperta e nelle pellicce sudicie. Ma erano troppo poche, e gli arcieri erano meno della metà di quelli che avrebbero dovuto essere. Elonir puntò la cuspide seghettata tra gli occhi di un uomo armato con una pesante mazza, e quando scoccò la freccia il predone venne sbalzato all'indietro per la forza del colpo. I Cercavia miravano e colpivano con terribile precisione, ma i predoni che uccidevano venivano subito rimpiazzati. Qualche centinaio di metri più in là, Anewen sentì alzarsi l'urlo dei predoni e capì che anche la zona del Segugio Argentato doveva essere stata assaltata. Udì Helyoriff lanciare gli ordini, e poi il cozzare delle armi. Ma non poteva fare nulla per l'amico. – Picchieri! Avanti, avanti! – Anewen alzò ancora la spada, e notò con orgoglio che il reggimento si era quasi completato, e che lo stendardo era stato sciolto. – Avanti! – i picchieri si disposero su una fila abbastanza irregolare, e Anewen sapeva che non così non avrebbero inflitto il massimo dei danni, ma erano tutti spaventati e il Capitano pregò che non cedessero alla paura. O sarebbe stato un massacro totale. Gli arcieri continuavano a lanciare le loro frecce, aiutati anche dal chiarore del fuoco che si levava alto dalle tende, ma era inutile. I predoni erano ormai a pochi metri.– POSIZIONE! – tuonò Anewen, e i picchieri piegarono leggermente un ginocchio. Sui loro volti c'erano paura, sorpresa, terrore. – ORA!- e i picchieri scattarono in avanti, tenendo orizzontali le loro lunghe armi, proprio quando i primi predoni si gettavano su di loro.

I cavalli nitrirono terrorizzati quando il fuoco iniziò a lambire il loro recinto, e cominciarono a tirare con forza le redini che li legavano alla staccionata. – Lascia stare, Erhan, andiamo! - - No! Senza cavallo non me ne vado! – le fiamme rischiaravano la neve, mentre le urla dei predoni e il rumore dei combattimenti laceravano l'aria e tutto sembrava precipitare nel caos più totale. – Vieni via! – urlò di nuovo Lhiref, ma l'altro lo ignorò. Erhan corse verso il recinto e vi entrò scavalcandolo con un unico salto, dirigendosi verso i cavalli imbizzarriti. – Merda! – sbottò Lhiref, e seguì il compagno. Nel frattempo un grosso lembo di tenda avvolto dalle fiamme, spinto dal vento, si staccò e cadde contro contro la palizzata di legno: rapidamente, il recinto iniziò a prendere fuoco. – Erhan! Guarda! - - Prendi il tuo! – rispose l'altro senza voltarsi. Stava cercando il suo cavallo: pareva un'impresa impossibile, perché nel recinto ce n'erano almeno quattrocento, ma l'elfo conosceva bene la sua bestia e, trovatola, la prese saldamente per le briglie. Anche Lhiref non ebbe difficoltà a trovare la sua cavalcatura, una grossa giumenta con una striscia bianca in mezzo agli occhi, e la spinse verso l'uscita. Il legno era ora in fiamme, e gli altri cavalli nitrirono terrorizzati mentre le fiamme lambivano loro il muso. – Via di qui! – Erhan non se lo fece ripetere due volte, e a strattoni portò il cavallo fuori dal recinto. – Dov'è Lenaird? – chiese Lhiref, e per tutta risposta l'altro scosse il capo. – Dannazione! Se torniamo indietro a cercarlo non ne usciamo vivi! – Erhan non disse nulla, ma Lhiref lesse nel suo sguardo qualcosa che lo fece vergognare. Devo essere impazzito, si disse mentre montava a cavallo. – Andiamo? – chiese Erhan, con uno strano sorriso sulle labbra. Salì a cavallo anche lui, ed estrasse la sua pesante spada ricurva. – Ovviamente- replicò Lhiref. Tirò un profondo respiro, mentre dietro di lui i cavalli nitrivano impazziti. - Andiamo a cercare quel maledetto disperso. -

Li poteva sentire. Il Grande Padre chiuse gli occhi estasiato. Poteva sentire il peso delle loro armi, il calore del sangue, le urla dei morenti. Era la sua battaglia.

