Serendipità

By denardip

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Forse li avete 7 minuti per leggere questo racconto. Tanto magari li sprecherete comunque, 7 minuti, prima di... More

Serendipità

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By denardip


Sbattè la porta talmente forte che il libro lasciato sul mobiletto in ingresso volò sul pavimento, cadendo in picchiata come un aereo colpito in pieno dalla contraerea nemica.

Rimbalzò sul parquet e rimase lì, spalancato sulla prima pagina, dove poche parole, recitavano:

"Serendipità:

la fortuna o il destino del trovare qualcosa di piacevole

o di valore mentre non lo si stava cercando."

Lei era uscita di corsa, lasciandosi alle spalle tutto: la borsa, il portafoglio, le chiavi di casa, il cellulare e una parte di sé che ormai non sentiva più sua.

Uscì vestita com'era, senza nemmeno un filo di mascara a difenderle gli occhi.

Cercò le chiavi della macchina e imprecò, anche se non lo faceva mai, quando si rese conto di averle lasciate dentro ed essersi chiusa fuori.

Girò nervosa per il garage, pensando a come sbollire la rabbia.

Poi, notò il telo e lo scostò, scoprendo la moto.

La fiancata portava ancora i segni del cacciavite con cui gliel'aveva rigata.

Si era quasi messo a piangere, domandandole come aveva potuto fare questo alla "sua piccola".

Quella, era "la sua piccola".

Una stupida moto era il suo progetto di vita, non chi aveva sprecato i suoi anni più belli a stargli accanto, illudendosi che servisse a costruire qualcosa di solido e duraturo.

Cercò il barattolo sulla mensola più altra.

Per fortuna c'erano le chiavi di riserva.

Mise in moto, e l'indicatore della benzina indicava quasi il pieno.

Allora indossò il giubbotto, si allacciò il casco, montò in sella, e partì sgasando.

Sarebbe dovuta passare da suo padre a prendere almeno le chiavi di casa, ma non era il caso.

Gli sarebbe bastato guardarla per capire come stava, per contare uno per uno i demoni che aveva dentro.

Non avrebbe detto nulla, ma lei avrebbe riconosciuto il dolore nel suo silenzio complice, e suo padre, così buono e generoso, questo non lo meritava.

Le aveva detto subito che non era per lei.

Ma lei testona, niente.

Questo pensava, sgasando in autostrada, guidando male e in modo imprudente.

Decise di andare al mare, anche perché sarebbe stata impresentabile per qualunque altro posto.

Cantava nel casco, stonando e quasi urlando, per anestetizzare il dolore, con lo stesso effetto di una caramella contro la febbre alta.

Stringeva il manubrio fino a farsi le nocche bianche.

Il cielo era plumbeo, e non aveva altro che il giubbotto, in caso di pioggia.

Accelerò lungo il rettilineo circondato solo dalla campagna vuota.

L'estate era ormai finita, e con lei tutto il resto.

Arrivò prima del previsto.

"Giusto in tempo per la pioggia.", pensò tra sé e sé, ironica.

Tirava un vento fastidioso, ma il giubbotto le faceva mancare l'aria.

Lo lasciò nel bauletto, chiuse fino al collo la zip della felpa, e si incamminò.

La spiaggia era deserta.

Decise di dirigersi verso il faro.

Era la parte più brulla e desolata, la più adatta a lei, ora.

Guardò il grigio.

Avrebbe aspettato ancora un po', prima di piovere.

Sperava non troppo, così avrebbe potuto lasciarsi andare a qualche lacrima che si sarebbe mescolata a quelle del cielo.

Solo un paio, mentì a se stessa, sapendo che, se avesse iniziato, non avrebbe certo smesso in fretta.

Si sfilò le scarpe, e immerse i piedi in acqua.

Li tolse subito, visto che era terribilmente fredda.

Una folata di vento le soffiò la sabbia nei capelli.

Pensò infastidita che avrebbe dovuto lavarli, la sera.

E magari tagliarli, l'indomani.

Un taglio netto, deciso. Perché è così che si fa.

Guardò il mare.

Spumava cattivo, pronto alla burrasca, ma lei non riusciva a coglierne la forza, la bellezza.

Non riusciva a vedere nulla, di tutto ciò che aveva intorno.

Da quanto?

Settimane?

Mesi?

Anni?

Sarebbe dovuta tornare indietro, pensò.

Tornare indietro.

Quello che consigliavano tutti.

Sì, ma quanto?

Quanto indietro?

Prima degli errori?

Prima delle incomprensioni?

Prima di tutto?

Prima ancora, al tempo dei sogni ingenui?

Ancor prima, prima di crescere e imparare quanto si poteva star male?

Prima ancora, ai suoi giochi di bimba, l'ultima volta che le sembrava di esser stata davvero felice?

Il cielo si scurì.

"Dai, muoviti!" pensò, rivolta alle onde sempre più alte e schiumose.

Proseguì avanti.

"Indietro non si torna!", sussurrò a se stessa.

Fu distratta da un grido lontano.