Le lunghe picche morsero feroci la carne, e decine di predoni furono trapassati da parte a parte. La massa di uomini lanciata all'attacco fece arretrare di parecchi passi la linea di picchieri, ma per qualche istante sembrò che gli elfi riuscissero a reggere. Poi, però, i predoni iniziarono a mulinare le asce e, poiché molte picche erano conficcate profondamente nei corpi dei primi caduti e lo schieramento si era infranto in più punti, parecchi elfi non riuscirono a proteggersi dai colpi: vennero uccisi senza pietà, asce, mazze e martelli calavano su di loro inesorabilmente. Il primo a scappare fu un picchiere ferito alla testa, e in pochi istanti la linea si sfaldò completamente. – NO! Restate uniti! – urlò Anewen con rabbia, sapendo che quei soldati erano condannati a morte, ma il suo ordine non ebbe alcun effetto. – Arcieri! Copertura! – le frecce diedero un respiro di vantaggio ai picchieri, ma non servì molto. I predoni, non più trattenuti dalle picche e incuranti delle frecce che piovevano su di loro, corsero come lupi affamati dietro agli elfi e scatenarono il massacro tra i picchieri in fuga. Le asce brillavano al chiarore del fuoco, mentre affondavano nelle schiene dei fuggitivi. – Maledetti bastardi! - imprecò il Capitano. - Fanteria! Prepararsi a combattere! - alzò la Predatrice, e giurò di morire con onore. Non gli importava più nulla e, se la sua ora era davvero giunta, per Seyrehen, che quei bastardi sapessero con chi avrebbero avuto a che fare. - Carica! – urlò scattando in avanti. E i suoi soldati, superati i pochi picchieri superstiti, si lanciarono urlando con lui contro gli uomini in arrivo.

- Dal lato! – urlò Laraif come avviso, ed Anewen ebbe la veloce visione di un'altra massa di predoni che si lanciava contro la sua fanteria. Ma era troppo tardi. Perché, dopo qualche metro, i due gruppi entrarono violentemente in collisione, e non ci fu più tempo per pensare, ma solo per combattere.

Ululando la propria rabbia, Laraif si mise a correre per intercettare i predoni appena arrivati, seguito dai suoi Cacciatori. Avevano tutti espressioni felici mentre correvano in faccia alla morte: avrebbero dimostrato la forza del Lupo, e una volta nell'aldilà avrebbero bevuto e riso come non mai. Ma per arrivarci, bisognava prima portarsi dietro una buona quantità di nemici, e i Cacciatori erano più che pronti. Seguendo il loro Capocaccia, e urlando la loro ira, si gettarono nella mischia.

La mazza ferrata calò verso il suo volto ma Anewen deviò con un rapido movimento di polso il colpo potenzialmente fatale e rispose mandando la spada a piantarsi nel collo scoperto del predone. Strappò violentemente la Predatrice dalle carni dell'uomo, che cadde a terra nel suo stesso sangue. La lama tranciò un braccio alzato per proteggersi, e poi la punta arrossata s'infilò nell'occhio dell'attonito nemico. Anewen affondava e parava, e ogni suo colpo era un predone morto che cadeva a terra. Un uomo lo assalì con una coppia di asce, e cercò di colpirlo al basso ventre. Il Capitano si scostò all'ultimo, schivando i due colpi in arrivo e facendogli perdere l'equilibrio. Poi gli affondò la spada nel ventre, e le pallide viscere dell'uomo si sparsero sulla neve. Un elfo urlò quando un'ascia affondò nel suo braccio, tranciandoglielo di netto. Un altro fante fu colpito in pieno petto, e crollò sputando sangue. La carica degli elfi si era arenata nella massa dei predoni, molto più numerosi, e Anewen sapeva che in ogni istante che passava il loro numero cresceva, perché nella mischia si aggiungevano altri uomini richiamati dallo scontro. Parò con una mossa svelta un'ascia diretta al suo petto, poi usando la Predatrice con due mani colpì lo sventurato predone nello stomaco, tagliandolo letteralmente a metà. Il sangue sembrava impregnare l' aria, e le urla dei vincitori e dei vinti si mescolavano assieme. Anewen si salvò e uccise ancora, ma nulla aveva ormai più importanza. Il loro destino era già scritto, e gli elfi lo sapevano.

Il cavallo s'impennò nitrendo, e colpì con i grossi zoccoli il predone che gli era apparso davanti. L'uomo cercò di schivarlo, ma fu troppo lento e cadde nella neve con la testa fracassata. – Vai, vai! – urlò Erhan, e il cavallo riprese la corsa attraverso le tende. Lhiref, qualche metro più avanti, abbatté un altro predone con un veloce colpo di sciabola. Gli uomini in quella parte di accampamento erano ancora pochi, ma sapevano entrambi che era questione di qualche attimo prima che arrivassero in numero anche lì. – Lenaird! – urlò Lhiref, ma sembrava che il loro compagno fosse scomparso. Iniziò a temere il peggio. Sebbene le tende delle Guardie Notturne non fossero ancora state assalite da un alto numero di predoni, molti elfi in armatura nera e uomini rivestiti da pellicce giacevano sulla neve insanguinata, chiaro segno che vi era stato un combattimento. Lontano, il fuoco e le urla indicavano che altri reggimenti erano stati assaliti. – Non può essere morto! – disse con voce roca Erhan, spingendo il cavallo vicino a quello del compagno. Lhiref non rispose. Per quanto lo riguardava, Lenaird poteva benissimo essere già nell'altro mondo, e loro stavano rischiando di andare ad incontrarlo se non fossero andati via da lì, e in fretta. – Dietro di te! – l'avvertimento di Erhan distolse Lhiref dai suoi pensieri, e l'elfo ebbe appena il tempo di girare la cavalcatura prima che due predoni lo assalissero con un urlo. Parò un colpo diretto alla gamba, e cercò di sferrare un calcio in bocca al secondo predone, centrandolo invece nell'occhio. Quando questi scattò all'indietro per il dolore, gli tranciò rapido il collo. L'altro predone cercò di ferire il cavallo, ma la bestia scartò, urtandolo con la massiccia spalla e buttandolo nella neve. L'uomo cercò di alzarsi, ma fu calpestato dalla cavalla di Erhan e, dopo essere stato colpito alla testa, non si mosse più, mentre una pozza di sangue si allargava sotto il suo corpo senza vita. Altri predoni stavano infine arrivando, e tra le tende si sentivano sempre più alte le loro urla. – Lenaird non c'è, Erhan. Dobbiamo solo sperare che sia scappato prima di noi. Tornare alla nostra tenda, sempre che non sia bruciata, significa morte certa, ed è inutile sacrificare due vite per una sola. – Gli occhi di Erhan tradirono per un attimo la sua rabbia, ma dopo un istante anche lui capì. Lenaird poteva già essere scappato nel buio, e se fossero rimasti ancora un po' si sarebbero inutilmente sacrificati: il numero di predoni aumentava attimo dopo attimo. – Va bene, Lhiref. Andiamo via di qua. - spronarono i cavalli verso il buio, inseguiti da lontano dalle urla dei predoni. Superarono un tratto di neve cosparso di sangue e di corpi, ma non potevano più fare nulla. Qualche predone si fece avanti per assalirli, ma la stazza dei cavalli e le lame dei cavalieri sgombrarono velocemente il campo. Il fuoco, sebbene non ci fosse vento, si stava diffondendo velocemente tra le tende, e l'accampamento ora sembrava un enorme falò. I cavalli percorsero al galoppo l'ultimo tratto verso la salvezza e, all'improvviso, Erhan e Lhiref si trovarono fuori da quell'incubo. Il buio si fece pian piano più fitto, e le cavalcature iniziarono ad arrancare nella neve sempre più alta. Le urla e i clangori dello scontro si affievolirono poco a poco, finché un inquietante silenzio non cadde su di loro. Non sapevano dove andare, ma d'altra parte, che meta avevano? Di colpo, Erhan sentì tutta la paura, la rabbia, il dolore esplodergli dentro, e percepì le lacrime scorrere sul volto. Non se ne curò. Tutto era caduto, tutto era perso, tutto era morto.

Anche Lhiref era sconvolto. La sua mente era ancora impregnata dalle fiamme, dal sangue, dai volti urlanti dei predoni. Era troppo stanco e stravolto per pensare. Ma se lo avesse fatto si sarebbe ricordato che Lenaird non c'era nella tenda quando lui ed Erhan si erano svegliati, così come non c'erano più le sue armi.