Alzò lo sguardo in direzione del faro.

C'era qualcuno, in acqua fino al ginocchio.

Si chiese cosa ci facesse, lì con quel tempo, nell'acqua fredda.

In lontananza, una donna che non riusciva a mettere bene a fuoco, guardava il mare.

Lo guardava con un occhio dolente, ancora lievemente tumefatto dalle botte prese.

Gli gridava contro, con il labbro gonfio e tagliato, rispondendo alla sua collera.

Gli gridava il suo dolore, il dolore dei suoi polmoni, delle costole incrinate, di quel ventre che forse non le sarebbe più servito a nulla.

Gli gridava la sua rabbia, ma anche la sua paura e il suo dolore.

Avrebbe avuto voglia di nuotare al largo, fino a lasciarsi inghiottire dalle onde.

Quando il cielo tuonò, pensò che le sarebbe bastato anche solo un fulmine.

Uno schiocco di dita del cielo che l'avrebbe ridotta in polvere fina, da soffiare poi via in un giro di vento silenzioso, mescolata alla sabbia.

O una grandinata, capace di trafiggerla più di quanto non fosse già trafitta.

La vide arrivare, così minuta e fuori luogo di fronte ad una natura così grande.

Si sentì stupida, lì, in mezzo al mare gelato a gridare come una scema.

Uscì dall'acqua e si incamminò nella direzione dell'altra, tirandosi su il cappuccio della felpa per nascondere il viso pesto.

L'altra la vide arrivare e fece lo stesso, in modo automatico.

Anche salutare le costava fatica.

Un momento prima di incrociarsi, con le teste basse rivolte al mare, il cielo tuonò talmente forte da farle tremare entrambe.

Si fissarono, per un istante, scosse dallo spavento.

Una notò le botte, l'altra la malinconia profonda.

Due gocce d'acqua grosse come ciliegie, colpirono la testa di entrambe.

"Corri!", gridò la donna con il viso pesto.

L'altra la seguì, in mezzo a quel nulla.

Si allontanarono rapide dal mare, mentre le gocce diventavano una, due, dieci, cento e cambiavano il colore della sabbia.

Corsero verso la pineta.

La prima scavalcò agile un dosso di sabbia, stringendo i denti dal dolore e si infilò tra i rami.

L'altra la seguì, incerta, con i piedi che le facevano male punti dagli aghi di pino.

Si rifugiarono sotto una costruzione di tronchi, foglie e plastica di recupero.

Il cielo si infuriò.

L'acqua sembrò condividere ciò che avevano dentro; scendeva a secchiate e confondeva la vista, mentre il rumore copriva tutto.

Pezzi di ghiaccio cominciarono a rimbalzare intorno a loro.

Erano accucciata l'una accanto all'altra, sedute sulla sabbia abbracciandosi le ginocchia, attente a non sbattere la testa sul tetto del riparo improvvisato.

Erano abbastanza vicine da ripararsi un po', ma lontane a sufficienza da non sfiorarsi.

Non si presentarono.

Non dissero nulla.

Si limitarono a fissare un punto nel vuoto, fuori, verso il mare.

Entrambe si studiavano con la coda dell'occhio; gli sarebbe piaciuto guardare meglio gli occhi che avevano visto per un secondo, capire cos'avevano da raccontare.

Occhi grandi e profondi, tristi.

La più minuta si sforzava di non piangere, di fronte ad una sconosciuta che probabilmente se la passava ben peggio di lei.

Si girò, voltandosi di lato.

L'altra fece lo stesso.

Il rumore forte intorno a loro rendeva le parole innecessarie.

Avevano freddo.

Quella ferita batteva piano i denti, mentre le guance dell'altra piano iniziarono a inumidirsi, mentre due rigagnoli delicati che le scivolavano giù dagli occhi.

L'altra capì come stava, capiva tutto di quel pianto sommesso e silenzioso.

Avrebbe voluto fare qualcosa.

Parlarle, abbracciarla.

Ma non era in grado.

E sapeva, lo sapeva con certezza, che non erano sue le mani capaci di consolarla, o le punte delle dita capaci di passare piano, con dolcezza, sulle sue ciglia umide per asciugarle.

E pensò di nuovo al fulmine, e al volare via, come polvere, semplicemente.

Quando la sentì tirare su piano col naso, ormai pieno di muco, si frugò in tasca.

Un pacchetto di fazzoletti era tutto quello che aveva da offrirle.

Glieli passò da sopra la testa, appoggiando la schiena contro quella di lei.

Rimasero così, per sentire meno il freddo, schiena contro schiena, abbracciandosi più forte le ginocchia.

Una continuava a piangere piano, quasi con vergogna di disturbare, l'altra ascoltava il suo dolore abbastanza forte da coprire il rumore del cielo.

Poi iniziò.

Dicendole forse solo le parole che era lei a voler sentire.

Senza guardarla, fissando il cielo grigio, la burrasca, la spiaggia desolata.

Senza un preambolo, così.

"Arrivano prima le frecciatine, poi le domande.