Il ferro penetrò nella gamba dell'uomo, tranciandogliela di netto. Il predone cadde a terra, dove fu rapidamente finito. Un martello gli passò a un soffio dal braccio, e Laraif scattò in avanti, conficcando entrambe le asce nel collo dell'avversario. Non si curò di controllare se il predone fosse morto, perché un altro uomo gli si era già avventato addosso. Riuscì a schivare l'affondo e, veloce come la morte, prese il predone nell'ampio petto, sentendo le costole spezzarsi sotto la forza del colpo. L'uomo boccheggiò, sputando sangue, e cercò di alzare ancora la sua arma. Ma il Cacciatore accanto a Laraif lo prese in pieno volto, uccidendolo sul colpo. Non c'era tregua, non c'era pace, non c'era via di fuga. I Cacciatori stavano tenendo a freno una massa di predoni almeno tre volte superiore a loro di numero, ma non sarebbero durati a lungo. I loro avversari fiutavano l'odore della vittoria e del massacro, e non si sarebbero tirati indietro. Non questa volta. Avevano sopportato un dolore atroce mentre erano sfasati, alcuni di loro erano completamente impazziti e altri morti. Ora erano nel cuore del nemico, e sapevano che lo stavano facendo a pezzi e che era nelle loro mani. Il sangue scorreva, e loro non volevano che smettesse di farlo. Tre uomini lo attaccarono simultaneamente, urlando nella loro lingua che lo avrebbero fatto a pezzi. Laraif accettò la sfida con un ringhio, e scattò in avanti. Gli uomini si aspettavano che si mettesse in guardia, e furono colti impreparati. Le due asce sembrarono dotate di vita propria mentre affondavano nello stomaco dei primi due predoni. Fu allora che Laraif si rese conto del suo sbaglio, ma era troppo tardi. Le sue due asce erano ancora conficcate nei due uomini quando il terzo predone mulinò la sua rozza mazza verso la sua testa. Il Capocaccia non poteva rispondere né difendersi, ma si spinse con tutte le forze che aveva all'indietro. La mazza lo prese sul petto anziché sul capo, e l'elfo sentì il dolore del colpo diffondersi in tutto il suo corpo. Ma l'armatura resistette, e l'arma del predone scivolò via dopo averla intaccata. L'uomo, sicuro della vittoria, balzò in avanti, alzando la mazza sopra di sé per assestare il colpo di grazia. Ma Laraif era riuscito con uno strattone a liberare una delle due armi, e colpì il predone con tutta la forza del suo braccio. L'ascia si conficcò nel petto del predone, sprofondandovi fin quasi all'elsa. Con un ululato di rabbia, Laraif liberò l'ascia, mentre strappava via anche la sua seconda arma dal ventre dell'altro nemico abbattuto. Un grosso fiotto di sangue gli inondò il volto, ma l'elfo non se ne curò. – Fatevi avanti! – tuonò mulinando le due asce. Era furibondo per il colpo che quel predone era riuscito ad assestargli, e così com'era stata intaccata la sua armatura anche il suo onore di Capocaccia era stato ferito. – Avanti, bastardi! Vediamo chi ha più sangue in corpo! – i predoni sembrarono capire le sue parole, perché alcuni di loro si lanciarono contro l'elfo. Laraif ghignò, e partì alla carica.

Il corpo non si muoveva più, ma Novgod continuò a colpirlo ripetutamente, fino a ridurlo ad un ammasso indistinto di sangue e ossa. I predoni che lo avevano seguito nell'assalto iniziale si stavano calmando, e iniziavano ad essere attratti dal luccichio delle armi o dalle tende non ancora incendiate. Ma Novgod non poteva fermarsi. Sentiva l'odore del sangue nell'aria, e ad un tratto un lontano suono di combattimento gli giunse all'orecchio. Sangue. Smise di colpire il corpo, e cercò di ascoltare ancora più attentamente. Non si sbagliava. Da qualche parte, qualcuno stava combattendo. E lui non era lì. Avanzò tra i corpi massacrati e dilaniati degli elfi, dando secchi ordini ai predoni che stavano iniziando il saccheggio. – Con me- ringhiò Novgod – Seguitemi.-

La mazza che lo colpì non riuscì a spezzare la solida difesa data dall'armatura, ma gli provocò comunque un dolore lancinante nel braccio. Per un istante Anewen vide il mondo vacillare, e la spada gli cadde dalla mano intorpidita. Sebbene il colpo del predone non fosse penetrato nella carne, il ferro dell'armatura ammaccata aveva lacerato la pelle, scavandogli un solco bruciante, e il sangue iniziò a colare dalla ferita. Disperatamente Anewen cercò di recuperare la sua arma, gettandosi a terra appena in tempo, mentre il secondo colpo dell'uomo gli passava ad un soffio dalla testa. Afferrò l'elsa della Predatrice e sentì il braccio bruciare e una nuova ondata di dolore lo assalì, offuscandogli la vista. Vide il predone calare ancora una volta la sua mazza, e cercò di schivarla, ma sapeva di essere troppo lento e gli sembrava che tutto vorticasse attorno a lui. All'improvviso sentì un urlo di dolore, poi del sangue caldo gli bagnò il volto. Due mani robuste lo alzarono dalla neve, e Anewen riuscì finalmente a scacciare il dolore dalla propria mente. – Tutto a posto, Capitano? – chiese il suo salvatore. – Sì sold...ATTENTO!- la Predatrice scattò veloce, conficcandosi in un occhio del predone che stava per assalire il soldato alle spalle, uccidendolo all'istante. – Una vita per un'altra. I conti sono pareggiati – disse Anewen, mentre estraeva la lama e l'uomo crollava al suolo. – Grazie, Capitano – rispose il fante, parando con lo scudo un colpo d'ascia e rispondendo con un affondo che sventrò l'uomo. Anewen ebbe una veloce visione del predone che lo aveva assalito, a terra con il collo squarciato da un rapido colpo di spada. C'era andato vicino, molto vicino. Ma ora il dolore stava passando, e al suo posto stava crescendo una grande sete di vendetta. E l'avrebbe saziata, per gli dei. – Se proprio è la mia ora – si disse, mentre parava un colpo d'ascia – Farò in modo che si ricordino di me. – e urlando la sua sfida, uccise l'uomo che lo aveva assalito, solo per essere subito attaccato da un altro predone.

Non poteva essere. I suoi erano ancora impegnati a combattere! L'accampamento non era ancora espugnato del tutto! C'era ancora da uccidere! Novgod sentì i muscoli gonfiarsi, mentre correva urlando verso le linee dei Cacciatori. Gli elfi sembrarono essere colti alla sprovvista, vedendo un'altra ondata di predoni caricare le loro file, ma la paura durò solo un istante. Il capotribù sentì uno di loro lanciare un ululato, poi un gruppetto di Cacciatori scavò un solco di sangue tra le file dei predoni e riuscì a disimpegnarsi quel tanto che bastava per poter caricare la nuova ondata di nemici in arrivo. Davanti a tutti stava un guerriero che a Novgod parve essere il loro campione. La sua armatura era ammaccata in vari punti, e sulla fronte aveva un lungo taglio, ma il sangue di cui era completamente sporco non era il suo. Le due asce che stringeva in mano erano cosparse di rosso cupo fino al manico. Ululava la sua sfida, e il capotribù non poté fare altro che accettarla. – State indietro! È mio! – tuonò, e i predoni si fermarono dopo un istante, lasciando che Novgod avanzasse da solo verso l'elfo. Anche i Cacciatori sembravano aver capito le intenzioni del Capocaccia, perché frenarono la loro corsa. Laraif avanzò correndo e urlando, e Novgod fece lo stesso. I pochi metri innevati che li separavano furono solcati in un battito d'ali, poi il lupo e l'orso si scontrarono come il tuono contro la montagna.

L'ultimo palo del recinto cedette spezzandosi di netto sotto le forti spinte dei cavalli terrorizzati dal fuoco. Un grosso stallone baio fu il primo a fuggire. Poi, come un unico branco, tutte le altre quattrocento bestie lo seguirono.

Qualcosa stava succedendo. Anewen lo poteva sentire. Da qualche parte si levavano delle urla, e il Capitano riconobbe il classico ululato dei suoi Cacciatori. Laraif stava per uccidere, o per essere ucciso. Ma non c'era tempo per pensare, perché i predoni sembravano essere impazziti di colpo, e l'unica cosa che l'elfo poteva fare era cercare di schivare le loro asce. E di non farsi ammazzare.

In confronto al capotribù, Laraif appariva gracile e debole. Novgod lo sovrastava di un bel pezzo ed era due volte più grosso dell'elfo. Ma il Capocaccia era terribilmente più veloce dell'uomo e il primo sangue toccò a lui. Una delle sue due asce scavò un solco sanguinante nella gamba scoperta del predone, ma la ferita era leggera e Laraif non poté dare al colpo più forza, perché fu costretto subito a parare un fendente dell'uomo. Novgod ruggì la sua rabbia e il suo disprezzo per quell'essere che aveva osato ferirlo e, tenendo l'ascia con due mani, la calò con furia cieca sul capo dello sfidante. Un colpo del genere avrebbe potuto tranciare a metà il Capocaccia, ma l'elfo si limitò a schivarlo. Novgod ci ritentò, questa volta con un ampio cerchio, ma ancora una volta Laraif sgusciò via dalla sua ascia. Poi, veloce come il fulmine, scattò in avanti e costrinse il predone a parare un colpo diretto verso il proprio ventre e, mentre Novgod respingeva con la sua arma un'ascia di Laraif, l'altra volò verso il suo viso. Ma all'ultimo istante il predone si accorse della trappola, e girò la testa, cosicché il ferro non gli spaccò la testa, ma gli strappò via l'orecchio in uno spruzzo di sangue e cartilagine. Ruggendo la propria rabbia, il Capotribù calò l'arma in un arco devastante, costringendo Laraif a saltare via appena in tempo. Il predone sembrava ignorare il dolore, così come il sangue che gli colava sul viso. Mulinò un altro colpo, e ancora il Capocaccia dovette arretrare per sfuggire all'ascia. Cercò di affondare le sue due armi nella gamba già ferita dell'avversario, ma l'altro lo costrinse ancora a cedere terreno, mentre ruggiva la sua sfida. I predoni alle sue spalle unirono le loro urla a quelle del capotribù, e alzarono le armi con rabbia. Avevano visto Novgod perdere sangue, ma ora il loro campione avrebbe massacrato quel dannato orecchie a punta che lo aveva sfidato. Volevano sangue.