Poi seguono i giudizi e, alla fine, immancabili, le critiche.

Tutti sanno tutto della tua vita più di te e assolutamente meglio di te.

Arriverà un momento in cui ti sentirai piccola, o ti sentirai sola, o sarai semplicemente sopraffatta, o ti sentirai inutile e completamente inadatta, sbagliata e persa.

E, quel che è peggio, ad un certo punto smetterai anche di piacerti per come sei.

Arriveranno momenti in cui ridere ti costerà fatica, momenti in cui vorrai solamente gridare e rompere tutto e altri in cui non te ne fregherà niente di tutto ciò che hai intorno.

E questi ultimi saranno i peggiori.

Scoprirai che quegli stronzi dei tuoi amici li avevi solo quando sorridevi sempre, e ti farà male, anche se non lo ammetterai.

Dei suoi, di amici, ovviamente dimenticatene.

Posso solo dirti che se davvero e questo ciò che ti fa male, sei fortunata.

C'è di peggio, te lo potrei dimostrare.

Ma ti garantisco che passerà. Passa sempre, solo non so dirti di preciso quanto tempo ci vorrà.

Ma passa, credimi.

Verrà il giorno in cui ricominci a volerti bene, e, semplicemente ti svegli col sole."

L'altra non rispose.

Ma quelle parole l'attraversarono come una spada, da parte a parte, arrivandole dentro, inaspettate, senza che lei potesse fermarle.

Rimasero così.

Immobili, senza guardarsi.

Poi l'altra iniziò a fischiettare piano.

Lei riconobbe la melodia, e iniziò a cantarla.

E cantando con un legnetto raccolto a terra a farle da microfono, mescolando la sua voce a quella della sconosciuta che cantava con lei, smise di piangere.

Poi anche il cielo smise di piovere, uscì il sole e con lui l'arcobaleno.

Quando le nuvole sparirono e il sole ritornò a scaldare, grugnendo per lo sforzo, l'altra corse via.

Lei la seguì con le scarpe in mano.

Superò di nuovo la duna, col fiatone, e la vide gettare a terra la felpa e i pantaloni per tuffarsi in mare e dirigersi verso il largo con bracciate rapide.

Raccolse le sue cose e si sedette in riva ad aspettarla, guardando la sua figura che si faceva sempre più piccola mentre andava incontro all'arcobaleno.

Quando la vide tornare, si alzò e le andò incontro, con i suoi vestiti in mano.

L'altra uscì dall'acqua di corsa e l'abbracciò, d'istinto.

Lei ricambiò l'abbraccio, anche se era bagnata e fredda.

Poi si staccarono, lei gli porse i vestiti, e le scompigliò i capelli, sorridendo.

L'arcobaleno era immenso e si rifletteva nel mare.

Si incamminarono verso casa.

Una sorrise, senza dischiudere le labbra.

L'altra abbozzò una specie di smorfia contratta dal dolore, constatando che li aveva davvero, gli occhi che pensava.

Continuarono a fissare l'arcobaleno, il più bello che entrambe avessero mai visto.

E capirono che valeva ancora la pena.

In parcheggio si guardarono, con le mani sprofondate nelle tasche delle felpe.

Avrebbero potuto scambiarsi il numero, presentarsi, abbracciarsi ancora.

E invece stettero lì, imbarazzate, esposte, vulnerabili, con le mani in tasca e gli occhi bassi.

"Beh, ci si vede!" disse quella con l'occhio pesto, guardandola un'ultima volta, cercando di fissare il colore dei suoi occhi per ricordarlo almeno per un po'.

"Ci si vede." Rispose l'altra, esplodendo in un sorriso che le scoprì i denti.

L'altra abbozzò un mezzo sorriso, forse tre quarti buoni, il massimo di cui era capace.

Poi, troppo in fretta, si voltò, portando con se un frammento di quel colore che, da solo, era più bello dell'arcobaleno sopra di loro.

"Ehi!" sentì gridare alle sue spalle, con una voce che le sembrò così forte per un corpo così esile.

"Dimmi!", disse, interrogativa.

"Abbi cura dei tuoi occhi!"

"Anche tu!", le rispose, alzando la mano in segno di saluto e sparendo.

L'altra tirò fuori dal bauletto il giubbotto, e sentì una moto poco distante.

Non poteva essere che lei.

Mise in moto e partì sgommando.

La raggiunse dopo qualche minuto, le si affiancò e la superò, sgasando.

L'altra le diede qualche metro, poi accelerò e l'affiancò.

Corsero qualche metro una accanto all'altra.

Poi si guardarono, alzando la visiera, e sorridendosi con gli occhi.

E accelerarono, lungo la strada lunga e rettilinea che avevano davanti, in direzione dell'arcobaleno.

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Questo racconto concorre ai Wattys 2018, quindi mi raccomando: metti una stellina qui sotto, condividi sui social e fammi un po' di pubblicità con i tuoi amici.

E, se ti piace come scrivo, leggi anche il resto delle mie cosette, mi faresti felice.

Grazie.

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