L'armatura si spezzò con un sinistro rumore metallico, e la mazza chiodata frantumò le ossa del braccio. L'elfo lasciò cadere la spada con un urlo di dolore, e l'uomo gli assestò un secondo colpo dritto sul capo. La testa si spaccò come un frutto troppo maturo, ma mentre il fante crollava a terra in un lago di sangue, Anewen incrociò la Predatrice con l'arma dell'uomo. La lama affilata fece scintille quando colpì violentemente la mazza ferrata, e il Capitano aumentò la pressione sull'elsa, costringendo il predone a piegare il gomito. Poi si disimpegnò rapido come la morte, e l'uomo ebbe appena il tempo per capire di essere spacciato prima che la Predatrice gli trafiggesse il petto. Cercò di respirare, ma dalla bocca gli uscì solo una bolla di sangue rossastra. Anewen torse la lama e la estrasse con rabbia, lasciando cadere l'uomo senza curarsi di finirlo. Ci avrebbe pensato qualcun altro.

Laraif scivolò rapido sotto l'ennesimo colpo del predone e rispose provocandogli un taglio sul braccio, ma la ferita era leggera e Novgod sembrava ignorare il dolore. L'uomo incassava i colpi senza mostrare nessuna emozione, e continuava imperterrito la sua valanga di attacchi. Il Capocaccia era agile e li schivava, ma non poteva avvicinarsi troppo e, quando colpiva l'avversario, non riusciva a imprimere al colpo la forza necessaria per rendere più profonda, e più letale, la ferita. Stava arretrando sempre di più e i predoni iniziarono a gridare ancora più forte, sentendo nell'aria odore di massacro. Il Capocaccia appariva stanco, e tutta la sua attenzione era diretta verso lo schivare i colpi d'ascia e il cercare di affondare le sue armi nel corpo dell'avversario. Se si fosse distratto, anche solo per un veloce istante, sarebbe morto.

Non potevano reggere ancora a lungo. Le file di fanti si accorciavano sempre di più, e soldati che prima erano a qualche metro di distanza l'uno dall'altro si trovavano ora a combattere spalla contro spalla. I predoni arrivavano, morivano o uccidevano, ma non permettevano mai agli odiati nemici di ritirarsi. Il loro numero era nettamente superiore a quello degli elfi, e solo la disperata resistenza della fanteria aveva loro impedito di circondarli. Ma ormai era quasi finita. I continui e ripetuti assalti degli uomini stavano per avere la meglio anche sull'efficiente fanteria elfica, e le asce calavano sempre più affamate di sangue. Ancora poco. Poi gli elfi sarebbero stati presi dal panico, e avrebbero rotto le file. Allora i predoni sarebbero scattati in avanti, e per loro sarebbe iniziata la caccia.

L'ascia morse finalmente in profondità la carne, e per la prima volta Novgod arrestò la sua valanga di attacchi. Fissò per un istante il ferro che gli si era impiantato nel braccio, poi calò con tutta la propria forza la sua arma dall'alto verso il basso. Laraif, per la prima volta, venne colto di sorpresa. Era riuscito a entrare nella guardia di Novgod e, con tutta la rabbia che gli ribolliva dentro, gli aveva piantato una delle due asce nel muscoloso braccio. Ma per riuscirci si era avvicinato troppo, e ora non poteva più schivare il colpo che gli calava sul capo. Vide l'ascia arrivare, sentì i muscoli tendersi e il braccio scattare verso l'alto instintivamente, strappando via la sua arma dal braccio del predone. E fece l'unica cosa che poteva fare. Parò il colpo.

Come una marea vivente di creature terrorizzate, i cavalli galopparono in un unico enorme branco tra le tende in fiamme e i corpi massacrati degli elfi. I predoni, colti di sorpresa, furono travolti, calpestati da centinaia di pesanti zoccoli. Le bestie continuarono incuranti la loro folle corsa: cercavano una via che li liberasse da quell'inferno di fiamme, urla e sangue.

I muscoli assorbirono il tremendo impatto, e le armi sprizzarono scintille mentre si scontravano fragorosamente. Laraif sentì un'ondata di dolore partirgli dal braccio, ma lo ignorò. Cercò di aumentare la pressione sulle sue armi e di far indietreggiare il predone, ma era in pesante svantaggio. Novgod era molto più grosso di lui, e la forza che dava alla sua arma era nettamente più forte della resistenza di Laraif. In più lui spingeva dall'alto verso il basso, mentre l'elfo doveva frenare l'ascia che calava dall'alto diretta verso la propria testa. Piano, ma inesorabilmente, le braccia del Capocaccia iniziarono a cedere. Il predone sentì la debolezza dell'avversario, e con un urlo aumentò la pressione. Laraif dovette arretrare di un passo per non perdere la presa sulle armi.

Il terreno cominciò a tremare. Gli elfi e gli uomini erano inizialmente troppo impegnati a massacrarsi gli uni con gli altri per prestarci attenzione, ma poi il rombo si fece largo nelle loro menti. Anewen tranciò la gamba di un predone che stava infierendo contro un fante sanguinante, e fu quando percepì il sordo tremolio che si sprigionava dal terreno innevato che capì. La salvezza stava arrivando.

Cavalli. A centinaia. Irruppero come un unico enorme branco tra le tende del Falco Rosso, creature uscite dagli incubi e con le criniere in fiamme. Gli occhi delle bestie mostravano il bianco, e i loro nitriti superarono le urla dei predoni. Correvano senza curarsi di ciò che si parava loro davanti, e puntarono dritti sul campo di battaglia. Travolsero decine e decine di predoni impreparati, schiacciandoli in un lago di sangue. Alcune bestie caddero a terra rovinosamente, colpite dalle asce degli uomini, nitrendo e spezzandosi con sonori schiocchi le zampe, ma le altre continuarono ad andare avanti. Erano una valanga di carne e muscoli, zoccoli e morsi. Erano la salvezza.

Non appena il primo cavallo entrò in collisione con le file dei predoni, Anewen sapeva già che ordine dare. Era l'ordine più sbagliato, più pericoloso, l'unico che nella sua carriera militare avrebbe giurato di non dare mai. Ma ora era lì, sulle sue labbra, e il Capitano sapeva che era l'unica cosa da fare.

Fu un attimo. Il primo predone si stava voltando per fuggire quando un grosso stallone nero lo travolse, calpestandolo sotto i suoi pesanti zoccoli. Il cavallo gettò a terra un altro uomo, poi un altro ancora. E dietro di lui una valanga di bestie s'infranse tra i predoni terrorizzati, calpestando a morte i più lenti e travolgendo quelli tanto stupidi da rimanere sul posto.

Laraif agì senza pensare. Districò le due asce da quella di Novgod e scattò all'indietro. Novgod ebbe appena il tempo per rendersi conto che l'avversario era sfuggito alla sua trappola, poi un cavallo gli piombò addosso. Con un ruggito di rabbia il capotribù piantò l'ascia nel collo della bestia, ma l'ampio petto del cavallo lo colpì comunque, scaraventandolo a terra e strappandogli l'arma dalle mani. Laraif non si curò di vedere se il predone fosse morto o ferito. Un cavallo lo sfiorò, e l'elfo poté sentire lo spostamento d'aria. Si mise a correre verso i suoi Cacciatori, che sembravano non saper cosa fare mentre i cavalli puntavano verso di loro. – Via! Andate via! – urlò Laraif. Sentiva il pesante respiro dei cavalli dietro di lui, e il rombo che si levava dal terreno colpito da decine e decine di zoccoli. Le urla dei predoni investiti dalle bestie si confondevano con i nitriti dei cavalli abbattuti. Gli uomini si erano sparpagliati sotto la carica delle bestie imbizzarrite, ma ora il branco cambiava direzione. Puntava sugli elfi.

-ROMPETE LE RIGHE! SCAPPATE! –Gli elfi erano terrorizzati. Stavano per essere massacrati tutti, stavano lottando per la propria vita e ora un enorme branco di cavalli imbizzarriti stava per piombargli addosso. Molti di loro erano sul punto di cedere, di gettare le armi e di voltare la schiena alla ricerca di uno straccio di salvezza. Ma mai si sarebbero aspettati che il loro Capitano desse l'ordine della fuga. Non di ritirarsi in buon ordine, ma di scappare a rotta di collo. – SCAPPATE! –urlò di nuovo Anewen, e questa volta gli elfi capirono. L'improvvisa carica dei cavalli aveva creato una barriera di carne tra loro e i predoni, dando agli elfi oramai condannati qualche prezioso attimo per correre verso la salvezza.

I fanti iniziarono a correre nella neve impregnata di sangue, inseguiti dalle urla dei predoni e dai nitriti dei cavalli. Le bestie, dopo essere piombate nella massa dei predoni, ora stavano puntando sugli elfi. I cavalli sentivano la fredda aria della notte, e sapevano per istinto che quell'inferno di fiamme e urla si sarebbe spento nel buio. Così galopparono verso la notte, incuranti degli elfi che si trovavano di mezzo.

Il terreno tremava e nell'aria si alzava un cupo rombo ma Anewen non si curava più di nulla ormai. Stava correndo con i suoi soldati, e dietro di sé poteva sentire i respiri dei cavalli resi folli dalla paura. Inciampò in un corpo e sentì qualcosa ferirgli la mano, ma non si fermò a guardare. Si alzò più in fretta che poté e continuò a correre come un dannato. Sentiva i polmoni bruciare, e sapeva che era questione di attimi prima che i cavalli li travolgessero tutti. Le bestie erano così vicine che poteva sentire l'odore pungente del loro sudore, e i terrificanti nitriti di paura lo spronarono a correre ancora più veloce. Un fante cadde, ma non ebbe il tempo per rialzarsi. Un cavallo gli fu subito addosso e lo schiacciò sotto gli zoccoli. L'elfo cercò di ripararsi, ma poi un secondo cavallo lo travolse e lo colpì alla testa, uccidendolo sul colpo. Ormai le bestie erano vicinissime e gli elfi che rallentavano o cadevano venivano travolti inesorabilmente. Anewen sentiva il pesante respiro di un cavallo dietro di sé, e si costrinse a correre ancora più veloce, sebbene i polmoni gli scoppiassero e i muscoli bruciassero per lo sforzo. Un arciere cercò di liberarsi dell'arco che lo impacciava, ma così facendo non vide un cumulo di neve davanti a sé e inciampò, e cadde a terra con un urlo. Non ebbe il tempo per realizzare di essere morto, perché i cavalli lo investirono con una valanga di pesanti zoccoli. Il corpo sparì sotto il branco in corsa, ma ormai non c'era più nulla da fare per lui. D'un tratto la neve si fece più profonda, cosa che impacciò i movimenti degli elfi ma che nello stesso tempo rallentò anche la folle carica dei cavalli. Poi, finalmente, Anewen si trovò di colpo nel buio della notte e un vento gelido gli artigliò la pelle. Gli altri fanti, non appena si resero conto di essere fuori dall'accampamento, rallentarono istintivamente, terrorizzati dal vedere altri predoni sbucare dalla notte, con l'unico risultato che alcuni di loro vennero travolti. – APRITEVI! LASCIATE PASSARE I CAVALLI! – urlò il Capitano, con i polmoni in fiamme. Laraif, che era apparso come per magia, tuonò lo stesso ordine ai suoi Cacciatori. Mostrando un ultimo barlume di coordinazione, gli elfi si aprirono a ventaglio, come un unico corpo, disperdendosi tra la neve proprio quando il branco di cavalli lanciati al galoppo irrompeva fuori dall'accampamento. Le bestie imbizzarrite corsero dritte verso il buio, ignorando gli elfi a pochi passi da loro. Solo pochi fanti sfortunati che si erano trovati sulla loro traiettoria vennero travolti, ma Anewen sapeva bene che, se gli elfi non si fossero lanciati di lato prontamente, le bestie ne avrebbero schiacciati molti di più. Il rombo degli zoccoli e i nitriti dei cavalli si spensero lentamente nel buio, e poi il silenzio calò su di loro. In quel tremendo istante di vuoto tutto ciò che avevano visto entrò prepotentemente nell'animo degli elfi, e la cupa quanto dolorosa verità si fece largo nella loro mente. Tutto era perduto. Tutto era finito. I loro compagni massacrati a migliaia, le loro tende in fiamme e il loro esercito infranto per sempre.

E non era un sogno. Era la cruda realtà.

No. Non poteva essere. Eppure, nel profondo della propria anima Anewen sapeva che era tutto perduto. Non era un sogno, e nemmeno un incubo. Era la realtà. Migliaia di loro erano stati massacrati in una notte di terrore e di sangue, di urla e di asce. Di colpo, tutto il peso della verità calò su Anewen, che sentì le lacrime salirgli agli occhi. Scoprì di essere improvvisamente stanco e debole, ma si costrinse ad allontanarsi dall'accampamento in fiamme, da dove giungevano le urla irate dei predoni, ai quali era stata strappata la preda. I soldati accanto a lui si muovevano con fatica, come se fossero appena usciti da un incubo, e alcuni di loro crollarono esausti nella neve. Ma bisognava allontanarsi il più possibile. Non si poteva cedere. Anewen costrinse il proprio corpo distrutto a continuare a camminare nella neve sempre più alta, ma alla fine cedette. Le gambe non gli risposero più e la vista gli si offuscò. Cadde nella neve gelida, sentendo il freddo contatto del manto bianco sul viso. Cercò di alzarsi, ma una pesante coltre iniziò a calargli sulla mente. Non c'era più nulla da fare. Tutto era perso. Con ultimo respiro roco, la stanchezza prese il sopravvento su di lui, e Anewen perse i sensi.

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